Navi quarantena, la denuncia di uno psicologo: “Impossibile assistere le persone”

Intervista con Fabrizio, psicologo a bordo delle navi quarantena: “Salire a bordo è facile, cercano continuamente professionisti e volontari. Ma una volta su, ti rendi conto di essere precipitato in un incubo”.

Valerio Nicolosi

La parte di assistenza psicologica a bordo delle navi quarantena è una delle più delicate e complesse. Con la terza a ultima intervista ai testimoni diretti all’interno dell’inchiesta sulle navi quarantena proviamo a raccontare il lavoro che avviene a bordo, come viene deciso se una persona è “vulnerabile” o meno, come dovrebbero essere divise le persone sulla base del sesso e dell’origine, cosa che spesso non avviene.
“Ho mandato il mio curriculum, sono stato richiamato e in poco tempo ero a bordo. È stato semplice. Ho esperienza nelle emergenze ma nessuno mi ha chiesto che tipo di lavori avessi svolto in precedenza. A bordo salgono anche colleghi con poca o nessuna esperienza e questo è un problema perché fanno fatica a gestire la grande mole di lavoro che abbiamo”. Fabrizio (nome di fantasia) è uno psicologo che ha partecipato a una missione a bordo delle navi quarantena del governo italiano e in questa terza intervista parliamo degli aspetti psicologici, sia per l’equipaggio che per gli ospiti a bordo.
“Il problema dell’inesperienza è che oltre ad assistere centinaia di ospiti dovresti essere anche il sostegno psicologico dell’equipaggio, cosa molto difficile da fare perché tu stesso ne sei parte e non hai nemmeno una supervisione. Il rischio di andare in burnout o di commettere errori è altissimo”.

Che tipo di errori?
Per esempio l’errore di scavare nella psiche delle persone quando non ci sono i tempi e non si è sedimentato tutto, voler per forza salvare qualcuno che in quel momento non può o non vuole essere salvato. I traumi sono così recenti che se si va troppo a fondo si può solo peggiorare la situazione.
La figura dello psicologo serve principalmente per individuare persone con problemi e necessità di sostegno; ovviamente è a disposizione di chi vuole parlare ma la priorità è quella di segnalare prima dello sbarco le vulnerabilità, termine con il quale si indicano persone che hanno bisogno di essere seguite con maggiore attenzione.
Ma sai che non ci sono linee guida per le vulnerabilità? Tutto dipende dal capomissione, nel senso che nel corso della missione sono cambiati più capimissione e da ciascuno di loro ho avuto direttive diverse. Io mi volevo attenere alle linee guida delle organizzazioni dove ho lavorato in precedenza perché sono chiare, ma non ho potuto.

E come vengono scelte di volta in volta? Perché se una persona è vulnerabile non può essere una scelta soggettiva.
Appunto, ma purtroppo è stato così. Per riconoscere una vulnerabilità viene prodotta una relazione a 360 gradi, cioè con la valutazione di tutte le figure professionali a bordo. Questo però non sempre è possibile per la mancanza di tempo, di mediatori disponibili, anche loro costantemente impegnati in attività extra a discapito del loro ruolo, o che parlino la stessa lingua della persona interessata. Quello che succede è che poi degli oltre 700 ospiti a bordo pochissimi o nessuno risultava vulnerabile.

Il silenzio che si crea al tavolo del bar dove ci siamo incontrati è più eloquente di tante parole: una procedura di questo tipo non rispetterebbe il diritto internazionale e la Convenzione di Ginevra.
La testimonianza di Fabrizio descrive bene il meccanismo frettoloso con il quale un gruppo di due psicologi dovrebbe lavorare e chiudere le pratiche, perché “la burocrazia non ha i tempi della terapia” ci dice. “In cinque giorni il team deve approcciarsi con la persona, capire meglio la situazione con due o tre colloqui e poi, il quinto o il sesto giorno, comunicare le vulnerabilità. Se non rientri in quei tempi perché non hai riscontrato prima la vulnerabilità di una persona è difficilissimo comunicarla successivamente.
Non hai il tempo di instaurare il rapporto, soprattutto con le donne che hanno spesso storie di violenze alle spalle e non ne parlano per vergogna. Le mie colleghe vorrebbero fare di più ma è complicato”.

