Morire a 18 anni, a scuola e al lavoro

Se non si può morire sul lavoro a qualunque età e in qualunque contesto, a maggior ragione non si può morire sul lavoro, come accaduto al giovane Lorenzo Parelli, mentre si sta frequentando una scuola per impararlo.

Anna Angelucci

“La dignità. La dignità è azzerare le morti sul lavoro, che feriscono la società e la coscienza di ciascuno di noi. Perché la sicurezza del lavoro, di ogni lavoratore, riguarda il valore che attribuiamo alla vita”.
Dal discorso di insediamento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Palazzo Montecitorio, 3 febbraio 2022.

“Constatato l’uso eccessivo e non giustificato della forza, da parte di agenti di polizia, nel corso di recenti iniziative studentesche, abbiamo deciso di inviare i nostri osservatori alla manifestazione che si svolgerà oggi a Torino”.
Amnesty Italia, Twitter, 4 febbraio 2022

Lorenzo Parelli aveva solo 18 anni quando è morto in una fabbrica dove lo aveva mandato la sua scuola. Era ancora un giovanissimo studente. Frequentava il quarto anno del Centro di Formazione Professionale ‘Bearzi’ di Udine, nel settore della meccanica industriale. È morto schiacciato da una putrella di 150 kg, mentre svolgeva un’attività di formazione pratica in un’azienda metalmeccanica convenzionata con l’ente formativo. Non era nell’alternanza scuola-lavoro della cosiddetta “Buona scuola”, né in un “Percorso per le competenze trasversali e l’orientamento” riservato con l’ultima riforma ai licei e agli istituti tecnici: una precisazione tanto doverosa quanto capziosa e stridente con la drammatica, inaccettabile sostanza dell’accaduto.

Lorenzo seguiva un modello di apprendimento ‘duale’ regionale – previsto dal nostro sistema d’istruzione e formazione, che comprende Stato e Enti locali, istituzioni pubbliche e aziende private – basato sull’alternanza tra momenti formativi in aula e momenti di formazione pratica in contesti lavorativi locali. Scuola e impresa, o scuola e azienda, organizzazione, negozio, fabbrica, officina, per intenderci. Una modalità di formazione intesa come avviamento al lavoro per i giovani presente da tempo in Italia – ma modificata attraverso le riforme del mercato del lavoro e della scuola degli ultimi anni e con i recenti accordi Stato-Regioni – sulla scorta del modello tedesco, applicato anche in diversi paesi del Nord d’Europa. L’obiettivo, leggiamo dal sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, è quello “di rendere più sinergici i sistemi d’istruzione e formazione con il mercato del lavoro e di favorire così politiche di transizione tra il mondo della scuola e il mondo del lavoro”. In che modo? Riducendo al minimo il tempo della scuola, dello studio, della riflessione teorica, dell’approfondimento culturale: al lavoro e alla pratica, senza perdere tempo.

Attraverso una variegata tipologia di condizioni che ruotano intorno al concetto di ‘formazione pratica’ – dai laboratori, all’azienda simulata, al tirocinio, allo stage, fino all’apprendistato – i giovani che seguono questo percorso vengono inseriti precocemente nel mondo produttivo direttamente dalla scuola; in modi, tutti rigorosamente formalizzati, che se raramente prevedono una remunerazione per gli studenti, al contrario comportano sempre vantaggi economici agli imprenditori in tutti i settori economico-produttivi: sgravi contributivi e fiscali, sgravi retributivi, incentivi. Per questi ragazzi non sono previsti neppure nel primo biennio (obbligatorio) percorsi di istruzione con la stessa caratura culturale di licei e istituti tecnici: persino per l’italiano, materia fondamentale e trasversale, il Ministero dell’istruzione ha previsto per loro scarnificate Linee guida a fronte delle ricche Indicazioni nazionali dei loro coetanei. Figli di un dio minore.

