Prosperi: “L’oblio della memoria ci condanna a rivivere gli orrori del passato”

Adriano Prosperi nel suo ultimo saggio denuncia con preoccupazione la perdita di memoria collettiva della nostra società. Lo abbiamo intervistato.

Roberto Vignoli

Adriano Prosperi, professore emerito di Storia moderna alla Scuola Normale Superiore di Pisa, nel suo ultimo saggio (“Un tempo senza storia. La distruzione del passato”, Einaudi, 2021), denuncia con preoccupazione la perdita di memoria collettiva della nostra società. Lo abbiamo intervistato.

Professore, nel libro riporta i dati di un’indagine Eurispes secondo cui nel 2020 il 15,6 per cento della popolazione italiana crede che la Shoah non sia mai esistita. Nel 2004, era il 2,7 per cento. Che cosa è accaduto e che cosa non ha funzionato nella trasmissione della conoscenza storica?

È un dato terrificante. Ma non si spiegherebbero altrimenti le minacce di aggressione alla senatrice Liliana Segre – ammirevole donna che ha dato esempi straordinari di coraggio e lucidità, anche nell’uscire dal silenzio in cui hanno preferito rimanere molti sopravvissuti alla Shoah – costretta ad avere una guardia del corpo. Per non parlare del risorgere del neonazismo in Germania, dove l’AFD è un fenomeno di massa, e del diffondersi di sindromi complottarde come QAnon che hanno sempre l’antisemitismo come ingrediente abituale. Come scrisse Primo Levi: “È accaduto, può accadere di nuovo”. Nessuno immaginava che arrivasse così presto, ma ci siamo di nuovo. L’idea di questo libro nasce nel 2017 durante un incontro pubblico a Genova e matura nel 2019 per impulso di Ernesto Franco (Einaudi) in un momento particolarmente crudele: navi cariche di migranti ferme fuori dai porti, gente che moriva (come oggi) attraversando il Mediterraneo. Ebbi allora la sensazione di un ritorno dell’epoca in cui i treni carichi di ebrei deportati nei lager tedeschi attraversavano stazioni dove la gente si girava dall’altra parte. In quell’Italia, grazie all’influsso sulle coscienze di decenni di imprese coloniali, di idee di impero e soprattutto di meccanismi di esclusione sociale, si era diffuso un sentimento di indifferenza per la sorte di una minoranza, gli ebrei, intorno alla quale la propaganda del regime e delle gerarchie ecclesiastiche – specialmente dei gesuiti – aveva aperto la strada all’idea che aspirasse al dominio del mondo e alla rovina dei cristiani. È il problema riassunto nella domanda di Primo Levi: se questo è un uomo. Un problema che ritorna periodicamente nella storia della cultura occidentale in meccanismi di dominio che riescono a convincere che ci sono livelli di dignità umana, alcuni da tutelare e altri invece no.

Nel libro scrive che “una vera trasmissione della conoscenza storica e non la distratta ritualità della memoria degli errori passati avrebbe arginato meglio il ritorno della peste razzista e fascista”. Come si può dare un futuro alla memoria oltre la durata della generazione dei testimoni?

La risposta non è facile, ogni generazione vive nel suo presente e dimentica ciò che era familiare a quella precedente. Ma il problema fondamentale è che si dica la verità. Nel libro mi sono permesso di criticare un documento del Parlamento europeo (“For the importance of European remembrance for the future of Europe”) che ha sezionato il quadro europeo della storia in maniera completamente arbitraria e fortemente discutibile. È un testo che risponde a un bisogno reale: esiste un’Europa nella misura in cui riesce a produrre un salto di qualità nella percezione della storia. Però se questa storia proposta dalla UE è fasulla e soggetta a interessi nazionali, allora non serve a niente. È un segno che l’Europa è ancora senza anima, un’organizzazione di tipo finanziario politico in cui sussistono memorie nazionali dominanti e memorie nazionali dominate, in cui si può tranquillamente minacciare di espulsione la Grecia dimenticandosi che cosa è stata la Grecia per la costruzione di una cultura europea.
La conoscenza della storia può renderci liberi dalla minaccia di un ritorno del passato, ma c’è un problema di giustizia. Occorre tenere conto di quello che è accaduto con la Shoah, ripristinando la conoscenza storica a partire da questa enorme tragedia in cui la cultura europea è naufragata definitivamente, mettendola al centro del nostro orizzonte. Il punto cruciale è restaurare la giustizia, non cancellare ciò che è accaduto o ritagliare la memoria in funzione di interessi specifici e di comodo.

