Morto un Berlusconi se ne fa un altro. Ma forse no, non occorre.

L’operazione che si sta compiendo attorno alla morte di Berlusconi meriterebbe una riflessione agganciata al quadro storico e insieme calata nel contesto più attuale, l’esperimento che è davvero sotto gli occhi di tutti. Come interpretare la decisione di proclamare il lutto nazionale, persino l’arresto delle attività del Parlamento, se non come indici precisi di una scelta puntuale: la destra che governa è alla ricerca di un padre della patria che rispetto al duce (con buona pace dei nostalgici), sia anche in qualche misura presentabile. È più che lecito pensare, allora, proprio in ragione della pompa magna cui abbiamo assistito, che quell’uomo sia proprio Silvio Berlusconi.

Maria Concetta Tringali

A poco più di una settimana dalla notizia della morte del fondatore e leader di Forza Italia, non si vede ancora – perlomeno con chiarezza – l’effetto che fa. Su qualche aspetto però si può provare a ragionare.
A partire dai funerali, evento mediatico per certi versi senza precedenti, come mediatica era l’essenza stessa del potere che l’uomo ha espresso in vita.
A dare l’ultimo saluto al Cavaliere non c’era l’Europa. Non c’erano i grandi del mondo, com’era prevedibile che fosse. C’era però ciò che viene comunemente definito “il suo popolo”. E, a voler scendere dal drone, poteva apparire chiaro chi fossero quelli che si ammassavano dietro le transenne di piazza Duomo o percorrevano i viali di Arcore: a grandi linee erano gli Ultras da curva (che abbiamo visto sfilare in camice nere e con una rosa rossa in mano) e i molti volti dei fedelissimi telespettatori. C’erano, infine, i folgorati per devozione, da un buffetto sulla guancia o una pacca sulla spalla, rimasti indelebili nella storia privata del singolo e insieme del tutto invisibili nella storia pubblica del capo.

Ecco cosa il gioco di stringere quell’inquadratura riesce a svelare: a fronte di ciò che la narrazione mediatica ha fatto passare per giorni (e a reti unificate) per “il popolo del Cavaliere”, si cela ciò che Zagrebelsky definisce “massa”, informe e altra, rispetto al concetto evocativo di uno degli elementi costitutivi dello Stato.  Varrebbe la pena di rileggere Il Crucifige e quel “paradigma della massa manovrabile”, facendo bene attenzione a respingere le provocazioni di chi tenta di ridurre la riflessione del giurista a una colpevolizzazione dell’elettorato.


Come da rileggere è José Saramago, quando su “El Pais” si riferisce all’allora premier come a una “cosa”, una malattia, un virus che “minaccia di essere la causa della morte morale del paese se un conato di vomito profondo non riuscirà a strapparlo dalla coscienza degli italiani prima che il veleno finisca per corrompere le loro vene e per squassare il cuore di una delle più ricche culture europee”. Il premio Nobel per la letteratura ne aveva chiara “l’abilità funambolica per abusare delle parole, sconvolgendone l’intenzione e il senso, come nel caso del Polo della Libertà, come si chiama il partito con il quale ha preso d’assalto il potere”.

Il racconto vero da farsi, allora, è piuttosto quello di un’Italia che nel trentennio seguente alla discesa in campo del più chiacchierato tra gli imprenditori (quattro volte presidente del consiglio) si risveglia più povera, a partire dai diritti in pericolosa retrocessione.
Primo governo Berlusconi (1994 –  1995); secondo governo Berlusconi (2001 –  2005); terzo governo Berlusconi (2005 –  2006); quarto governo Berlusconi (2008 –  2011), può bastare incrociare i dati per capire: “tra il 2008 e il 2013 il PIL dell’Italia è diminuito di 10 punti percentuali, contro 2 nell’area dell’euro; la produzione industriale è scesa di circa 25 punti, contro 10 nell’area; gli investimenti sono crollati del 30 per cento, quasi il doppio dell’eurozona”, Panetta, vice direttore generale della Banca d’Italia.

Uno come Tito Bieri, ad esempio, molte cose pareva averle predette, in un’analisi dei molti passi falsi fatti dal Cavaliere. Riferendosi al suo quarto esecutivo: “il governo ha in effetti cercato di fare qualcosa per l’economia. Ha preso tre decisioni che sono, tuttavia, risultate in seguito del tutto sbagliate. La prima decisione è stata di ridurre le tasse sullo straordinario; misura chiaramente mirata ad aumentare il numero di ore lavorative. Inutile sottolineare che, mentre il livello di disoccupazione aumentava e molti altri paesi diminuivano le ore lavorative per ridurre al minimo la perdita di posti di lavoro, sono state gradualmente eliminate le riduzioni delle tasse sullo straordinario ed accentuate le possibilità di riduzione dell’orario di lavoro. Lo stesso destino è toccato alla tassa di Robin Hood che, secondo il Ministro delle Finanze, Giulio Tremonti, avrebbe dovuto costringere le banche ed i produttori di petrolio ad elargire risorse a favore dei poveri. La tassa sulle banche è invece diventata un impegno a sostenere economicamente gli istituti finanziari in difficoltà, tramite i cosiddetti bond Tremonti (…) L’ultima misura attuata è stata l’abolizione dell’imposta comunale sugli immobili: un’importante fonte di introito per i governi locali”.