Sappiamo che in molte circostanze si verificano forme di sfruttamento: chi di noi non ha mai avuto esperienza diretta – dal parrucchiere, in un centro servizi, in un’officina – di giovanissime lavoratrici e lavoratori ancora studenti impiegati gratis in tirocini formativi o sottopagati nell’apprendistato? Un apprendistato che la legge italiana scandalosamente equipara all’assolvimento dell’obbligo scolastico, come se studiare la letteratura o la matematica a 15 anni nelle aule di un liceo o di un istituto tecnico sia esattamente lo stesso che imparare ad avvitare un bullone. Sappiamo anche che si possono verificare casi in cui l’attività di formazione aziendale proposta e concordata con la scuola si riveli del tutto inadeguata, o casi in cui la gestione privatistica dei fondi pubblici per il finanziamento di questi enti sia discutibile, ove non irregolare. Ma possiamo anche immaginare che invece Lorenzo fosse felice della sua scelta, che stesse realizzando il suo percorso formativo con soddisfazione, in un contesto serio e di qualità, che con lo studio in aula e la pratica in fabbrica stesse davvero acquisendo una professionalità e che guardasse al suo futuro con fiducia.

Questo rende la sua morte ancora più inaccettabile. Perché se non si può morire sul lavoro a qualunque età e in qualunque contesto, a maggior ragione non si può morire sul lavoro mentre si sta frequentando una scuola per impararlo.

Nel suo ultimo bollettino l’INAIL ci comunica che nel 2021 ci sono stati 555.236 casi di infortunio sul lavoro, 1221 dei quali con esito mortale. In Italia dunque ogni giorno muoiono sul lavoro 3-4 persone. Una strage. Con questi numeri, ci chiediamo anche noi, qual è il valore che attribuiamo alla vita? Qual è il valore che i padroni delle fabbriche attribuiscono alla vita dei lavoratori? Qual è il valore che nel nostro Paese si attribuisce alla vita di uno studente?

Sul lavoro non si muore quasi mai per tragica fatalità. Si muore per la mancanza di controlli, per la carenza di ispezioni, per l’abnormità e l’opacità di norme che si affastellano come tante gride manzoniane e permettono di saltare passaggi essenziali; si muore per risparmiare sulle misure di sicurezza, sui materiali, sulle procedure. Per risparmiare tempo, o per incrementare i profitti. Si muore per l’assenza delle istituzioni che dovrebbero garantire la vigilanza, che dovrebbero perseguire gli abusi, sanzionare le omissioni, punire duramente i colpevoli, esercitare un controllo troppo spesso ridotto a mero e inefficace adempimento burocratico.

È su questo terreno che, oggi, in Italia, la scuola incontra il lavoro. Che i nostri studenti incontrano il mondo del lavoro. Un lavoro sempre più insicuro, precario, privo di tutele, povero, in molti casi drammaticamente pericoloso, al quale i giovani sono precocemente destinati e soprattutto formati, addirittura fin dai banchi di scuola, nella loro condizione di “capitale umano” ovvero “forza lavoro” sempre più adattata alle esigenze del mondo produttivo e deprivata di capacità critica, conoscenza dei propri diritti, possibilità di autodeterminazione.

Agli studenti che in queste settimane hanno continuato a manifestare in tante città italiane per esprimere solidarietà e rabbia per la morte ingiusta di un ragazzo come loro, per le condizioni sempre più miserabili cui sono costretti, in aule gelide e fatiscenti, in classi pollaio o in posti di lavoro ad alto rischio dove si può addirittura perdere la vita e per una deprecabile alternanza scuola-lavoro che non garantisce né il diritto allo studio né il diritto al lavoro, non si stanno prospettando soluzioni, non si stanno dando risposte concrete né accettabili segnali di cambiamento. A loro si riservano le feroci manganellate della polizia, accompagnate dal colpevole silenzio di troppi insegnanti, dagli scarni comunicati di protocollare indignazione dei sindacati e delle associazioni di categoria; da puntuali e burocratiche interrogazioni parlamentari; dalle logore parole retoriche di circostanza dei ministri, dei decisori politici, dei vertici delle istituzioni.

(Credit Image: © Antonio Melita/Pacific Press via ZUMA Press Wire)

L’alternanza scuola-lavoro: così non va



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