Musica classica, la nostra Araba Fenice

Serve un progetto di rinascita economica basato sul primato della cultura. Un’idea non così irrealizzabile nel nostro Paese, che potrebbe incorrere nell’estinzione del suo patrimonio artistico, compreso quello musicale.

Massimo de Bonfils

L’Araba Fenice era un mitico uccello orientale. Secondo la leggenda ne esisteva uno solo in tutto il mondo e ogni 500 anni bruciava per poi rinascere dalle proprie ceneri. Indica la capacità di risollevarsi dalle avversità e dalle disavventure.
Anche la musica classica italiana è bruciata, ma per mano altrui. Vittima di incredibili avversità e disavventure, è ormai defunta. Eppure, se le fosse consentito di risorgere a nuova vita in un rinnovato quadro culturale, potrebbe tornare ad essere fonte di prestigio internazionale (oltre che di occupazione).
La cosa è possibile; vediamo come.

Cos’è andato storto con la musica classica

La scomparsa della musica classica in Italia è il triste epilogo che mai avrebbero potuto immaginare Vivaldi o Pergolesi, Rossini o Paganini, Bellini o Donizetti, Verdi o Puccini. Per ironia della sorte l’Italia è ancora oggi ammirata all’estero come se fosse (ancora) la patria della musica classica. Invece le sale da concerto sono vuote, rispetto a 40 anni fa le orchestre e le istituzioni musicali sono state decimate, l’insegnamento della musica strumentale nella scuola elementare non esiste, nelle scuole medie inferiori abbiamo dovuto sopportare una sperimentazione musicale durata ben 30 anni per vedere che gli studenti oggi non trovano posto nei pochissimi licei musicali, i Conservatori sono in via di estinzione, mal organizzati e ancor peggio finanziati.
Eppure le premesse storiche erano diverse. Dopo aver vissuto un Settecento fantastico, l’Italia dell’Ottocento divenne preda di una infatuazione ineluttabile: fu sedotta dal melodramma e le uniche infrastrutture che i governanti dell’epoca pensarono di costruire furono quasi esclusivamente teatri lirici. Fu così che in Italia l’altra metà dell’universo musicale, gli strumentisti, si ritrovarono a lavorare unicamente nelle “buche” delle orchestre, misere maestranze che accompagnavano gli astri canori del momento. A parte il fenomeno Paganini, dalle masse avvertito come “fenomeno da baraccone, probabile frutto di una intesa col demonio”, quasi tutti i migliori musicisti strumentisti, virtuosi dell’epoca, per trovare il meritato successo furono costretti a emigrare all’estero. Noi italiani non abbiamo mai avuto un Mozart, un Beethoven o un Brahms, compositori a tutto tondo che si interessavano sia di musica vocale che strumentale.

