“La fine del secolo americano?”. È uscito il nuovo numero di MicroMega (1/2022)

Un numero monografico della rivista dedicato alla questione della fine del secolo americano con i contributi di alcuni tra i più autorevoli esperti di Stati Uniti. In vendita su shop.micromega.net e in libreria.

Redazione

A quattro mesi dal ritiro degli Usa dall’Afghanistan, MicroMega ha interpellato alcuni tra i più autorevoli esperti di Stati Uniti attorno alla questione, molto spesso evocata, della fine del secolo americano. Ne emerge un quadro ricco e complesso offerto al pubblico nel primo numero di questo 2022, in uscita il 13 gennaio.

Un numero interamente monografico, con la bellissima copertina a firma di Gianluigi Toccafondo, che si apre con l’ampia riflessione di Marco d’Eramo: un viaggio nella storia socio-economico-politica del Paese a stelle e strisce, sulle cui specificità forse non si è ancora riflettuto abbastanza.

Alla “geopolitica dell’impero” è dedicata una prima sezione della rivista diretta da Paolo Flores d’Arcais. In essa James K. Galbraith ripercorre in timelapse il “secolo americano”, concludendo che è giunto il momento per gli statunitensi di prendere sobriamente atto del fatto che il posto degli Usa nel mondo non è più egemonico. Sulla stessa lunghezza d’onda Pierfranco Pellizzetti che nel proprio contributo indica i nodi sociologici, economici e politici alla base di questa perdita di centralità degli Usa. Un fenomeno cui, come spiega Victoria de Grazia, contribuisce anche l’emergere di altre potenze, che minacciano l’egemonia a stelle e strisce non più solo sul piano economico, ma anche e soprattutto su quello del cosiddetto soft power, in cui gli Usa sono stati campioni. Fra queste potenze spicca, naturalmente, la Cina, sui cui rapporti con gli Usa si concentra il saggio di Simone Pieranni.

Alle debolezze che si collocano nel cuore del sistema è invece dedicata una seconda parte del numero, nella quale Fabrizio Tonello analizza le ragioni, alcune strutturali e storiche, altre contingenti, per cui il sistema politico americano si può definire un malato in prognosi riservata; Elisabetta Grande prende in esame la Corte suprema statunitense e i rischi che il suo funzionamento può rappresentare per la democrazia; Valerio Evangelisti si concentra sul fronte del lavoro e delle lotte sindacali, sottolineando come ai miseri salari offerti dal padronato e all’incapacità dei sindacati di rappresentare i loro interessi, centinaia di migliaia di lavoratori americani stiano reagendo in forma non più aggregata ma individuale; e Nicolas Guilhot analizza le teorie complottiste che serpeggiano nella società e che hanno nutrito l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, rilevando come la loro proliferazione rifletta il misero squallore di una cultura politica incapace di rispondere a milioni di persone che affrontano la perdita del loro mondo.

Ad alcune contraddizioni tutte americane è dedicata una terza sezione del numero, in cui Bernd Greiner mette in fila tutte le violazioni dello Stato di diritto e del diritto internazionale compiute dagli Usa durante la “guerra al terrore”, a partire dalle torture inflitte ai prigionieri nelle carceri di Abu Ghraib (di cui pubblichiamo diverse testimonianze); Fabio Armao descrive il processo di privatizzazione degli apparati militari, che mette il potere di guerra sempre più nelle mani dei consigli di amministrazione di aziende private; Marco Morini ripercorre il “quasi golpe” di un anno fa e cosa è accaduto nei mesi seguenti.

Arricchiscono il numero l’ampio saggio di Robert Boyers, che mette in luce come il secolo americano sia giunto alla sua fine non perché ci sono altre potenze mondiali in lizza per la supremazia, ma perché l’America è in gran parte nelle mani di persone così prive di qualsiasi sensibilità per le virtù illuministiche – e tradizionalmente americane – da rendere la società quasi irriconoscibile; e l’approfondimento di Samantha Michaels, dedicato a un importante progetto di giustizia riparativa che mira a rimettere insieme i pezzi di una storia dimenticata, quella degli omicidi razzisti risalenti agli anni Cinquanta e Sessanta.

Ricordiamo che MicroMega non è più in edicola ma si può acquistare nelle librerie e su shop.micromega.net in versione sia cartacea sia digitale, con la possibilità sia di acquisto singolo sia di vantaggiosi pacchetti di abbonamenti.