Proprio questo è uno dei temi che anche nelle altre puntate abbiamo già affrontato: la separazione tra uomini e donne a bordo che non viene garantita e che mette a repentaglio sia il percorso di assistenza, sia la loro sicurezza a bordo.
“Chiedono sempre di essere messe con altre donne in un corridoio separato ma questo non è possibile, così le sistemano nelle prime cabine del corridoio ma il luogo è talmente piccolo che chi è vittima di tratta viaggia con chi la sfrutta, finendo anche per prostituirsi a bordo; chi è sola rischia di essere abusata e chi vuole denunciare di essere vittima di abuso non può farlo, perché non potremmo garantirle uno spazio diverso dove stare dopo la denuncia”. Fabrizio ha fatto spesso riunioni con le colleghe per capire come poter aiutare le donne a uscire dalla tratta, ma il problema inizia già durante il colloquio, al quale oltre alla psicologa partecipa un mediatore culturale, spesso uomo e originario dello stesso Paese della ragazza. “Non si fidano, pensano che potrebbero parlare con i loro sfruttatori; non è facile quando la tua famiglia è ostaggio della rete di trafficanti”.

Essendo una nave quarantena “c’è l’idea di fondo che a bordo non ci debbano essere contraccettivi e il problema sta negli spazi ristretti dove il distanziamento sociale è impossibile. Così, quando una ragazza chiede aiuto dopo un rapporto, spesso non voluto ma subìto, non si può fare nulla, neanche somministrare la pillola del giorno dopo”.
Inoltre “non dividono le persone neanche sulla base della provenienza, cosa che comporta problemi di convivenza in quegli spazi ristretti” racconta Fabrizio. “Libici, tunisini, maliani, somali, nigeriani o bengalesi, tutti insieme per dieci giorni in un corridoio stretto e senza uscite con delle cabine da condividere”.
Quella descritta è una situazione in cui si sentono “le mani legate, una condizione di emergenza dove potenzialmente si potrebbe fare molto ma per motivi amministrativi, burocratici e organizzativi si fa poco.”

Uno dei motivi che rendono il lavoro difficile “sono i costanti turni di guardia, a volte anche notturni” che il team di psicologi è costretto a fare. “Immagina di fare un turno di notte e poi, verso le 7 del mattino, iniziare i colloqui. Non sei fresco e se riesci a fare circa venti colloqui, la sera sei distrutto e devi iniziare a compilare le carte, sempre che non ci sia un imbarco o uno sbarco” perché “i gruppi vengono imbarcati in momenti diversi e con poco personale a disposizione significa che quasi ogni giorno c’è un imbarco o uno sbarco da seguire, operazione che richiede molto tempo. Alla fine, quanto tempo posso dedicare agli ospiti?”.
La domanda retorica di Fabrizio rimette al centro la questione che abbiamo affrontato nelle puntate precedenti di questa inchiesta: per chi sono pensate queste navi quarantena? L’impressione è che i diritti e la cura delle persone migranti siano all’ultimo posto e che prima ci siano tante altri fattori, ritenuti più importanti.

L’ultimo tema che tocchiamo è quello delle molestie sessuali a bordo o, come le ha chiamate Giulia nella prima puntata, “predazioni sessuali”.
Fabrizio racconta di aver parlato molto con le colleghe donne e di aver provato a organizzare dei gruppi di sostegno con le donne dell’equipaggio, anche per le psicologhe stesse. “Più colleghe mi hanno riferito che durante i colloqui colleghi un po’ di tutte le aree professionali ci provavano con loro in modo esplicito. Oltre alle molestie hanno creato anche un danno professionale e di immagine della collega davanti agli ospiti”.
Mediatori e altri membri dell’equipaggio che si sono resi protagonisti delle molestie sono stati segnalati più volte, ma Fabrizio conferma quello che ci diceva Giulia: non sono mai stati richiamati, sanzionati o allontanati.

 



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