Per più di un secolo l’Italia ha curato esclusivamente il mondo della lirica e la miopia culturale italiana ha sin da allora danneggiato il patrimonio musicale della nostra nazione. Poi, nel ventesimo secolo, i nostri governanti hanno dato il colpo di grazia: negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso si giunse a gestire lo spettacolo musicale in Italia in modo vergognoso e clientelare (ricordo bene un soprano straniero che in quel periodo mi confidò: “In Italia guadagno circa 10 volte quello che percepisco in Inghilterra per cantare la stessa opera”).  Gli onorari stellari che si distribuivano allora, gonfiati da contributi statali erogati a pioggia, “drogavano” il mercato della lirica. Scandalizzato da tanto spreco, un partito dell’estrema sinistra nel 1993 promosse un referendum per abrogare il Ministero del Turismo e Spettacolo. Quella pur lodevole iniziativa, approvata dall’elettorato, fu sfruttata dal governo per decimare i contributi e la conseguenza generale fu una strage di orchestre, fondazioni, associazioni concertistiche e stagioni teatrali. Anche la Rai, ente a controllo statale, eliminò tre delle sue quattro orchestre: l’unica ad oggi sopravvissuta, moribonda, è quella di Torino. Oggi le poche istituzioni musicali rimaste nel comparto dello spettacolo dal vivo si muovono in modo scoordinato e autoreferenziale, producendo risultati limitati.
Già nel 2015 Maurizio Camarda osservava: “Il progressivo contrarsi del pubblico dei concerti e degli altri eventi musicali è il problema che viene generalmente indicato da tutti come la causa prima della crisi del settore musicale ‘colto’. […] Nel nostro Paese la musica classica appare distante, quasi emarginata rispetto al contesto socio-culturale. […] I programmi vengono pensati per un pubblico ‘tradizionalista’ e questo rende sempre più difficile la conquista delle fasce più giovani e moderne che avrebbero bisogno di un approccio innovativo. All’invecchiamento progressivo del pubblico corrisponde la sempre più scarsa presenza dei giovani. […] Il pubblico giovanile appare oggi lontano, quasi del tutto disinteressato al mondo della musica colta. Ma nello stesso tempo è il mondo musicale ‘classico’ che appare oggi incapace di parlare ai giovani, di interessarli, perché utilizza formule e linguaggi antiquati”. Salvatore Frega, il compositore più seguito sui social, ha sentenziato: “La musica classica è in crisi? Colpa nostra!”. Il direttore artistico dell’Accademia Musicale della Versilia ha infatti spiegato i motivi del declino della musica contemporanea: “L’età media dello spettatore teatrale è di 68 anni, fra 15 anni non ci ascolterà più nessuno”.

Addio ai fondi per le scuole di musica

Ma l’aria da ribassi, saldi e liquidazione non è solo nel campo della “musica eseguita”. È ben presente anche in quello della “musica insegnata”: un ministro della Pubblica Istruzione di centro-destra rese noto il suo fermo proposito di eliminare molti conservatori statali di musica con chiusure e accorpamenti in favore dei privati. Non è una novità che vengano decimati gli accrediti alle scuole pubbliche e contemporaneamente – in nome dell’incentivo all’imprenditoria – si elargiscano fondi alle scuole private, in buona parte della Chiesa. E così chi è ricco studia in scuole con la piscina e chi va nelle scuole pubbliche vede che si fa fatica a sostituire le lampadine fulminate; eppure i fondi sono pubblici per entrambi.
La tanto sospirata riforma dei conservatori prese le mosse dalla constatazione che ai diplomati di conservatorio italiani, all’estero, veniva concesso di insegnare solo nelle scuole elementari: il valore ridicolo del diploma andava elevato al rango di laurea. Perciò nel 1999 si approvò in fretta e furia una riforma piena di innumerevoli lacune e difetti. Oggi i conservatori, dopo oltre vent’anni, lavorano assurdamente come delle università senza averne né le risorse né gli emolumenti, pur dispensando corsi di laurea di 1° e 2° livello, master e dottorati. I geniali sindacati, perseguendo l’ambizioso risultato, offrirono allo Stato un mezzo più raffinato per eliminarci silenziosamente e sorridendo.
Poi arrivò la spinta di un altro governo di centro-destra il cui ministro della Pubblica Istruzione (Mariastella Gelmini), oltre a distribuire le solite consulenze strapagate ai soliti amici, tagliò ulteriormente fondi e competenze ai conservatori, oltre a riproporre di declassare quasi tutti i conservatori a licei musicali mantenendone solo tre a livello universitario. Ovviamente non si mancò di fare un regalo al partito alleato “del Nord” prospettando che il Conservatorio di Milano passasse da subito al livello dell’Accademia Santa Cecilia di Roma, declassando così quest’ultima da Accademia “Nazionale” ad Accademia del “Centro-Sud”. Solo la prematura caduta di quel governo ci salvò. Ma lo strangolamento economico è continuato imperterrito durante il 1° e 2° governo a guida Pd di Letta e Renzi, Conte 1, Conte 2 e la pandemia, Draghi e Meloni e la guerra. Ormai siamo alla fine.
Ce lo stavano urlando nelle orecchie da decenni: la musica non produce, la cultura è superflua, gli artisti sono fannulloni e vanno zittiti, maltrattati e malpagati. In questo i politici di tutti i partiti hanno mostrato una rara unità di sforzi ed intenti!

