Lo scacchiere medio-orientale a 20 anni dall’attacco alle Torri Gemelle

Dalla guerra in Afghanistan all’invasione dell’Iraq: come la crociata degli Stati Uniti contro il terrorismo islamico ha destabilizzato il Medio Oriente.

Sara Montinaro

Sono passati vent’anni da quel lunedì di settembre in cui due aerei si schiantarono contro le Twin Towers a New York, un altro veniva dirottato contro il Pentagono a Washington DC e un quarto, in Pennsylvania, deviava probabilmente verso il Campidoglio.
Non erano trascorsi neanche due mesi dalle giornate del G8 di Genova che venivamo travolti da un evento che avrebbe segnato il mondo di là da venire. Mentre nel luglio di quell’anno i rappresentanti delle maggiori potenze si incontravano tra le calle della città ligure per consolidare un moderno ordine economico-sociale internazionale inaugurando una “nuova gestione dell’ordine pubblico”, l’attentato alle Torri Gemelle suggellò l’inizio di una nuova era.

L’Afghanistan, ritenuto responsabile dell’attacco alle Twin Towers a causa della protezione offerta dai talebani ad al-Qaida, veniva invaso. Iniziava così quella che può essere considerata una vera e propria crociata: gli Stati Uniti andavano costruendo le basi ideologiche contro il nemico terrorista islamico, iniziando a introdurre i concetti di guerra preventiva, Stato canaglia, esportazione della democrazia, missioni di pace e guerra al terrorismo.

Assieme all’occupazione dell’Afghanistan, a destabilizzare e modificare in modo profondo e permanente il Medio Oriente ci pensò poi l’invasione dell’Iraq nel 2003, portando quel quadrante a cambiamenti dalle geometrie ancora oggi variabili e fluide. L’intervento militare a guida statunitense-britannica, oltre a cacciare Saddam Hussein, distrusse infatti la società civile irachena gettando le basi per il proliferare di un sentimento di rancore nei confronti della coalizione internazionale e nutrendo il sogno di liberazione di quei territori da dall’invasore occidentale.

È in questo contesto che avviene la radicalizzazione di alZarqāwī, padre ideologico del sedicente Stato islamico. Giordano-palestinese, partecipa al conflitto afghano sin dal 1989, sul finire delle ostilità contro le milizie russe, ed è proprio in quelle terre che, tramite gli insegnamenti ricevuti da Osāma bin Lāden, si fa le ossa in termini di jihad. Con il fine di destabilizzare ulteriormente il territorio a cavallo tra Iraq, Libano e Iran, fonda l’organizzazione al-Jamāʿat al-Tawḥīd wa l-Jihād guadagnando una certa notorietà agli occhi di bin Lāden, al quale presta giuramento di fedeltà nel 2004 facendo assumere al movimento da lui guidato il nome di al-Qaida in Iraq (AQI).

L’eccessivo uso della violenza e le sanguinarie esecuzioni nei confronti della popolazione locale (comprese le altre minoranze musulmane) fanno sì che i mujaheddin fedeli all’organizzazione di bin Lāden prendano sempre più le distanze dal nuovo gruppo, fino alla definitiva spaccatura tra al-Zarqāwī e al-Qaida. L’AQI diviene ISI (Stato Islamico dell’Iraq). Di lì a breve ISIS[1].

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La guerra in Afghanistan e il proliferare di organizzazioni fondamentaliste arrivate fino ai giorni nostri non solo sono collegate, ma hanno altresì radici comuni che vanno fatte risalire alla diffusione dell’islam politico quale movimento che promuove l’islamizzazione della società araba. Erigendo l’islam a ruolo di guida etica, il fine è quello di evitare l’eccessiva occidentalizzazione del mondo arabo. Nato e promosso da Sayyd Qutb (citato sovente dallo stesso bin Lāden nei suoi scritti), l’islam politico è l’ideologia per esempio della Fratellanza Musulmana, che predica il ritorno ad un islam puro, enfatizza il ruolo politico degli arabi in termini di opposizione all’occidentalizzazione dei costumi e al colonialismo europeo, individuando in quest’ultimo uno strumento di corruzione della morale e della società. Perseguitato e represso (Quṭb sarà giustiziato nel 1966) l’islam politico acquisì via via sempre più consenso e influenza internazionali. Declinato diversamente a seconda dei contesti in cui aveva attecchito, non perse mai di vista il suo obiettivo politico: la creazione di un Emirato, costruito attorno alla legge delle sharia in un sistema totalizzante senza distinzione tra sfera religiosa e sfera civile. All’interno di questo contesto si assiste alla nascita di molteplici organizzazioni jihadiste le quali, caratterizzate da differenti idee e posizionamenti, danno vita ad una costellazione nella quale spicca il sedicente Stato islamico.

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Conosciuto altresì come Daesh o come ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e della Siria), esso ha avuto la capacità di imporsi in modo dirompente sullo scenario contemporaneo. 40 mila foreign fighters (sono questi i dati dell’Interpol) ci mettono d’altronde dinanzi a un movimento che potremmo definire globale e transnazionale. Costruito attorno al concetto di umma, il Califfato propone una idea di comunità che va aldilà dei confini politici, geografici e nazionali individuando nella religione e nella fede l’unico elemento fondativo. Uno Stato islamico, dunque, per definizione globale.

Facendo ricorso all’utilizzo di dogmi sacri e alla rievocazione “mitologica” (lo stesso termine “Califfo” è un riferimento al suocero del profeta Mohammed, uno dei primi quattro “califfi giusti”, che evoca l’età dell’oro, fase ritenuta sacra dalla umma musulmana), il Califfato costruisce una narrazione avvincente. Crea un immaginario capace di coniugare la ricerca di riscatto sociale con una nuova identità, mette assieme il compimento di una realizzazione spirituale con una immagine di forza e potenza. Immaginario che conquista, appunto, ampi spazi anche all’interno delle società occidentali.

