La morte di Lorenzo Parelli e la normalizzazione di una tragedia

La morte di un ragazzo durante l’alternanza scuola-lavoro? Per media e istituzioni è tutto normale. E per gli studenti che protestano c’è solo silenzio e repressione.

Pietro Forti

Lorenzo Parelli è morto pochi giorni prima dell’inizio delle votazioni che hanno portato alla rielezione di Sergio Mattarella. Il flusso perpetuo di notizie e indiscrezioni che arrivava dai corridoi di Montecitorio e dalle strade del centro di Roma, com’era prevedibile e probabilmente giusto, ha attratto su di sé tutta l’attenzione mediatica possibile.

La ricerca morbosa di retroscena, tuttavia, ha fatto sì che qualcosa che si stava verificando in quelle stesse ore, in piena vista e potenzialmente a favore di telecamera, non fosse parte della maratona.

Le proteste represse

Un diciottenne moriva in orario scolastico, e la rabbia e la paura di suoi coetanei veniva espressa in piazza. In quelle stesse piazze, a Roma prima e a Torino poi, gli studenti venivano attaccati dalle forze dell’ordine in maniera assolutamente non giustificabile, stando a quanto emerge dai video divulgati in rete che ritraggono le cariche da parte dei reparti antisommossa.

Un uso della forza spropositato davanti a proteste pacifiche, e certamente non un atto di autodifesa o di tutela dell’ordine pubblico. Risultato: venti feriti di cui due gravi a Torino, quattro feriti a Roma che hanno avuto bisogno di punti di sutura sul cranio e altrove.

Eppure, articoli e soprattutto servizi televisivi sull’accaduto si contano sulle dita di una, forse due mani. La Stampa ha pubblicato una lettera a firma di Ismaele C., anche lui diciottenne, che protestava vicino al Pantheon con il movimento La Lupa. La foto che lo ritraeva col volto sanguinante era stata condivisa in lungo e in largo sui social, molto oltre il mondo movimentistico. Oltre questo, poco altro.

Moltissimo invece è stato scritto sulla morte di Lorenzo Parelli. Dopo l’accaduto e dopo le proteste dei giorni a seguire in molti si sono lanciati in accorati appelli, commentando le proteste contro l’alternanza scuola-lavoro come una strumentalizzazione del “tragico” decesso del ragazzo. Molti hanno specificato che il contesto del decesso non fosse quello dei PCTO, nuovo nome dell’alternanza, ma di uno stage curriculare previsto per studenti di scuole professionali – non retribuito, ma questo andrebbe dato per scontato, sarebbe quasi intrinseco alla parola stessa, “stage”.

Alcuni, come l’ex sindacalista CISL Marco Bentivogli sulle pagine de Il Foglio, sottolineavano quanto la sicurezza sul lavoro costituisca un’emergenza assai minore rispetto al passato (cosa vera se si guarda agli anni ‘90, ma certamente falsa se si confrontano i dati odierni con quelli disponibili guardando indietro di poco più di dieci anni).

Alcune testate hanno largamente puntato su una narrazione che andasse a bollare le proteste come frutto di un estremismo radicato nei collettivi e non una sincera manifestazione di sconcerto di fronte alla morte di un ragazzo. Soprattutto, hanno puntato su una normalizzazione della tragedia.

Per i media è tutto normale

La “tragica” morte di Lorenzo è l’ultima di una lunga serie di banalizzazioni su eventi difficili da spiegare a chi, come chi è sceso in piazza, cerca risposte.

Così, i suicidi dei ragazzi il primo giorno di scuola, l’aumento dei casi di depressione e di richieste di aiuto psicologico o psichiatrico, il nuovo decollo della disoccupazione giovanile, persino la morte per Covid-19 di una bambina di due anni, portata dalla Calabria per ore e decine di chilometri in cerca d’aiuto medico prima del decesso al Bambino Gesù di Roma, sono tutte “tragiche” fatalità. Si potrebbe continuare per delle ore nell’elenco di esempi simili.

Sarebbe ingiusto, oltre che falso, affermare che l’occhio di giornali, tv, testate web non si sia mai fermato sulle condizioni di difficoltà oggettiva delle nuove generazioni. Ma questi reportage “tragici”, se privi di un contesto in cui inserirli, finiscono per far parte di una narrazione quasi nazional-popolare che racconta con pathos i sacrifici che le nuove generazioni sono costretti a fare. Come si è visto, anche in termini di vite umane. Questa narrazione tende a sminuire la gravità della situazione.

I ragazzi sono provati dalla pandemia, ma devono stare tranquilli, prima o poi passerà. Il sistema sanitario nazionale che dovrebbe curarli è in difficoltà e la medicina di base e di prossimità è pressoché nulla, certo, ma grazie al sacrificio degli eroici lavoratori della sanità ne usciremo migliori di prima. La crisi economica è grave, sì, ma i ragazzi non devono temere la disoccupazione a fronte di una ripresa posticcia e persino inferiore alle aspettative. Infine, Lorenzo Parelli non è morto di alternanza. E la sicurezza sul lavoro, nel mercato dove i ragazzi cercheranno di essere inseriti, non è un problema: nulla da vedere, circolare.