Chi ha ucciso la musica classica in Italia? Siamo stati noi, tutti noi, degnamente rappresentati da governi che hanno seguito la propria scarsa cultura e inseguito interessi immediati di cassa: negare fondi a scuola e cultura per sprecarli da qualche altra parte, magari dandoli a più riprese e a piene mani alla Fiat, che poi ha ringraziato “delocalizzando” e andandosene all’estero.
Eppure esiste un solido e percorribile progetto di politica economica ove la stessa musica classica potrebbe tornare ad essere utile.
Siamo realisti: non disponiamo di grandi ricchezze minerarie né imponenti giacimenti di idrocarburi, realtà confermata durante la recente crisi energetica. E pur avendo una buona capacità manifatturiera, soffriamo della carenza di materie prime: non potremo mai competere davvero con le grandi potenze industriali. Faremmo meglio a concentrare altrove i nostri sforzi: c’è un fiume di denaro alla nostra portata, rappresentato dai molti turisti che ogni anno vengono da tutto il mondo alla ricerca della Bella Italia, eppure noi ci ostiniamo ad offrire loro solo una spiaggia e una spaghettata.
Abbiamo idea della ricchezza che il turismo di qualità potrebbe portare in una Italia ben organizzata a tale scopo? Una nazione che sappia offrire il meglio – e solo il meglio – in tale direzione sarebbe vincente: offrirebbe posti di lavoro per tutti e non conoscerebbe crisi.

I numeri negativi dell’arte italiana

L’indagine USnews ‘2021 Best Countries’ osservava il paradosso di una Italia prima al mondo per patrimonio artistico (cultura, moda, tendenza, patrimonio storico e architettonico) ma che affonda al 14° posto nella classifica se si calcola tutto il resto: corruzione, tasse e burocrazia. Per i 16mila intervistati che hanno risposto all’indagine in quattro continenti diversi, l’Italia è “campione di bellezza e turismo”, ma non è consigliata per viverci bene e in pace: dominano i commenti negativi su “qualità della vita” e “diritti umani”. Ciliegina sulla torta, è di pochi mesi fa la notizia della discesa al 58° posto nella classifica mondiale per la “libertà di stampa”, e di sicuro non aiuta a risolvere i problemi il non poter dire liberamente cos’è che non va.
L’Italia detiene il maggior numero di siti inclusi nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco: 58. Il numero dei luoghi da visitare è strabiliante. E non si tratta solo di visitare i 4.908 musei e siti archeologici ma anche monumenti, piazze, intere città d’arte! Eppure i ricavi complessivi da bookshop per i musei statali di tutta Italia equivalgono a solo il 38% di quanto incassa da solo il Metropolitan Museum di New York. “Investendo nell’ambito di pochi, ma prioritari settori, – fece notare Giacomo Neri, della Financial Services Practice di PricewaterhouseCoopers Advisory – quello del turismo, del merchandising artistico in alcuni servizi collegati (alberghi, ristorazione, viaggi, ecc…), è possibile dare avvio ad un processo virtuoso che coinvolgerebbe, con ricadute positive, tutta una serie di settori sinergici quali agricoltura, infrastrutture, artigianato, industria ed altri servizi.”
Ecco: ipotizziamo per un attimo di indirizzare l’attività del nostro Governo nel coordinare i ministeri che si occupano di musei, beni artistici ed archeologici, ricettività alberghiera e di ristorazione, magari per mezzo di un nuovo vero Ministero del Turismo e Spettacolo che verifichi onestamente e con severità la qualità dei servizi erogati e chiuda bettole e stamberghe. Certo, servirà anche investire denaro per il personale e le infrastrutture (strade, ferrovie, porti ed aeroporti), potenziare le scuole alberghiere e promuovere il consumo di tutti i prodotti tipici nazionali, investire nella cultura (scuole anzitutto, poi teatri, orchestre, musei, siti archeologici, pulizia, sicurezza ed arredo urbano nelle città d’arte), riorganizzare la fruizione degli spettacoli coordinandone la produzione e facendola ‘girare’ (evitando così i dispendiosi personalismi di singoli teatri), ecc. ecc.
Considerando poi che gli oggetti esposti nei musei sono meno del 30% di quanto è custodito nei loro stessi sotterranei, ci sarebbe da costruire una quantità di musei che oscilla fra 3 e 4 volte quanti ne abbiamo già. E così via: l’elenco delle cose da fare per attrarre il “turismo di qualità” è lungo ma lastricato di sicuro successo.