Il ricorso alle più moderne tecniche di comunicazione, la creazione di riviste, radio, videogiochi, siti internet e l’abile utilizzo dei social network sono stati gli ingredienti di un’attività di proselitismo e di una campagna di reclutamento con tecniche informatiche e telematiche sempre più avanzate che si configura come una vera e propria costruzione di un brand. La declinazione della jihad nella piattaforma mediatica è stata una strategia comunicativa costante e invasiva che ha aperto le porte a un franchising del terrore facilmente emulabile, inaugurando una stagione in cui è possibile fare la jihad con un click dal proprio divano di casa. Come afferma Bruno Ballardini «sul piano mediatico l’ISIS rappresenta in un certo senso l’11 settembre di internet, la prima grande sconfitta della rete»[2].

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Ed è proprio in tale prospettiva che bisognerebbe chiedersi quale sia il messaggio mediatico lanciato dall’ISIS K con l’attentato all’aeroporto di Kabul. L’Isis K (ossia l’Isis proveniente dalla provincia del Khorasan) dimostra come Daesh, seppur sconfitto geograficamente, continui in realtà a organizzarsi e a tessere le fila in attesa del momento giusto per scompaginare ulteriormente lo scenario. Se la Coalizione internazionale il 23 marzo 2019 ha dichiarato la sconfitta dello Stato islamico, i mujaheddin non hanno infatti mai smesso di combattere. Nel silenzio dei media occidentali attentati ed esecuzioni nel deserto siriano ed iracheno hanno continuato. Le ragioni del recente attentato all’aeroporto di Kabul sono diverse: che ISIS e talebani si fronteggino a suon di bombe oramai da anni è elemento conclamato. D’altronde sia la diversa interpretazione dei dettami religiosi sia la differente tattica-strategia di guerra (le medesime differenze che si riscontrano nei territori siriani tra Al Nusra – ossia al-Qaida in Siria – e l’ISIS) sono all’origine delle divergenze tra le due fazioni. Al di là di tali sfumature però, desta enorme preoccupazione il fatto che, tra la débâcle statunitense e la enorme crisi umanitaria già in atto, si stia prendendo in considerazione l’idea di legittimare il governo talebano al fine di stabilizzare quei territori.

E mentre il Califfato del terrore si ristruttura in Medio Oriente e si propaga nelle terre del Sahel africano, e i talebani approfittano del disimpegno Usa, l’Italia si avvia ad assumere ufficialmente il ruolo di guida della Coalizione Nato in Iraq, che vede una situazione sempre meno stabile, con le elezioni legislative dietro l’angolo (si terranno il prossimo 10 ottobre) a esacerbare il conflitto tra le forze politiche sciite e sunnite in campo.

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In tale scenario, la Turchia ha iniziato già da tempo a ritagliarsi un ruolo da protagonista. Travolta a suo tempo dall’ondata di proteste di Gezi Park e da quella che fu definita la Primavera turca del giugno 2013, i territori dell’Anatolia hanno visto il dissenso politico interno venir soffocato da Erdoğan con ogni mezzo (152.000 licenziamenti di massa e oltre 160.000 persone arrestate[3]).

Le ostilità nel mar Mediterraneo contro la Grecia e il forte investimento nella conquista della Patria Blu (cioè del mare), l’intervento armato in Libia, l’entrata in gioco nella regione contesa del Nagorno-Karabakh (intensificando il conflitto dell’Armenia contro l’Azerbaigian), la campagna militare avviata contro l’Amministrazione Autonoma del Nord Est della Siria (la stessa che ha sconfitto militarmente l’Isis) e la recente operazione nel Kurdistan iracheno, dove pare che siano state utilizzate armi chimiche (cosa che ha prodotto anche una interrogazione parlamentare[4]), sono le traiettorie lungo le quali si sta sviluppando la politica espansionista di Erdoğan.

Ed è con queste premesse, che proprio la Turchia si è candidata alla guida della missione in Afghanistan dopo il ritiro degli USA[5]. La stessa Turchia che minaccia l’Europa con l’invasione dei migranti lungo la rotta balcanica, che ha sostenuto economicamente l’ISIS acquistando illegalmente petrolio e che utilizza miliziani siriani in Libia e Azerbaijan.

Se quindi lo scenario non induce a grande ottimismo, non ogni speranza è perduta: pensiamo all’Amministrazione Autonoma del Nord Est della Siria. Un esperimento di auto-governo all’interno del quale le donne sono il soggetto protagonista del processo di democratizzazione della società. Un sistema politico che supera le divisioni settarie a favore della pacifica convivenza tra le diverse etnie e religioni. Un modello che non solo andrebbe studiato, ma sostenuto e difeso.

[1] Per un approfondimento si veda Sara Montinaro, Daeş Viaggio nella banalità del male, Meltemi 2020.

[2] Bruno Ballardini, Isis. Il marketing dell’Apocalisse, Baldini&Castoldi, 2015.

[3] Si veda, tra gli altri, il sito di Amnesty International al seguente link: https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-2019-2020/europa-e-asia-centrale/turchia/.

[4] Parliamentary questions, Turkey’s invasion and chemical attacks in northern Iraq, 9 giugno 2021: bit.ly/3guwjVK.
[5] Repubblica, Marco Ansaldo, “Afghanistan, così la Turchia vuole prendere il posto degli americani”, 19 giugno 2021

 

(credit foto Robert J. Fisch CC BY-SA 2.0 via Wikimedia Commons)



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