Messico, “i cartelli della droga non esistono”

Pubblichiamo un estratto del libro "No se mata la verdad" - “Non si uccide la verità” - di Témoris Grecko, giornalista, regista e produttore cinematografico messicano che analizza il narcotraffico e il ruolo che la narrazione legata a questo fenomeno ha, ormai da trent’anni, nella società messicana. E non solo.

Témoris Grecko

In un Messico che ha passato trent’anni immerso nella avvolgente retorica della “lotta al narcotraffico” – dodici dei quali trascorsi nella fase ufficiale della “guerra ai narcos” -, e sempre più frustrato per il continuo aumento delle operazioni criminali, potrebbe sembrare quantomeno audace che diversi accademici e giornalisti continuino ad affermare che, in realtà, “i cartelli non esistono”, evidenziando il “mito del narcotraffico”.

[…] I gruppi criminali, grandi e piccoli, non si sono mai dati il titolo di “cartello”, tranne che in tempi estremamente recenti. Siamo al cospetto di un vero e proprio artificio ideologico. Etimologicamente, un cartello è un’alleanza di imprenditori intenti a eliminare la concorrenza per determinare in maniera unilaterale il prezzo di un prodotto. I “cartelli” del narcotraffico tutto sono tranne che un’alleanza, anzi, sono in feroce concorrenza tra di loro.

Il termine “cartelli” venne introdotto dai procuratori della Florida all’inizio degli anni Ottanta, quando iniziarono i processi contro le organizzazioni colombiane auto-nominatesi “Los Extraditables y Los Caballeros de Cali” (“Gli inestradabili e I Cavalieri di Cali”, ndt), che i funzionari chiamarono “cartello di Medellin” e “cartello di Cali”. Il primo ad affermare che “i cartelli non esistono” fu un avvocato di Medellin in un’intervista al giornalista britannico Ioan Grillo. “Siamo al cospetto di un gruppo di trafficanti di droga. Alcune volte lavorano insieme, altre no. I procuratori statunitensi li chiamano “cartelli” per semplificare. È tutto parte del gioco”. (Ioan Grillo, El Narco. Inside Mexico’s Criminal Insurgency, Bloomsbury Press, New York, 2011, p. 61).

Nel 1985, quando un gruppo chiamato “La Federazione” finì sulle prime pagine per l’omicidio dell’agente della Dea, Enrique “Kiki” Camarena, il crimine venne attribuito al “cartello di Guadalajara”. Le autorità messicane e i media hanno continuato a ripetere all’infinito questo messaggio.

Sebbene, quindi, il concetto di “cartello” non corrispondesse al fenomeno delle bande di contrabbandieri, questa parola è servita ai pubblici ministeri ad attribuire delle capacità organizzative superiori alla realtà e una natura spaventosa di questi gruppi criminali. In realtà, la parola “cartello” era solo uno slogan con un enorme peso nell’opinione pubblica volto a creare terrore.

Tra il 1973 e il 1985 gli Stati Uniti e i Paesi industrializzati dovettero affrontare una grave crisi petrolifera che immediatamente travolse i cittadini, che videro il prezzo della benzina impennarsi, e l’economia, che precipitò in recessione.

Il “grande cattivo” che colpì lo stile di vita americano era l’OPEC, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio. Un vero cartello. “IL” Cartello.

Questo è ciò che un cartello può fare: cospirare per dominare il mercato. I pubblici ministeri della Florida non sono solo riusciti a convincere i giurati a condannare gli imputati incentrando l’accusa sull’enorme minaccia per la nazione, ma hanno messo le basi per una vera e propria lotta di potere. La parola “cartello” divenne, semplificando, un “best seller” politico e commerciale che creò una mitologia affascinante, quella del narcotraffico. E così hanno costruito un potente argomento di politica estera.

La questione delle droghe illegali fino a quel momento era trattata come un problema di dipendenza (salute pubblica) o di contrabbando (sicurezza pubblica) e in pochi la vedevano come una minaccia alla sicurezza nazionale, fino a quando Richard Nixon le ha assegnato questo carattere, all’inizio degli anni Settanta. Negli anni Ottanta, quando il traffico di droga è diventato un tema di sicurezza nazionale, il neoliberismo ha trovato un altro strumento per imporre la sua agenda in America Latina grazie a una visione securitaria che si è cristallizzata nel cosiddetto Washington consensus del 1989.

