Respingimenti e torture: la “Fortezza Europa” si difende così

Il muro tra Serbia e Ungheria e l’accordo sui rimpatri tra Turchia e Ue non ha chiuso la rotta balcanica, l’ha soltanto deviata. In Bosnia migliaia di profughi bloccati e respinti dalla polizia croata e slovena.

Benedetta Zocchi

Nel 2016 la rotta balcanica è stata dichiarata ufficialmente chiusa.  La costruzione di un muro lungo il perimetro del confine serbo-ungherese e l’accordo bilaterale sui rimpatri firmato da Turchia e Unione Europea hanno costretto migliaia di profughi in viaggio su questi confini a trovare altri passaggi verso l’Europa occidentale. La rotta balcanica non è mai stata chiusa. Semplicemente, è stata deviata.
Negli ultimi quattro anni la frontiera della fortezza Europa si è spostata sul confine bosniaco-croato. Qui, nel Cantone di Una Sana, sul margine nord-occidentale della Bosnia Erzegovina, profughi in viaggio da Paesi come Afghanistan, Siria, Iran, Iraq, Pakistan e Bangladesh tentano il cosiddetto game, l’attraversamento del confine, per proseguire il viaggio verso l’Unione Europea.
Quattro anni che hanno visto la sistematizzazione di un meccanismo di respingimenti e torture, il deterioramento di un sistema d’accoglienza goffo ed inefficiente, e la consolidazione di una frontiera coloniale dove i profughi sono simultaneamente prigionieri e latitanti, bloccati in una terra che non accoglie e non lascia andare.  Chi viaggia sulla rotta fino a questo confine ha passato anni tra la Grecia, la Serbia e la Turchia. Questo rimane uno dei punti più difficili da attraversare. Esiste un meccanismo di respingimenti a catena operato dalle forze di polizia croate e slovene per cui i profughi catturati vengono detenuti o riportati immediatamente in Bosnia. Spesso dopo essere picchiati e derubati. Alcuni provano il game più di venti volte, e rimangono in Bosnia per mesi o anni.

“Croatian Police, big problem”

Passando per le strade provinciali che costeggiano il confine con la Croazia, si incontrano migranti ovunque. Durante i respingimenti la polizia croata non sequestra solo soldi e cellulari, ma anche zaini, scarpe e giacche a vento. I profughi in ritorno dal game camminano avvolti in coperte di pile, offerte da volontari o abitanti locali che li incontrano senza indumenti.

Negli ultimi quattro anni i respingimenti assomigliano sempre di più a torture. Gli uomini vengono spogliati, insultati e picchiati. Ultimamente anche le donne hanno iniziato a riportare episodi di violenza. Una ragazza afghana ci racconta che la polizia croata ha usato dei teaser elettrici per immobilizzarla, colpendola sul collo e sull’inguine. Un’altra ragazza, anche lei afghana di appena vent’anni, ha tentato il game due notti fa. Viaggia da quattro anni insieme alla madre anziana e alla sorella. Da circa un mese vive insieme ad altre famiglie tra le macerie abbandonate di un paesino chiamato Bojna, a pochi chilometri dal confine.

“Ci hanno tolto le scarpe, le giacche ed i telefoni. Hanno preso anche le medicine di mia madre. Ho provato a spiegargli che mia madre è malata, che ha bisogno delle medicine ma non mi hanno ascoltato”.

A Bojna, incontriamo una decina di famiglie afghane. Il paesino, precedentemente a maggioranza serba, è rimasto semi-abbandonato dopo la guerra: si estende verso il confine croato su una strada di campagna dove si alternano abitazioni sporadiche e campi di pannocchie. Ai lati si restringono sentieri sterrati che conducono a edifici desolati, oggi abitati da queste famiglie, in fuga sulla rotta balcanica.

Negli ultimi giorni le temperature si sono abbassate e ha piovuto. Senza scarpe, senza telefoni e senza indumenti invernali bisogna aspettare che qualcuno arrivi con qualche donazione o che un parente, da casa, possa mandare dei soldi. I volontari qui non ci vengono più. Qualche mese fa, un gruppo di giornalisti sloveni arrivati a Bojna per documentare il luogo è stato minacciato da un abitante armato di fucile. Da allora, le organizzazioni di volontari sono state esiliate da Bojna e solo qualche abitante del posto riesce a passare ogni tanto per portare cibo e vestiti.

All’ accumularsi dei respingimenti e all’isolamento si aggiunge la preoccupazione e l’ansia per quello che sta accadendo in Afghanistan. Molte delle famiglie che abbiamo incontrato hanno perso i contatti con i loro cari  da settimane. Alcuni non hanno soldi per comprare indumenti e provviste per il game, e non possono chiederli a casa. Amir ha 18 anni ed è partito dall’Afghanistan 4 anni fa. Da 5 mesi è fermo a Bojna ed ha tentato il game 23 volte.

