In ricordo di Valerio Evangelisti. “1° maggio: altro che concerto, servono le lotte”

Per ricordare lo scrittore bolognese morto il 18 aprile ripubblichiamo questa intervista rilasciata a ridosso della Festa dei lavoratori del 2021.

Valerio Evangelisti

Per ricordare Valerio Evangelisti, morto il 18 aprile, ripubblichiamo questa intervista di Roberto Vignoli allo scrittore bolognese uscita su MicroMega+ il 30 aprile 2021: “I lavoratori sono stati sconfitti. Sono sotto minaccia conquiste fatte nel corso di decenni al prezzo di lotte durissime. I sindacati ufficiali sono diventati complici e non esiste più nulla di alternativo all’ipotesi neoliberista. Finché non ci sarà nuovamente una coscienza di classe, non ci sarà un 1° maggio”.

Valerio Evangelisti, quale importanza ha oggi il 1° maggio, la festa dei lavoratori? 
In sé è una ricorrenza trascurabile, data la situazione, il ruolo dei sindacati e la sostanziale sconfitta dei lavoratori. Quello che è rimasto è un concerto di scarso senso. Però, se rivitalizzato da iniziative opportune, il 1° maggio potrebbe diventare una chiamata all’appello per una riscossa contro uno stato di cose che è ostile alla classe operaia e a tutti gli altri settori subalterni. Potrebbe esserlo in potenza, ma oggi non lo è.

Perché non lo è?
È una storia lunga e complessa. Il sistema politico è completamente affossato, non esiste più nulla di alternativo all’ipotesi neoliberista. Non c’è volontà di ristabilire eguaglianza e di riportare al pubblico tutta una gamma di servizi che sono stati privatizzati, e l’abbiamo anche pagato con questa pandemia. Si è ceduto su tutto. È un processo iniziato già alla fine degli anni Settanta, quando i sindacati ufficiali hanno iniziato a farsi carico non solo del benessere dei lavoratori ma anche di quello delle fabbriche stesse. Per questo fine erano pronti a qualsiasi compromesso, hanno iniziato a reagire sempre più debolmente e, da un certo momento in poi, sono divenuti complici. Basti vedere quello che è oggi Maurizio Landini, dieci anni fa considerato l’avanguardia sindacale combattiva. Adesso è un burocrate come gli altri, pronto a compromessi gravosi per la classe operaia e per i lavoratori di qualsiasi categoria. Compromessi addirittura esiziali per quelli che sono gli strati più deboli, il precariato che oggi invade ogni angolo del mondo del lavoro. Su questo fronte c’è poca speranza. Faccio un esempio di qualcosa che è accaduto adesso e che una volta non sarebbe accaduto neanche per sogno: un lavoratore della ex Ilva licenziato per avere suggerito di guardare uno sceneggiato tv che sembrava riflettere la situazione dell’Ilva. Questa è roba da matti. La difesa di questo operaio c’è stata solo da parte di alcune forze, i sindacati di base, gli unici a proclamare uno sciopero.

Nella trilogia Il Sole dell’avvenire hai raccontato le lotte dei braccianti e dei contadini del secolo scorso. Rispetto ad allora, a che punto siamoQuali parallelismi si possono tracciare?
Qui e là oggi ci sono piccole lotte, magari anche vittoriose, ma su larga scala non c’è nulla. Da una parte abbiamo una classe politica che va per conto suo, totalmente avulsa, che non funziona neanche da cassa di risonanza di quello che accade nella società. Dall’altra, una classe subalterna intimorita. Oggi si punta più a conservare un lavoro che si rischia di perdere piuttosto che a rivendicare qualcosa. E a furia di compromessi si perdono conquiste decennali e in qualche caso secolari e le cose vanno sempre peggio. I miei braccianti, i lavoratori agricoli specialmente dell’Emilia Romagna, a suo tempo tentavano di assumere il controllo del mercato del lavoro che li vedeva vittime passive. Con una serie di azioni riuscirono a ottenere conquiste molto importanti, anche se poi il fascismo le cancellò. Ora non serve neanche il fascismo, è qualcosa di molto peggio e per certi versi molto più autoritario. Vengono prese decisioni non si capisce da chi, secondo un modello europeo che non funziona su base democratica. Siamo governati da banchieri, da entità che nessuno ha eletto, scelti non dal basso bensì dall’alto. La mancanza di democrazia è estremamente grave. E tutto questo sarebbe compensato da un concerto in piazza San Giovanni?

Un 1° maggio vero come dovrebbe essere? 
Una volta se non altro si facevano dei cortei. Non che fosse granché, ma si facevano. Poi il 1° maggio era veramente una festa. C’era una canzone che diceva: “Salve o maggio, ti aspettano le genti e ti salutano i liberi cuori, dolce pasqua dei lavoratori”. Era una grande festa popolare in cui, almeno per un giorno, diventavano protagonisti i lavoratori. Li si vedeva perché andavano in piazza. Adesso, pandemia a parte, è da tempo che le piazze sono deboli. Prima, ogni tanto, appariva qualcuno che riusciva a radunare qualche centinaia di migliaia o addirittura milioni di persone. Ricordo che Landini aveva un successo fenomenale. E soprattutto Cofferati: porta tre milioni in piazza, sembra costituire l’alternativa alla sinistra esistente, dopodiché in brevissimo tempo ripiega su se stesso e si dedica ad altro e quei tre milioni tornano da dove erano venuti, in fabbriche che poi tendevano a espellerli sempre di più, perché intanto era passata la globalizzazione e le produzioni erano spostate dove costavano meno. È il triste quadro attuale.

