Narges Mohammadi vince il Nobel per la pace: un riconoscimento alla lotta delle donne in Iran

Narges Mohammadi è una donna iraniana che da anni lotta contro il regime islamista nel suo paese. Questo premio è un omaggio al movimento “Donna, vita, libertà”, alla resistenza delle donne iraniane e a tutte le resistenze. Ci ricorda che se non ci fossero persone coraggiose e disposte a resistere, saremmo stati sempre e saremo sempre vittime di tirannie e dittature.

Sara Hejazi

“Il mio obiettivo è sempre stato quello di combattere la tirannia religiosa, che ha portato alla profonda repressione delle donne in Iran”. Così Narges Mohammadi aveva scritto in un editoriale sul New York Times il 16 settembre di quest’anno, dalla sua cella del carcere di Evin, a Teheran.
Quella data era simbolica: si trattava infatti della ricorrenza del primo anniversario dalla morte della 22enne Mahsa Amini, morta in circostanze mai chiarite proprio mentre era in custodia alla polizia morale, che l’aveva arrestata perché non indossava correttamente il velo.
Da allora, come accade ormai ciclicamente in Iran da decenni, le proteste civili hanno nuovamente scosso il Paese, sta volta con una forza nuova, nuovi slogan e nuove istanze, ma senza portare a una vera e propria rivoluzione.

A guardarlo oggi, a un anno di distanza, il movimento Donna, vita, libertà sembra proprio questo: una rivoluzione mancata. Probabilmente il premio Nobel per la pace conferito a Narges Mohammadi qualche giorno fa è da leggersi proprio in quest’ottica: le proteste dello scorso anno, a differenza di quelle che le hanno precedute, sono arrivate dritte al cuore anche di questa parte del mondo, l’Occidente. Forse per l’incredibile giovane età dei manifestanti, che avevano un’età media di 16 anni, forse per i gesti e i simboli così potenti anche esteticamente, come il taglio delle lunghe ciocche di capelli delle iraniane o il gesto di bruciare l’hejab per le strade polverose: sta di fatto che anche chi dell’Iran non aveva mai sentito parlare, ha potuto vedere ora una gioventù assolutamente moderna, con idee e istanze legittime, venire costantemente repressa, arrestata, ferita, giustiziata dalle forze dell’ordine.
Il premio Nobel a Narges Mohammadi non è, dunque, come ha detto qualcuno, un premio di consolazione. È un riconoscimento nel senso etimologico del termine: conoscere due volte, conoscere ancora. È un messaggio proveniente da questa parte del mondo, in cui si conosce nuovamente lo sforzo di tantissime donne iraniane di cambiare il proprio paese dall’interno; si conosce di nuovo il coraggio, la poetica e l’assoluta autonomia delle iraniane. Non è un premio di consolazione. È un premio meritato con le lacrime e con il sangue, questa volta in senso letterale.