“Non riesco a parlare con mio padre. La mia famiglia è a Kabul. Prima erano loro a preoccuparsi per me. Adesso sono io. Ma sono bloccato qui e non so come aiutarli”.

Le famiglie di Bojna non sono un caso isolato, ma fanno parte di una risposta collettiva dei profughi ai molteplici tentativi dei governi cittadini di allontanarli dai centri abitati. Oggi, la maggior parte di loro si raggruppa nei cosiddetti jungle camp, attorno ad edifici abbandonati poco fuori dai centri abitati di Bihac e Velika Kladusa.
Incontriamo un gruppo di ragazzi afghani lungo il fiume Una, a pochi metri dal centro della città di Bihac, oltre un campo da tennis. Un altro gruppo di ragazzi pakistani si è accampato tra le macerie di un rudere poco fuori la città. “Qui possiamo cucinare e stare insieme” ci racconta Aziz, ragazzo pakistano di 21 anni “al campo c’è’ troppa polizia, poco cibo e siamo lontani da tutto”.

In quattro anni, la gestione dei campi è cambiata drammaticamente. Dal 2018, l’IOM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) è intervenuta nel cantone creando quattro campi di accoglienza temporanea: i campi di Bira e Miral, attrezzati dentro edifici di ex fabbriche, per ospitare uomini single; i campi di Sedra e Borici, attrezzati dentro un hotel e uno studentato abbandonati, per ospitare famiglie e minori non accompagnati. Oggi Borici e Miral sono rimasti gli unici campi aperti e i profughi tendono a non stare in città, per paura di essere portati nel campo di Lipa che, tra il 2020 e il 2021, ha segnato la resa finale del sistema d’accoglienza ed a breve riaprirà. Da quattro anni le autorità cantonali spingono per la chiusura dei campi IOM e per l’allontanamento dei profughi dai centri abitati. Nell’estate del 2019  i profughi venivano deportati nel campo di Vucjack, una tendopoli costruita su un altopiano a dieci chilometri da Bihac, senza servizi igienici o acqua corrente voluta dal comune e pensata al di fuori del sistema IOM.

Nel marzo 2020 la Bosnia entra in lockdown e i profughi vengono rinchiusi dentro i campi senza possibilità di uscire. Ad agosto 2020 le autorità cantonali approvano una delibera che vieta esplicitamente il transito ai migranti fuori dai campi IOM. A settembre 2020, Bira, il campo IOM principale nella città di Bihac, viene chiuso permanentemente con solo un giorno di preavviso. A giugno 2021 viene chiuso anche il campo di Sedra.
Mentre i campi chiudono in città, i profughi vengono trasferiti nel campo di Lipa a trenta chilometri da Bihac, aperto nell’aprile del 2020. Nel settembre 2021, questo campo ospita quasi duemila persone. La realtà di Lipa riassume quattro anni di mancata comunicazione e sostegno tra organizzazioni umanitarie, autorità cantonali e governo bosniaco. Nell’estate 2020 il comune di Bihac aveva promesso di fornire il campo degli attacchi idrici ed elettrici che mancavano nel terreno. Questa promessa non è stata mantenuta. A settembre 2021, dopo la chiusura di Bira, il numero dei profughi a Lipa sono raddoppiati. Qui hanno passato l’inverno senza acqua corrente ed elettricità, fino a che, a dicembre 2021, un incendio ha raso al suolo il campo. Il governo bosniaco è intervenuto allestendo un accampamento temporaneo. Nel frattempo  sono stati presi accordi con lo IOM per riaprire il campo il sei settembre. Ad oggi l’impianto idrico è completo, al contrario di quello elettrico. Con Lipa si consolida il passaggio di consegne tra IOM e governo per la gestione dell’accoglienza dei migranti. Intanto i profughi tentano di accelerare i tempi del game, nel terrore di essere deportati.

In Bosnia, il  profugo scappa dalla polizia e scappa dal sistema d’accoglienza. Non esiste assistenza che non sia emergenziale o temporanea, e non esiste un piano d’integrazione. La frontiera europea si espande oltre il confine geografico. Si riforma tra jungle camp, campi IOM e centri abitati, tra popolazione locale, volontari e profughi, tra autorità nazionali, cantonali ed internazionali. In Bosnia si vede una crisi afghana che esiste da anni, ben prima che gli americani abbandonassero Kabul e che l’occhio mediatico dell’occidente se ne interessasse. In Bosnia si vede l’Europa, in tutta la sua ferocia ed in tutta la sua ipocrisia.

[Foto di Alessandra Fuccillo]



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