La difesa dei diritti dei lavoratori oggi non è più centrale anche per quelle forze politiche che si dichiarano progressiste. Quel che resta della sinistra privilegia le lotte per i diritti civili e individuali dimenticando quelli sociali. Che cosa è successo? 
Sì, c’è stata una specie di americanizzazione della lotta sociale. Si è passati dai temi strutturali importanti ad altri temi, ugualmente importanti, ma che da soli non vanno da nessuna parte. Siamo passati ai diritti civili del tutto astratti senza vedere che gli stessi diritti civili poggiano su quelli sociali. Adesso non si parla più di salario, di aumenti di salario meno che mai, si dice sempre che c’è crisi, in realtà poi i soldi vanno da altre parti. C’è una frammentazione che diventa anche individuale e vengono esaltate non le collettività ma gli egoismi. E questo si trova all’interno della stessa classe operaia, salvo i settori ovviamente più combattivi. Tutto è sulla difensiva, si tende a conservare quel poco che rimane ma a patto di compromessi molto gravi. Sono sotto minaccia conquiste fatte nel corso dei decenni al prezzo di lotte durissime. Ma oggi chi lotta più? La lotta di classe, come diceva l’economista Luciano Gallino, è stata combattuta e vinta dal capitale.

Parlare di classe operaia ha quindi ancora senso? 
Sì. In un momento in cui le classi medie tendono a essere soffocate e a proletarizzarsi – non se ne accorgono loro e non se ne accorge nessuno – quello che manca è una prospettiva dall’alto di quello che sta accadendo. I pochi teorici sono scarsi, isolati o affidati a mode temporanee e manca una analisi precisa di cos’è la società oggi. Non ci sono più le grandi figure di una volta. Non pretenderei nulla di speciale, mi basterebbe che ci fosse un onesto discorso socialdemocratico che in un contesto come quello attuale sarebbe guevarista. Per cui anche MicroMega diventa una forza rivoluzionaria perché fa ragionare.

La rivoluzione digitale sta trasformando sempre di più il lavoro. Come dovrebbero cambiare le lotte dei lavoratori?
Dovrebbero tentare di adeguarsi. Le rivoluzioni recenti, le cosiddette rivoluzioni colorate, hanno viaggiato prima su internet e sui cellulari che nelle strade. Ma pur con tutta la digitalizzazione possibile, non mangiamo circuiti, non sono i circuiti che ci fabbricano le case, c’è sempre una manodopera che svolge un lavoro produttivo, solo che pian piano viene abbandonata a soggetti debolissimi, come gli immigrati. Nella mia strada stanno rifacendo la facciata di una casa e non c’è un solo operaio italiano. E questo vale un po’ dappertutto. O il digitale lo si afferra come un’arma, com’era all’inizio quando nacquero forme di comunicazione come Indymedia, o servirà solo a ridurre il peso della forza lavoro. Una volta poteva essere un ideale, ma dipende da chi guida il processo. Perché se una volta si diceva “lavorare meno lavorare tutti”, adesso è l’esatto inverso.

Il vecchio slogan “lavorare meno lavorare tutti” è quindi ancora attuale? 
Sì, potrebbe essere la chiave per affrontare il mondo che ci si prospetta. Ma per questo occorrerebbe una volontà di ferro da parte dei subalterni e un altro impulso alle trasformazioni in atto per renderle a beneficio della collettività. Però chi potrebbe farlo? Prendiamo il Parlamento italiano attuale, ci saranno due o tre persone che portano avanti questo tipo di ipotesi. Gli altri sono completamente sedotti da qualcosa che non è neanche un’ideologia, ma una non ideologia, è il ritorno al capitale astratto delle origini, quando praticamente si imponeva come forma normale del mondo. Solo che adesso è molto più crudele e spietato di un tempo. E certamente non è dell’idea di far lavorare meno e lavorare tutti.

In questo panorama politico sconfortante vedi qualche barlume di speranza? 
Servirebbe una spinta generalizzata. Certo, ci sono settori combattivi, ogni morte di papa c’è anche qualche vittoria o un provvedimento che viene respinto, ma senza una struttura politica solida che porti avanti queste istanze non si va molto lontano. Dalle pubblicità che ricevo mi accorgo che esistono almeno dieci o quindici partiti comunisti e nessuno di essi ha una forza o una intelligenza tali da porsi come avanguardia.

Hai citato il sito di informazione alternativa Indymedia. Tu da vent’anni sei direttore di Carmilla online, un sito di letteratura e critica politica. Nei primi anni 2000 la parola d’ordine del movimento “no global” era “don’t hate the media, become the media”. E oggi? Esiste ancora l’informazione alternativa al tempo del dominio di Facebook e degli altri giganti della Rete?
C’è stata la commercializzazione quasi totale della Rete e si è instaurato un notevole controllo. Certe cose non le puoi dire chiaramente perché rischi di essere cacciato da Facebook e da tutte quelle altre sedi. Ma il vero problema è la cacofonia. Se un tempo dicevamo “noi dobbiamo prenderci i media” come si era fatto molti anni prima con le radio libere, oggi quelli che pretendono uno spazio sono molti e non sono solamente a sinistra. È un terreno conteso dove affiorano fenomeni molto strani. Ad esempio, stanno avendo un notevole successo i “rossobruni”. Quelli che, per ricorrere a una espressione di Diego Fusaro, il grande filosofo marxista (ride), “professano idee di sinistra e valori di destra”. Che diavolo vuol dire? È professare la confusione. Eppure hanno fortuna. Esiste un canale televisivo, Byoblu, che è di quella tendenza. Ed esistono tantissimi siti che fanno discorsi no vax e cose del genere. Nessuno considera più la società divisa in classi. E chi appartiene a una classe non riesce a riconoscersi in essa. Finché non ci sarà nuovamente una coscienza di classe, non ci sarà un 1° maggio.



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