Nanni Moretti, “Il sol dell’avvenire” e un finale che può sempre cambiare

Con “Il Sol dell’avvenire” Nanni Moretti regala a quel pubblico di cui fa finta di disinteressarsi un atto di tenera generosità sentimentale e intellettuale, riscrivendo il finale del suo film. Del nostro film.

Alessia Zappa

Chi l’ha detto che la Storia non si fa con i se? Possiamo cambiare e cambiare e cambiare ancora un destino che sembrava già scritto, liberando l’amore e, con esso, la fantasia, dalle briglie dell’ideologia e di quel feticcio detto “necessità storica”. Nanni Moretti lo fa con “Il Sol dell’avvenire” e regala a quel pubblico di cui fa finta di disinteressarsi un atto di tenera generosità sentimentale e intellettuale, riscrivendo il finale del suo film. Del suo film nel film, per la precisione, un meta-film che a un certo punto diventa persino un meta-film su un terzo film, un film pieno di altri film, ricco di letteratura cinematografica e di una riflessione sottile, delicata, sul ruolo dell’arte nelle nostre vite e quindi nella politica.

La vicenda narrata è quella di Giovanni, regista alter-ego di Nanni, impersonato da Moretti; realizza un film ogni cinque anni e lo fa trascinandosi dietro un armamentario di ritualità, insicurezze e pessimismi incrociati che ne decretano il fallimento ancor prima di aver incominciato a girare. Il film che ha in mente è la storia del tragico destino di un comunista del Quarticciolo (Ennio, interpretato dal sempre sublime Silvio Orlando) alla periferia di Roma, negli anni ’50. Deluso dal Partito Comunista sovietico che ha invaso l’Ungheria, da Togliatti allineato al partito e da sé stesso per non essersi ribellato alla linea filosovietica, abbandonato dalla moglie (Barbora Bobulova) che non può sottostare a tanta prepotenza, Ennio si rassegna al tragico suicidio; finché Giovanni, mentre tutte le sue sicurezze vanno a rotoli, reagisce infine a sé stesso e con un guizzo di creatività cambia il finale già scritto della sua storia, trasformandola da atto di sconfitta inevitabile in un’esplosione di libertà e amore. Quando succede? Quando capisce che l’amore è più importante dell’ideologia, persino della fedeltà a sé stessi e figurarci se a quella di partito; quando la moglie Paola (Margherita Buy) lo lascia, proprio mentre attorno a lui sbocciano amori irrituali e inattesi, e allora si rende conto che la felicità non è melensa, e che l’ideologia può diventare una condanna, una coazione a ripetere e ripetersi fino a farsi insopportabili, e a rendere la vita stessa poco sopportabile.

È questo, molto probabilmente, il senso di tutti gli stilemi tipicamente morettiani di cui la prima metà del film è infarcita, le tante autocitazioni da film precedenti, l’incedere lento e pedante del suo parlato, la sequenza infinita di idiosincrasie. Una rappresentazione intellettualmente onesta – capiamo poi – di una gabbia stilistica e retorica nella quale chiunque – il nostro regista, in questo caso – può finire intrappolato se non si concede mai un’infedeltà alla tradizione, una fuga in avanti dell’immaginazione, un pensiero liberatorio, una contrarietà. Per il regista ingabbiato la tentazione è piuttosto quella di forzare la realtà della Storia, per esempio strappando il volto di Stalin dai manifesti di partito perché “il film è mio e non ce lo voglio”. Un capriccio che non cambia la realtà ma asseconda una “delusion”, per dirla con un’intraducibile parola inglese. Non un atto sovversivo, come quello che più tardi invece arriverà. Il regista ingabbiato si lascia adulare dal produttore adulatore. Il regista libero invece viene rifiutato da Netflix e dai suoi “190 Paesi”; e con la sua reazione, in una delle scene più divertenti di tutto il film, comincia la svolta della vicenda, anzi il “turning point”. Da quel momento, “Il Sol dell’avvenire” è un crescendo. Un crescendo di libertà e felicità, di leggerezza e consapevolezza, di accoglienza dell’amore e della speranza, una volta lasciata cadere la zavorra della fatalità, la zavorra del dogma e la zavorra della necessità: da quella storica a quella economica.

La Storia, è questo il grande messaggio del film, si fa anche attraverso l’immaginazione. Non ci inchioda alla fatalità di subire gli eventi; a patto però di conoscerla e di rispettarla. Negarla, cancellarla o riscriverla per non doverla studiare sono tutti atti di “delusion”: di inganno e di autoinganno. Rappresentare una sezione del PCI degli anni ’50 senza il ritratto di Stalin è un gesto di riscrittura storica narcisistica, fino a quando il ritratto di Stalin non finisce nella spazzatura grazie al rigetto cosciente di quell’Unione Sovietica; senza questa presa di coscienza – si avverte e ci avverte Moretti – finiamo per ridurre Rosa Luxemburg a un’etichetta sulle acque minerali, rassegnati a una e una sola fine. Invece la Storia e i suoi linguaggi bisogna conoscerli: bisogna conoscere il linguaggio filmico con cui grandi autori hanno rappresentato la violenza, per potersi permettere di rappresentare la violenza, bisogna conoscere i fatti per chiedersi in che altro modo sarebbero potuti andare i fatti.

La libertà dell’immaginazione non è, insomma, un invito alla fuga nella fiction; in questo senso il film, che sarà in concorso a Cannes quest’anno, è anche un importante manifesto antiNetflix, contro tutta la corrente revisionista della Storia con finalità di correzione della stessa; e contro l’ignoranza che dilaga sotto le sembianze dell’intrattenimento. È invece un grande inno all’onestà intellettuale, la vera molla liberatrice che ti permette di pensare oltre. L’onestà intellettuale che va di pari passo con l’amore, disfacendosi del fardello dell’ideologia.

Con delicatezza sofferta, ma anche conquistata,  Moretti ci ricorda che la storia, compreso la storia delle sconfitte, non deve pesare come un macigno sulle nostre coscienze. Che bisogna liberare l’immaginazione. La scena più bella è proprio, forse, quella in cui a tavola i commensali si dedicano a immaginare il proprio film, in un grande atto di gioia collettiva.
La grande Storia non doveva per forza andare com’è andata. Ma se ci arrendiamo all’ideologia della necessità, all’idea che non poteva non finire così, tutto perde di senso. Come fare un film cominciando dalla fine. Invece, se l’arte ha un perché, non è quello di “essere visti in 190 Paesi” ma di farci pensare a come le cose potrebbero andare in un altro modo, e un altro e un altro e un altro ancora, e farci intraprendere strade di libertà diverse.



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