La lotta al narcotraffico diventa così una priorità continentale, e la strategia è stata incarnata a livello “binazionale” nel Plan Colombia 1999 (durante il governo di Bill Clinton) e nella Iniciativa Mérida 2007 (durante il governo di George W. Bush), anche conosciuto come Plan Mexico.

Accademici come Luis Astorga (Università nazionale autonoma del Messico), Fernando Escalante (El Colegio de México), Guadalupe Correa-Cabrera (George Mason University, Rice University), Oswaldo Zavala (City University di New York), e con loro giornalisti indipendenti come la canadese Dawn Paley, l’italiano Federico Mastrogiovanni e i messicani Ignacio Alvarado e Carlos Fazio hanno provato a spiegare le modalità in cui le politiche economiche e di sicurezza degli Stati Uniti abbiano provocato il terrore in paesi come il Messico e la Colombia.

[…] Come sottolinea Correa-Cabrera, sebbene “non ci siano ancora prove sufficienti per affermare che dietro decenni di violenze ci fosse premeditazione”, è possibile individuare “rapporti inequivocabili tra attori ed eventi” e sottolineare che i principali o potenziali vincitori della “guerra messicana” siano le grandi compagnie energetiche, le istituzioni finanziarie e l’intero comparto di sicurezza alla frontiera militare-industriale tra Messico e Stati Uniti.

Destabilizzazione, desplazamiento (fenomeno che consiste nello sfollare in maniera forzata la popolazione, principalmente indigena, dalle proprie terre, ndt), controllo dei territori da parte di attori armati (gruppi criminali, paramilitari e forze armate regolari) hanno favorito o favoriranno questi attori privati transnazionali.

La giornalista canadese Dawn Paley identifica tra i vincitori anche le fazioni dominanti del potere statale, delle forze armate e del sistema penitenziario da un lato, e dall’altro le industrie manifatturiere e dei trasporti. Paley include anche aziende multinazionali che, tramite il pagamento sistematico di tangenti a chi controlla il territorio, politici o criminali non c’è differenza, possono arrivare a occupare vaste aree di alto valore commerciale ormai occupate militarmente, evitando le resistenze della cittadinanza, stremata dal terrore, dalla “guerra al narcotraffico”.

Dall’altra parte della medaglia, sottolinea Correa-Cabrera, “gli sconfitti, in questa guerra, sembrano essere l’industria petrolifera nazionale e le persone più vulnerabili del Paese: coloro che non hanno le risorse per fuggire o difendersi dall’estorsione, dai rapimenti e da altre violenze perpetrate da gruppi criminali, paramilitari e forze governative. Gli spazi sono occupati da società private, principalmente transnazionali e sicuramente molto potenti. Il desplazamiento, le sparizioni di massa, la militarizzazione in luoghi chiave del Messico hanno svuotato terre strategiche, rendendole disponibili per investimenti, molti dei quali nel settore energetico. Allo stesso tempo, la guerra in Messico, come qualsiasi altra guerra al mondo, è diventata un grande affare per attori privati che forniscono servizi di sicurezza al governo, per uomini di affari e, ovviamente, per gruppi criminali.

Gli accademici e i giornalisti menzionati hanno osservato che, in Messico, i maggiori casi di violenza si registrano in aree che non necessariamente sono interessate da produzione o traporto di droga, ma che sono “di valore” per altre ragioni: per il gas (Cuenca de Burgos nello stato di Tamaulipas e Coahuila), oro (Tierra Caliente, Guerrero), petrolio (Tamaulipas e Veracruz), fabbriche (Ciudad Juárez, la frontiera del Tamaulipas), grandi opere (Chihuahua, Coahuila).

[…] Lanciando la sua “guerra al narcotraffico”, nel 2006, Felipe Calderón ha schierato l’esercito nelle strade, giustificando questo stato di eccezione come “assedio ai narcos”: l’intervento militare, secondo la sua tesi, avrebbe dovuto affrontare e risolvere in poco tempo il problema. Ma dal 2006, in Messico, lo stato di eccezione è la regola.

Mettere in discussione il mito del narcotraffico non significa negarne l’esistenza, ma serve per dimostrare come il fenomeno sia molto diverso da come viene dipinto dalla politica, dai media e, soprattutto, che non è il maggior problema del Messico: è una cortina fumogena, uno schermo. Affermare che i “cartelli non esistono” non è un tentativo di convincere chi ogni giorno soffre per le violenze delle organizzazioni criminali che sia solo immaginazione. È sostenere che le organizzazioni criminali non funzionano in questo modo e che non si dedicano solo a ciò che ci è viene raccontato. Affermare che “i cartelli non esistono” serve per rivelare che lo Stato ha le risorse per imporsi in questa “guerra.