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IL SOMMARIO DEL NUMERO

IL SASSO NELLO STAGNO 1

Marco d’EramoL’eterno ritorno del declino americano
Stando alle tesi dei “declinisti”, l’impero americano avrebbe già dovuto essere morto e sepolto da un pezzo. Ma se siamo qui oggi a interrogarci ancora su un declino costantemente evocato e non ancora avvenuto è forse perché quello americano è un impero con delle specificità su cui non si è ancora riflettuto a sufficienza.

ICEBERG 1 – geopolitica dell’impero

James K. GalbraithQuale secolo americano?
Il “secolo” americano è stato in realtà un quarantennio, durato più o meno dal 1933 al 1973. Fu quello il periodo in cui gli Usa rappresentarono un modello che gran parte del mondo cercava di emulare o guardava con ammirazione. Ma quei giorni di gloria sono finiti da un pezzo. E oggi è indispensabile che gli americani prendano sobriamente atto del fatto che il posto degli Usa nel mondo non è più egemonico.

Pierfranco PellizzettiUn impero al tramonto?
Da tempo ormai gli Stati Uniti d’America hanno perso quel ruolo di centro e motore propulsivo del sistema-mondo occidentale esercitato per diversi decenni. Un declino iniziato nel periodo fra il trauma vietnamita e il trionfo neolib, in cui si è consumata la perdita dell’innocenza di un Paese abbarbicato spasmodicamente all’ideologia salvifica dell’happy end.

Victoria de GraziaGeopolitica del soft power
L’impero americano ha esercitato il suo potere nel mondo sia attraverso i classici strumenti degli imperi – la forza militare e il controllo economico – sia attraverso quello che il politologo Nye ha chiamato soft power, ossia la capacità di far convergere gli altri attori sulla propria agenda puntando sulla propria autorevolezza morale e culturale. Una strategia che oggi non è più appannaggio esclusivo degli Stati Uniti, ma che anche altri soggetti, a partire dalla Cina, stanno imparando a usare.

Simone PieranniUsa-Cina: una nuova guerra fredda?
Da qualche tempo ha iniziato a serpeggiare fra gli addetti ai lavori l’espressione “nuova guerra fredda” per riferirsi alle recenti tensioni fra Stati Uniti e Cina. L’espressione però è da un lato fuori luogo in quanto, a differenza di quelle fra Usa e Urss, le economie di Stati Uniti e Cina sono inestricabilmente intrecciate, e dall’altro pericolosa, perché rischia di diventare una profezia che si autoavvera.

ICEBERG 2 – Amerika

Bernd GreinerL’arbitrio dell’impero contro la legalità internazionale
Le immagini del precipitoso ritiro americano dall’Afghanistan hanno suggellato il totale fallimento della politica estera statunitense degli ultimi due decenni. E non solo perché i risultati della “guerra al terrorismo” sono stati Paesi devastati, milioni di profughi e reti terroristiche rafforzate. Ma anche perché i metodi usati dagli Usa (basti pensare ad Abu Ghraib) hanno inflitto un colpo durissimo al nucleo di valori attorno a cui la comunità internazionale aveva faticosamente lavorato dopo la devastazione delle due guerre mondiali: la difesa dei diritti umani e dello Stato di diritto.

Fabio ArmaoSe l’impero privatizza l’esercito
Negli ultimi decenni il ricorso a contractors e aziende private a cui appaltare le guerre è aumentato esponenzialmente. E se da un lato le ricerche hanno da tempo dimostrato l’assoluta infondatezza dei presupposti economici della privatizzazione degli apparati militari, dall’altro questa esternalizzazione della guerra rende lo Stato più debole, lasciandolo anche su questo terreno alla mercé delle lobby.

Marco MoriniL’assalto a Capitol Hill un anno dopo
Il 6 gennaio di un anno fa un manipolo di rivoltosi fece irruzione nella sede del Congresso statunitense, nel giorno della proclamazione ufficiale della vittoria di Biden. Un assalto avvenuto all’apice di una giornata molto tesa, in cui migliaia di manifestanti vennero aizzati dal perdente Trump a denunciare brogli e a marciare verso il Campidoglio. Un quasi golpe che ha mostrato tutta la fragilità del sistema politico americano. Ma chi erano quei rivoltosi? E che fine hanno fatto un anno dopo? Una ricostruzione.

