Midterm Usa: la camera bassa ai Repubblicani, ma è una vittoria per Biden

Il risultato repubblicano al di sotto delle attese è un grande successo per i Democratici, favorito dall’iperpolarizzazione politica e dall’abbandono degli economicamente deboli.

Elisabetta Grande

Mercoledì 16 novembre i repubblicani hanno vinto la Camera dei Rappresentanti raggiungendo quota 218. Con ogni probabilità il quadro finale della stessa risulterà invertito rispetto alla tornata precedente: i seggi repubblicani finiranno per essere 222 contro i 213 democratici, mentre fino a ieri la situazione era specularmente opposta. Si tratta di una vittoria repubblicana assai al di sotto delle aspettative!

Negli Stati Uniti le elezioni di midterm, che cadono a metà del mandato presidenziale e mettono in palio 435 seggi alla Camera bassa – ossia la House of Representatives nella sua interezza – e un terzo del Senato –ovvero 35 seggi in questa tornata – sono tradizionalmente considerate un vero e proprio test di gradimento dell’amministrazione e del Presidente in carica. La regola è che esse riservino sorprese amare a chi è al timone. 13 delle ultime 19 elezioni di midterm si sono concluse con la perdita di entrambe le camere per il partito presidenziale e delle 6 rimanenti solo in un caso il partito al governo le ha mantenute entrambe (si tratta di George W. Bush, nel 2002). 4 degli ultimi cinque Presidenti, che avevano il controllo di camera e senato nell’anno della loro prima elezione, al midterm hanno perso almeno una delle due camere, a volte con disfatte notevoli. Barack Obama, per esempio, al primo midterm, nel 2010, subì una diminuzione di ben 63 seggi alla Camera, perdendone il controllo, mentre nel secondo midterm restò senza né Camera né Senato. Lo stesso Donald Trump al midterm perse 41 seggi alla Camera, che passò così in mani democratiche.

È per questo che, nonostante la conquista della Camera da parte dei Repubblicani, i democratici salutano i risultati di questa tornata come una grande vittoria. Malgrado la bassa approvazione popolare di Joe Biden (per tutto l’anno attestatasi sempre sotto il 45%) e la difficile contingenza economica – dovuta all’inflazione più alta da 40 anni a questa parte e al prezzo del gas che dal 2008 non si vedeva raggiungere le cifre attuali – Biden ha tenuto. Eccome se ha tenuto! Non soltanto il suo partito ha mantenuto il Senato e i risultati del ballottaggio del 6 di dicembre in Georgia ci diranno se non avrà addirittura guadagnato un seggio. Perfino alla Camera il numero dei posti persi è stato molto al di sotto dei pronostici: solo 6 per il momento, che non arriveranno a più di 9.

Alcuni studi statistici, basati su fattori prognostici legati al gradimento del Presidente e alla situazione economica – che peraltro si erano rivelati molto precisi nel 2018, quando la stima dei seggi persi da Trump aveva puntualmente trovato riscontro nei risultati delle urne – valutavano, infatti, in 45 i seggi che il partito democratico avrebbe perso alla Camera, ciò che avrebbe significato una House of Representatives formata da 177 democratici e 258 repubblicani. Altri studi, che insieme al basso gradimento del Presidente prendevano in considerazione il numero di seggi che il partito democratico avrebbe dovuto difendere, stimavano in una trentina i seggi che sarebbero stati persi alla Camera, dando per sicura una sconfitta netta di non meno di 12 – e tre quelli in meno al Senato.

Cosa ha prodotto un risultato così diverso dalle attese? Accanto al pesante gerrymandering, che connota la definizione dei collegi elettorali negli Stati Uniti e che blinda a favore dei partiti un certo numero di seggi a prescindere (di cui a suo tempo si è dato conto su questa rivista), è al fenomeno che John Sides, Chris Tausanovitch, and Lynn Vavreck hanno chiamato calcificazione del voto (The Bitter End: The 2020 Presidential Campaign and the Challenge to American Democracy, 2022) che sembra possibile ricondurre in grande misura la spiegazione. Si tratta di una calcificazione che oggi produce sempre più partigianeria negativa, in un mondo politicamente iperpolarizzato.