In questo circo mediatico davvero poco sensibile alle sorti di chi vivrà i prossimi decenni, che promettono tempesta, chi cerca di sollevare timidamente una questione sul sistema che ha portato a tutto questo viene tacciato di essere poco meno di un brigatista. Poco importa che le ideologie siano sparite sotto i colpi della demonizzazione della politica a scuola, bollata come pratica vecchia o perdita di tempo. Chiunque abbia dei dubbi sul fatto che tutto ciò non dovrebbe essere normale è sostanzialmente epurato dal dibattito.

La leggerezza di poter ignorare e reprimere

Le istituzioni, in tutto ciò, rispondono con l’arma infallibile del silenzio. Il Parlamento è troppo preso dal non trovare soluzioni alternative al mantenimento dell’ordine costituito, venutosi a verificare con l’elezione di Mattarella. Il ministro Bianchi non ha detto una parola sulla morte di Lorenzo Parelli, intento com’è a rassicurare la popolazione scolastica che sia al sicuro dal Covid. La ministra Lamorgese si è ben guardata dal commentare il ferimento di ragazze e ragazzi anche minorenni, e servirà l’interrogazione parlamentare depositata da qualche deputato per vedere segnali di vita. Il resto del governo, sulla faccenda, si comporta come se non avesse nulla da dire.

C’è poco da stupirsi. Ignorare e, quando si può, bastonare è una tattica collaudata, persino nei confronti di movimenti che chiedono azioni contro la crisi climatica, come i Fridays For Future, riconosciuti come meritevoli in tutto il mondo. Mesi fa, il ministro della Transizione ecologica Cingolani li definì addirittura “oltranzisti”. Qualche tempo dopo si spinse a riportare dati platealmente falsi di fronte migliaia di studenti che lo seguivano online, sostenendo che la quantità di CO2 emessa a causa dell’utilizzo dei social media fosse addirittura superiore alle emissioni causate dal volo degli aeroplani. E che, conseguentemente, in qualche modo una parte della colpa della crisi climatica fosse loro, sempre attaccati a quei maledetti telefoni.

Bugie e omissioni di questo tipo non sono degne di un “governo dei migliori”, e tuttavia ne costituiscono la spina dorsale di fronte a chi osserva anche la più minima criticità. Le nuove generazioni vengono svezzate con l’ansia di non poter vivere una vita serena, qualsiasi sia la sorte che li attenda: una manganellata ben piazzata sulla testa se ci si azzarda a manifestare, una catastrofe climatica, una pandemia. O una morte sul lavoro in orario scolastico.

Ma le istituzioni, semplicemente, possono permettersi di ignorare tutto questo, di accarezzare la testa dei ragazzi in struggenti cerimonie istituzionali e bastonarli quando alzano la voce.

Vecchie e nuove generazioni non devono dividersi

Se le istituzioni fanno finta di nulla, di non sentire, dev’essere la società a sostenerli con forza. Ma anche qui interviene il circo mediatico.

Articoli sui NEET (giovani che non studiano né lavorano – ergo fannulloni e non costretti in questa situazione oltre la propria volontà), servizi sulla movida selvaggia, commenti sarcastici sul politicamente corretto che tanto piacerebbe ai giovani. Dall’altra parte non si è da meno: i “vecchi” sono dipinti come i rubagalline statalisti del posto fisso, come la generazione di chi in assoluto non vuole vaccinarsi, come coloro che hanno rapinato i giovani del futuro con le loro velleità giovanili e nefandezze da adulti cresciuti male. E via dicendo.

Tutto questo ignora, però, che nella realtà “giovani” e “vecchi” possono condividere valori, timori, rabbia e persino un futuro. Durante la pandemia, tra tutte le narrazioni stucchevoli e fini a se stesse, solo una ha funzionato più di altre: ai giovani si è detto di salvare i propri nonni, ai vecchi di essere fieri dei propri nipoti. Si è condivisa la fragilità di fronte a una crisi generalizzata e in questa unione, come da cliché, si è trovata forza.

Due anni dopo l’inizio della pandemia non è chiaro quanto questa solidarietà intergenerazionale possa reggere. È innegabile, tuttavia, che chi subisce vessazioni continue, chi patisce l’allargarsi di disuguaglianze, chi è invisibile agli occhi del governo e del sistema mediatico soffre al di là della generazione di cui fa parte. Le nuove generazioni non possono comprendere le fragilità di chi è più anziano, così come le generazioni più adulte non hanno idea di cosa voglia dire nascere e crescere in un susseguirsi di crisi ed emergenze. Proprio per questo, il tempo per i bisticci tra boomer e generazione Z, per le accuse di essere figli di papà nullafacenti o vecchi tromboni è finito.

Oggi ci troviamo di fronte alla morte di Lorenzo Parelli e alle proteste represse. Davanti a questi fatti non c’è gap generazionale che tenga. Tra le nuove generazioni e istituzioni vuote, anche chi giovane non è dovrebbe sapere benissimo da che parte stare.

 

Pietro Forti studia Storia presso l’Università degli Studi di Roma Tre ed è responsabile della sezione attualità del mensile studentesco Scomodo.

(credit foto ANSA/ US/ Fronte della Gioventù Comunista)



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