Ma la mitologia del narcotraffico è servita a sostenere lo stato di eccezione permanente e a convincere la società che:

  • le organizzazioni criminali sono “cartelli” la cui attività esclusiva è il traffico di droga;
  • il narcotraffico è un potere quasi invincibile, in Messico e a livello globale;
  • se il traffico di droga è il nemico, dalla nostra parte c’è lo Stato che ci proteggerà;
  • dobbiamo sostenere lo Stato, e in maniera non discutibile, perché c’è il rischio che questo venga sconfitto dai “cartelli”;
  • i funzionari corrotti sono eccezioni, lo Stato lo è essenzialmente pulito;
  • le uccisioni sono dovute solo alle cosiddette “guerre tra cartelli”, mai alla violenza delle autorità;
  • la maggior parte delle persone che muoiono in maniera violenta non era innocente, ma aveva legami criminali;
  • per proteggerci, lo Stato deve fare tutto il necessario, schierare le sue forze come meglio crede, ed è giusto che si difenda dalle accuse per crimini, abusi e violazioni dei diritti umani;
  • la corruzione all’interno dello Stato è un male secondario che può aspettare di essere curato.

La mitologia del narcotraffico è servita per convincerci che questo sia il pericolo maggiore per la sicurezza del Paese, la priorità indiscussa. Così è possibile nascondere i progetti più dannosi, come la massiccia consegna dei territori e delle risorse del Paese alle multinazionali. Questi progetti sono rivolti all’estrazione di minerali e idrocarburi, allo sfruttamento forestale e agricolo, all’appropriazione di bacini idrici, allo sviluppo di grandi opere per la costruzione di gasdotti e oleodotti, che interessano non solo le nostre risorse naturali ma l’ambiente e la vita delle comunità indigene. Comunità che per gli interessi di tali imprese private devono essere sottomesse, neutralizzate o espulse.

Come sostiene Oswaldo Zavala, “un nemico permanente consente di giustificare azioni che altrimenti sarebbero illegali e persino immorali”.

[…] In questo scenario, un ruolo fondamentale lo sta giocando il mondo dei media, che ha fatto del narcotraffico un tema “da romanzo”, riprodotto in maniera incessante tramite “narconovelas”, “narco – serie tv” […]. Nella maggior parte dei casi – pur con importanti eccezioni – il giornalismo non è stato diverso rispetto alla letteratura di finzione o al cinema.

“L’invenzione di un nemico monolitico, organizzato in modo gerarchico, che domina tutte le fasi dell’impresa ed è quindi in grado di controllare addirittura il mercato e i prezzi ha sempre affascinato i politici, i poliziotti e i giornalisti”, sostiene l’accademico Luis Astorga. “I giornalisti raramente mantengono una distanza critica rispetto alle versioni politico-poliziesche, e alcuni addirittura confondono fatti realmente accaduti con storie che sono il prodotto di fantasie letterarie”. Questa è una resa professionale. “Per essere un giornalista hai bisogno di una base culturale importante, molta pratica e anche molta etica”, ha scritto Gabriel Garcia Marquez. “Ci sono tanti cattivi giornalisti che quando non hanno notizie, le inventano”. Ma il giornalismo dovrebbe essere direttamente interessato a diradare le cortine di fumo di queste narrazioni ingannevoli; i giornalisti dovrebbero essere spinti a farlo dai loro obblighi fondamentali nei confronti della società. L’ironia è che gran parte del giornalismo – in particolare quello dei media tradizionali con maggiori risorse – ha funzionato come un ingranaggio importante nel macchinario dell’inganno.

[…] Come spiega Oswaldo Zavala nel suo libro “I cartelli non esistono” (Los cárteles no existen. Narcotráfico y cultura en México, Malpaso, México) […] “riempire gli articoli di parole come narcos, sicario, piazza, guerra e cartello, fa riapparire immediatamente lo stesso universo di violenza, corruzione e potere”. Queste opere finiscono per essere un “oggetto politicamente configurato da discorsi ufficiali e non il risultato di una riflessione giornalistica indipendente”, limitando tutto “all’analisi dei presunti cartelli come principale fattore di criminalità, lasciando fuori dallo scenario il rapporto storico tra classe politica e criminalità organizzata”.

[Foto: [E]Guillermo Arias/Xinhua/ZUMAPRESS.com]

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