L’iperpolarizzazione politica e l’abbandono degli economicamente deboli

Come capita nel corpo umano, anche nel corpo elettorale la calcificazione produce rigidità e gli elettori che decidono di cambiare casacca sono ormai una specie in via di estinzione, spiegano Sides, Tausanovitch e Vavreck. Ciò accade – è questo il dato interessante segnalato da Pippa Norris e Ron Inglehart, in Cultural Backlash: Trump, Brexit, and Authoritarian Populism (2019) – perché i due partiti si dividono su linee ideologiche-culturali insormontabili, che li allontana sideralmente. Sempre Sides, Tausanovitch e Vavreck evidenziano, per esempio, che nel 1952 soltanto il 50% dei votanti pensava che ci fosse una grande differenza fra il partito democratico e quello repubblicano. Nel 1984 quella percentuale era pari al 62, nel 2004 al 76 e nel 2020 i convinti di una radicale differenza fra i due partiti erano addirittura il 90%. La competizione elettorale diventa allora una vera e propria guerra fra due fazioni, in cui la spinta a votare è determinata più dall’odio per l’altro che dall’amore per il proprio partito. Si vota, cioè, più contro che a favore: si vota il proprio partito, non tanto per attestargli o meno l’approvazione per ciò che ha fatto nel biennio precedente, in particolare sul piano delle politiche economiche, ma affinché non prevalga l’ideologia nemica.

È la così detta partisanship negativa, che trova linfa vitale nelle contrapposte posizioni dei due partiti su temi quali l’aborto, l’immigrazione, il controllo sulle armi, la critical race theory, la gender theory, i diritti dei LGBTQI+, il vaccino anti-covid, ma che tralascia completamente ogni questione di distribuzione della ricchezza, e perciò di giustizia economico sociale. Accecati dall’odio alimentato da questioni socio-culturali nei confronti del partito avversario, quando ben potrebbero essere uniti nella richiesta di una distribuzione più equa delle risorse, gli elettori non mettono infatti più in discussione il proprio partito – democratico o repubblicano che sia – in relazione alle politiche economiche che da più di quarant’anni a questa parte –indipendentemente da chi si è avvicendato al governo – hanno accresciuto a dismisura le disuguaglianze e prodotto una povertà crescente (si confronti l’ultimo rapporto dello US Census Bureau sul reddito e la povertà in America e, in particolare, le tavole storiche e, se interessati, il mio Guai ai poveri. La faccia triste dell’America, Sellerio, 2017). Si tratta della completa esenzione da ogni responsabilità sul piano “materiale” dei partiti politici e la sconfitta bruciante della parte più debole della popolazione statunitense. Da ciò Biden, che si presentava addirittura come il nuovo Franklin Delano Roosevelt – l’artefice cioè delle politiche redistributive che avevano condotto al trentennio glorioso della prosperità condivisa – ma che pur avendo dalla sua Camera e Senato non ha rispettato nessuna delle promesse di equità socio-economica fatte in campagna elettorale (si pensi soltanto che il salario minimo garantito è fermo dal 2009 a 7.25 dollari all’ora, quando perfino una paga di 15 dollari orari, pur promessa da Biden, garantirebbe a stento una sopravvivenza dignitosa a chi lavora e ha famiglia), ha senz’altro tratto vantaggio.

La calcificazione politica dei votanti, degenerata in partigianeria negativa, determina dunque la iperpolarizzazione cui oggi assistiamo e se sul piano ideologico-culturale la differenza fra i partiti è abissale, è invece bassa in termini di numero dei loro accoliti. La cifra dei voti su cui si gioca la partita diventa così molto limitata, come confermano la gran parte delle competizioni appena svoltesi.

Bastano pochi voti per uno spostamento del comando politico dai democratici ai repubblicani o viceversa. Si pensi soltanto alle ultime elezioni presidenziali, tanto del 2016 quanto del 2020, in cui meno di 100.000 voti hanno determinato la vittoria dell’uno o dell’altro candidato. Il cambio di casacca, mentre può certamente avere effetti importanti sulle politiche legate alle questioni socio-culturali, non sembra però destinato a produrre conseguenze significative sul piano delle politiche redistributive. L’iperpolarizzazione determinata dai fattori ideologici-culturali, pone infatti in secondo piano l’attenzione per la questione socio-economica. Di essa la politica si può tranquillamente disinteressare e queste elezioni lo hanno confermato, con buona pace per l’esigenza di invertire la rotta di una disuguaglianza sempre più insopportabile.

(credit foto EPA/MICHAEL REYNOLDS)



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