MEMORIA

Sotto tortura
Le dichiarazioni giurate rilasciate da alcuni prigionieri che erano sotto la tutela dell’esercito americano nel carcere di Abu Ghraib, in Iraq, tra il 16 e il 21 gennaio del 2004, rese pubbliche dal Washington Post il 21 maggio 2004 e pubblicate in italiano su MicroMega 4/2004.

IL SASSO NELLO STAGNO 2

Robert BoyersSe l’America cancella se stessa
Il cosiddetto secolo americano è giunto alla sua ignominiosa fine non perché ci sono altre potenze mondiali in lizza per la supremazia, ma perché l’America è in gran parte nelle mani di persone così prive di qualsiasi sensibilità per le virtù illuministiche – e tradizionalmente americane – da rendere la società quasi irriconoscibile. Dalla destra becera che sovverte lo Stato di diritto alla nuova intelligencija di sinistra che promuove la cancel culture, come gli Stati Uniti hanno tradito se stessi.

ICEBERG 3 – una democrazia in stallo

Fabrizio TonelloPrognosi riservata
“Oggi tutti si chiedono se l’America sia stata raggiunta e superata economicamente dalla Cina e se la sua lunga egemonia sul sistema mondiale stia finendo. La risposta è che gli Stati Uniti rimangono di gran lunga il Paese militarmente più forte del pianeta, la loro economia è più robusta di quanto non sembri, la loro capacità di attrazione nei confronti del resto del mondo è sempre alta. Ciò detto, gli elementi di debolezza esistono e si collocano nel cuore del sistema”.

Valerio EvangelistiMetamorfosi della lotta di classe
A fronte dei miseri salari offerti dal padronato e dell’incapacità dei sindacati di rappresentare i loro interessi, centinaia di migliaia di lavoratori americani reagiscono in forma individuale, negandosi quale cibo nel banchetto altrui, rifugiandosi nel rifiuto e nell’anonimato. Con un prezzo da pagare: termina, con tale diserzione individuale, un’antica tradizione di solidarietà, che induceva alla coalizione. Finisce con ciò la lotta di classe negli Stati Uniti? Niente affatto. Frammenti sindacali esterni o marginali all’Afl-Cio, la più grande federazione di sindacati americana, raccolgono i più sfruttati degli sfruttati. Con che esiti sarà da vedere.

Nicolas GuilhotI complottismi e il vuoto della politica
Le teorie complottiste sono spesso talmente assurde da prestarsi facilmente a essere ridicolizzate, inducendo a considerare coloro che le seguono come affetti da un qualche deficit cognitivo. Eppure la loro proliferazione riflette il misero squallore di una cultura politica incapace di rispondere a milioni di persone che affrontano la perdita del loro mondo. Invece di ridurre la questione a un problema di “cattiva informazione” o di tare cognitive individuali, dovremmo dunque affrontare l’inadeguatezza della visione politica, di cui il complottismo si alimenta.

Elisabetta GrandeLa Corte suprema alla prova della politica
I giudici della Corte suprema statunitense sono di nomina politica ma rimangono in carica a vita, avendo quindi il potere di incidere sulla vita politica del Paese anche quando la maggioranza che li ha nominati non è più tale. Per questo motivo la legittimità della Corte si fonda sulla sua capacità, dimostrata più volte nella storia, di essere nonostante tutto indipendente dalla politica. La crisi di legittimità di cui soffre oggi mostra però che basta molto poco per incrinare il meccanismo.

SPERANZE

Samantha MichaelsVerità e giustizia sui “cold case” razzisti
Black Lives Matter ha mostrato quanto ancora negli Usa la questione razziale sia lacerante. Il movimento ha tenuto unite le famiglie delle vittime della violenza dei bianchi contro i neri, in una lotta la cui dimensione collettiva è già parte di un percorso di superamento del trauma. Tutti elementi completamente assenti in molte storie di omicidi razzisti risalenti agli anni Cinquanta e Sessanta, troppo spesso rimaste sepolte. Rimettere insieme i pezzi di una storia dimenticata, pretendere la correzione dei documenti, esigere il riconoscimento pubblico della verità – come si propone di fare il Progetto per i diritti civili e la giustizia riparativa della Northeastern University – sono passi indispensabili per lenire le ferite dei sopravvissuti. E iniziare a sanare quelle di una nazione.

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