E nemmeno sul resto all’economista – già presidente dell’Inps – si poteva dar torto: “L’Italia ha fatto passare 30 mesi senza attuare alcuna riforma strutturale di cui ha estremamente bisogno per ripristinare il suo potenziale di crescita (…) Ma il governo Berlusconi ed i media hanno continuato a minimizzare l’entità della crisi tentando di far credere che l’Italia era ampiamente riuscita a superare la recessione globale. Questa strategia potrà aver evitato la tragica caduta di popolarità vissuta da altri governi nel bel mezzo della Grande Recessione, ma prima o poi si ritorcerà contro. La delusione di gran parte degli italiani nei confronti del governo Berlusconi sarà ancora più profonda quando capiranno che questo governo non ha mai presentato i fatti per quello che sono”.
A questo punto, facendo salva la memoria, sappiamo che sarà la Storia (quella che la maiuscola), a dare risposte definitive e certamente ci sarà bisogno di mettere qualche altro decennio di mezzo prima di raccogliere tutti gli elementi necessari a fare di conto senza tralasciare nulla.

Ma per provare intanto a raccogliere le idee sulla parabola politica del Silvio nazionale, si dovranno tenere in considerazione una serie di coordinate davvero minime: il conflitto di interessi, innanzitutto; i devastanti effetti di quella forzatura dell’assetto istituzionale, spalmati su decenni di elezioni e referendum con la conseguenza di una democrazia ammorbata da indicibili livelli di astensione; tagli massicci all’istruzione che hanno finito per far deragliare la formazione dall’asse della scuola pubblica alla tv privata, con grandi evidenze sulle capacità di orientare il consenso; una spoliticizzazione del pensiero comune; un allontanamento progressivo dell’elettorato dalla vita di sezione, cancellata come con un tratto di penna dopo i fatti di tangentopoli, tradottasi nel definitivo tramonto dei partiti, a beneficio di organizzazioni più prossime a strutture assimilabili al club service e al movimentismo.

Ma se c’è una sola cosa di cui non potrà accusarsi Berlusconi è di essere stato divisivo. Impossibile a dirsi per un personaggio che ha fatto del consenso (diffuso e trasversale) una ragione di vita. Di fronte a un atteggiamento che era una postura dell’anima, prima ancora che una strategia, il Cavaliere è stato un blanditore, nel senso di adulatore, di carezzevole. Al contrario, a scambiare l’effetto per la causa è stata semmai la sinistra che si è incartata per anni, lasciandosi assorbire da un’operazione unica di contrapposizione e che ha finito – così facendo – per produrre l’implosione di programmi, idee e contenuti che sarebbero stati invece linfa preziosa, per invertire la rotta di un paese allo sbando.

Si può concludere che, in fondo, quello che s’è spento a 86 anni è stato il padre di tutti i populismi. Il peggio è che l’impronta che ha lasciato è certamente destinata a imprimersi (chissà per quanto tempo ancora) sulle coscienze e, per ciò stesso, a pesare sulle vite degli italiani e delle italiane, usate – queste ultime – in larghissima parte da uno che le relegò allo spazio che resta tra la barzelletta spinta e il bunga bunga.

L’operazione che si sta compiendo attorno alla morte di Berlusconi è, invece, questione a sé. Meriterebbe una riflessione agganciata al quadro storico e insieme calata nel contesto più attuale, l’esperimento che è davvero sotto gli occhi di tutti. Come interpretare la decisione di proclamare il lutto nazionale, persino l’arresto delle attività del Parlamento, se non come indici precisi di una scelta puntuale: la destra che governa è alla ricerca di un padre della patria che rispetto al duce (con buona pace dei nostalgici), sia anche in qualche misura presentabile. È più che lecito pensare, allora, proprio in ragione della pompa magna cui abbiamo assistito, che quell’uomo sia proprio Silvio Berlusconi. Nel momento stesso in cui il cadavere del Cavaliere è stato chiuso in una bara, il popolo di Meloni ha scoperto di avere un capo storico. Dal canto suo, quel pater patriae, sarebbe stupito di scoprirsi, oggi da morto, assai più utile per i suoi sodali di quanto non sia mai stato da vivo.

 

Foto Youtube | Rai Uno



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