Nel libro critica la retorica diffusa della “memoria condivisa”: “Storia e memoria condivisa vanno in direzioni opposte. L’una esplora e racconta il passato, l’altra lo cancella e sull’oblio incide un patrimonio comune, tonificante e falso”. Può spiegarci meglio?

La retorica della memoria condivisa è nata con il lamento sull’Italia lacerata da memorie conflittuali. L’idea era quella di cucirle insieme con un atto chirurgico: chi era morto durante la Seconda Guerra Mondiale doveva avere diritto agli stessi onori e allo stesso tipo di memoria, sia che avesse combattuto da partigiano sia che si fosse schierato accanto alle SS. Il liberismo al potere ha poi proposto di cambiare la Festa della Liberazione in festa della libertà, la parola più usata e abusata che ci sia mai stata. La memoria collettiva di un paese, secondo questa visione, dovrebbe prendere la forma richiesta dal potere dominante. Ma si tratta di un inganno che tradisce la natura stessa della ricerca storica, che ambisce alla conoscenza della verità.

La malattia dell’oblio, sempre più diffusa nel mondo, a suo avviso lo è in modo speciale nella realtà italiana, come mai?

Nella società italiana c’era una grossa presenza di partiti di massa divisi dalle ideologie ma concordi nell’orientamento generale del governo del paese e c’erano le strutture organizzative create dal movimento operaio. Poi tutto questo è scomparso. E insieme ai diritti dei lavoratori, e ai lavoratori stessi come categoria, è scomparsa la memoria come dimensione collettiva della vita sociale. Al suo posto si è installato qualcosa di completamente diverso, l’idea dell’identità italiana. Hanno convinto le persone che chi nasce da sangue italiano è italiano mentre chi viene qua per lavorare, no; è del resto evidente il carattere razzista della nostra legge sulla cittadinanza. L’idea di identità fa comodo perché così una popolazione che si impoverisce scatena le sue frustrazioni sui lavoratori in arrivo. Questa dei conflitti che si scaricano contro chi non c’entra è una storia vecchia come la storia del mondo del lavoro.

Che cosa si può fare per contrastare la perdita di memoria collettiva?

Bisogna chiedere al nuovo governo di prendersi finalmente cura della scuola che è stata abbandonata e impoverita, invece di luogo di formazione di libere personalità attraverso la cultura è diventata luogo di formazione di competenze funzionali alle richieste del mondo del lavoro. Un tempo gli insegnanti avevano la possibilità di godere di periodi di recupero e congedo per ragioni di studio. Tutto questo è sparito. La posizione professionale dell’insegnante è decaduta. L’insegnamento stesso della storia è stato marginalizzato, la materia è stata cancellata dall’esame di maturità come una sopravvivenza priva di significato. Ma gli studenti non hanno soltanto il diritto/dovere di andare a scuola, hanno il diritto di avere una scuola ricca, aperta, dove il sapere circoli e sia permesso agli insegnanti di tornare a essere persone colte. Quanti insegnanti comprano ancora libri? Molti ne fanno a meno perché lo stipendio non glielo permette più. La scuola ha bisogno di risorse, che sono state cancellate da una privatizzazione nefasta di cui paghiamo ancora le conseguenze.

A proposito di distruzione del passato, che cosa pensa dell’iconoclastia del movimento Black Lives Matter che ha messo nel mirino i monumenti del razzismo sudista e anche le statue di Cristoforo Colombo?

Come dicevano i romantici, quando il popolo si desta Dio si mette alla sua testa. Eliminare i monumenti del passato è un fatto che si è ripetuto in tutte le rivoluzioni della storia. Però questa forma di protesta oggi   non sembra nascere da una rivoluzione ma piuttosto dall’impotenza e dalla frustrazione. Questi fenomeni vanno interpretati per vedere che cosa significano. La conquista europea è stata una grande tragedia per le popolazioni americane. La costituzione americana che parlava di libertà fu varata da proprietari di schiavi. La libertà allora c’era soltanto per gli invasori inglesi bianchi, non per le popolazioni chiamate pellerossa e per gli schiavi africani. La storia toglie l’illusione che gli ideali siano nati per partenogenesi, da menti illuminate, e non invece da grandi conflitti di forze contrapposte. Fare della storia una leggenda edificante significa tradirla. La storia è ricerca e ogni volta affronta qualcosa che era stato cancellato prima. Nel nostro presente, con la mondializzazione dei rapporti commerciali, c’è il bisogno di capire che cosa è successo alle altre culture che gli europei hanno cancellato, vedi le popolazioni delle zone coloniali, l’America invasa dalla Spagna e poi dall’Inghilterra, o hanno ignorato, per esempio le grandi civiltà dell’Oriente. La domanda di conoscenza della storia cambia man mano che cambia il nostro orizzonte.

 

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