Esempi virtuosi di investimento nella cultura

Ci riusciremo mai? Non lo so. Ma so che funzionerebbe: altri Paesi molto più povere di noi lo dimostrano da decenni. Un esempio per tutti di Paese che vive di solo turismo è la Giordania che ha un potentissimo ministero che gestisce e controlla i molti siti archeologici traendone valuta pregiata dai visitatori.
Ovviamente per attrezzarci, almeno inizialmente, servirà investire molto denaro. Dove prenderlo? Un’altra idea ce la suggerisce il Costa Rica, Paese che ha risparmiato sulle spese militari, reindirizzandone le risorse nel turismo. Quanti sanno che in Italia la spesa militare era pari alla spesa per le Politiche del Lavoro e solo marginalmente inferiore alla spesa per le Politiche Sociali? Una fonte specializzata afferma che secondo le stime del Sipri, lo Stockholm International Peace Institute, l’Italia solo pochi anni fa ha impegnato nella la spesa militare 28,16 miliardi di euro, e questo già prima dell’impegno del 2014 a versarvi il 2% del pil nazionale come da richiesta NATO.
Secondo alcune fonti di consultazione nel mondo gli Stati senza forze armate sono 25. Costa Rica è stato il primo Paese senza un esercito. La sua Costituzione proibisce la formazione di un esercito sin dalla fine della guerra civile, nel 1949. È sede della corte Inter-Americana dei diritti umani e dell’Università per la Pace dell’Onu. Si è classificata al primo posto per la felicità media della popolazione nella classifica della graduatoria Happiness In Nations 2000-2009. Ha reindirizzato le risorse in altri settori determinando un alto tasso di sviluppo umano, una discreta dotazione di opere pubbliche e la preservazione del proprio patrimonio faunistico e floristico: come diretta conseguenza, una notevole parte del territorio (27,9%) è stata dichiarata parco nazionale. Oggi si notano alti livelli di alfabetizzazione (oltre il 95%) e un buon servizio sanitario pubblico. Inoltre l’assenza di un ceto militare ha prodotto una notevole stabilità politica nel Paese (è uno dei pochi Stati dell’intero subcontinente a non aver avuto colpi di Stato negli ultimi decenni). La sola forma istituzionale “armata” è dedita a compiti di polizia civile, guardie di frontiera e sorveglianza dei parchi naturali. Oggi la principale fonte di reddito del Costa Rica è il turismo, sia quello naturalistico che quello dedito alle spiagge ed al bel mare. Ha 26 parchi nazionali, molti dei quali vantano moltissime specie di piante ed insetti che attendono ancora di essere scoperte e catalogate. Frotte di turisti e di scienziati naturalisti vi accorrono nella speranza di poter essere loro a dare questo contributo alla scienza.
Come l’Araba Fenice anche la musica classica in Italia potrebbe rinascere dalle sue ceneri se inquadrata in un progetto complessivo di rinascita culturale ed economica che potrebbe condurre il nostro Paese fuori dall’attuale tunnel.

 

CREDITI FOTO: Derek Gleeson|Wikimedia Commons

 



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