Bella Ciao
Qualche tempo prima di sapere di aver vinto il premio Nobel, nei giorni in cui le era stato concesso di scrivere l’editoriale per il New York Times, Narges aveva anche registrato un messaggio vocale, poi mandato nell’etere fuori dalle mura del carcere.
Era un messaggio breve, ma, soprattutto, corale. C’era la voce di Narges assieme alle sue compagne di cella. Prima si sente il gruppo gridare lo slogan Zan, Zendegi, Azadi! (Donna, Vita e libertà). Poi le voci si uniscono in un canto. Per chi è europeo, ma soprattutto italiano, si tratta di una musica famigliare, musica di casa. Sono le note del canto partigiano “Bella Ciao”, ma le parole sono in persiano.
“Bella Ciao” è il canto popolare contro le dittature e per l’opposizione agli estremismi, ed è così che è diventato il canto simbolo della resistenza italiana. Poi, come tante tradizioni culturali, è saltato fuori dai confini della nazione. La resistenza agli abusi nell’esercizio di potere è in fondo sempre uguale, probabilmente universale. Vuole sacrifici, ma anche fiducia. Dentro le mura del carcere di Evin, nella sezione femminile, un gruppo di donne iraniane ha dato di nuovo vita alla resistenza italiana, che è diventata, così, resistenza planetaria.
Narges Mohammadi, come la stragrande maggioranza delle donne iraniane, ha deciso di studiare le cosiddette materie STEM all’università. Scelse fisica. Disse, nel 2018:
“Ero felice di studiare la fisica quantistica all’università, come strumento per capire l’universo. Allo stesso tempo, mi preoccupavano le condizioni oppressive del mio paese e la tirannia in cui versavano anche le nostre università, le ritorsioni contro i nostri intellettuali e la censura nei nostri mezzi di comunicazione.”
In quegli anni iniziò il suo attivismo politico, che la portò a scontare lunghi mesi di carcere a più riprese negli ultimi vent’anni. Le sue lotte si sono incentrate sulla pena di morte, sulla messa in discussione delle leggi sfavorevoli per le donne, sulla lotta contro il programma governativo “castità ed hejab”.
L’incontro con la giurista Shirin Ebadi (premio Nobel per la pace del 2003) le cambiò la vita: insieme fondarono e lavorarono nel Centro per la Difesa dei Diritti Umani. Si trattava di un’organizzazione coraggiosa, che operava sul territorio e si basava sulle sole conoscenze e competenze dei propri membri, per la maggior parte donne.

Il caro prezzo della resistenza
Narges è madre di due gemelli adolescenti che non vede da 8 anni perché espatriati in Francia con il padre, anche lui arrestato più volte per le proprie idee politiche. Anche Shirin Ebadi, pochi anni dopo aver vinto il Nobel, ha lasciato il Paese. Sembra che il peso del sacrificio per il cambiamento e per la resistenza sia dunque tutto sulle spalle di Narges e su tutte quelle donne e quegli uomini che sono rimasti.
Insignita del premio Andrei Sakharov nel 2018, dichiarò:
“La tirannia non si impone solo politicamente. Usa ogni possibile mezzo per istituzionalizzare la discriminazione di genere, di orientamento sessuale, di religione e etnia, di orientamento ideologico, soprattutto nei riguardi delle donne. […] Perciò quando una donna come me decide di rompere le regole deve soffrire in prigione, lontana dai suoi figli. È una lezione di resistenza per le altre donne”.
Se la resistenza qui da noi sembra un concetto del passato, come un orpello da esporre nel museo insieme alle casacche dei partigiani, il Premio Nobel per la Pace a Narges Mohammadi ci riporta invece all’attualità della resistenza, che si basa su un sacrificio e una dedizione pressocché totali. È una vera e propria rinuncia a sé.
Da anni Mohammadi soffre di cuore e ha dovuto subire interventi, che a volte le sono stati negati all’interno del carcere. Ma anche in queste condizioni la sua voce è uscita fuori dalle mura umide e sporche di Evin. Nel 2022 è riuscita ad aggirare i controlli e la censura e consegnare così un libro di interviste alle detenute, in cui faceva emergere come la tortura e l’abuso sessuale siano pratiche consuete sui corpi delle donne incarcerate, o di cosa si provi a passare mesi in totale isolamento.
A chi mi chiede se questo premio servirà a Nargess, io rispondo di no. Non la faranno uscire per questo. Non servirà alla sua biografia, né alla sua libertà personale. Ma è chiaro che questa donna si è da sempre posta al servizio di un piano di libertà collettiva. E lo ha fatto con grande consapevolezza, visto il numero di volte che l’ha vista incarcerata.
Il Premio Nobel non servirà a Narges, dunque, ma serve a tutti noi. Ci serve da memorandum. Ricordiamoci che la resistenza esiste; ricordiamoci che se non ci fossero persone coraggiose e disposte a resistere, saremmo stati sempre e saremo sempre vittime di tirannie e dittature.
Le società umane non sono mai libere una volta per tutte. Bisogna resistere sempre.
Donna, vita, libertà.

CREDITI FOTO EPA/ABEDIN TAHERKENAREH



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