Nâzım Hikmet, rivoluzionario comunista e romantico

A sessant’anni dalla morte di Nâzım Hikmet leggere le sue poesie non può che rendere noi tutti più attenti ma anche più partecipi alla situazione in Turchia, dove scrittrici e autori, giornalisti e artiste, nuovi “traditori e traditrici della patria”, vengono rinchiusi in galera con accuse tanto gravi quanto infondate, o costretti all’esilio.

Lea Nocera

Gran bella cosa è vivere, miei cari scriveva Nâzım Hikmet un anno prima di morire il 3 giugno 1963 a Mosca, dov’era da oltre un decennio in esilio. Un cuore malato e una vita di passioni, di politica e poesia. Quello era il titolo scelto per il suo romanzo pubblicato un anno prima della sua morte e apparso in Italia solo nel 2010. Un romanzo, marcatamente autobiografico, la cui stesura lo aveva accompagnato per molti anni e che vede il protagonista narratore, Ahmet, morso da un cane rabbioso e costretto a fare i conti con la propria esistenza, attraversando luoghi ricordi amicizie amori. Alla vita Nâzım Hikmet si era dedicato anima e corpo, perseguendo l’ideale politico ed etico di un mondo giusto ed uguale, ideale comunista che aveva potuto conoscere, anche nelle sue contraddizioni, durante la sua permanenza in Unione sovietica e nei diversi viaggi nei paesi del blocco socialista. La rabbia dei governi turchi al contempo non aveva mai smesso di perseguitarlo. A 26 anni viene incarcerato per la prima volta per 7 mesi, dopo aver però già vista inferta su di lui una condanna di quindici anni. Più volte viene arrestato, la carcerazione più lunga dura dodici anni. In galera ha il suo primo infarto. In totale i tribunali turchi lo condannano a cinquantasei anni di prigione. Vive nel suo paese, la Turchia della grande trasformazione kemalista, entrando e uscendo dalla clandestinità, ed entrando e uscendo dal carcere. Più volte lascia il paese ma ci ritorna, per poi andare via definitivamente nel 1951. Non ritornerà nemmeno da morto, le sue spoglie sono rimaste a Mosca.

A lungo, e in parte ancora oggi, la voce più nota della Turchia nel mondo intero, nel suo paese, infatti, non solo non avrebbe più fatto ritorno ma le sue opere sarebbero state a lungo vietate. Per decenni leggere o anche possedere un’opera di Nâzım Hikmet in Turchia ha significato accuse di sovversione se non l’arresto. Nâzım Hikmet il poeta turco per eccellenza era stato privato della cittadinanza e come scrive lui nella poesia OtobiyografiAutobiografia: “in trenta lingue o quaranta s’imprimono i miei scritti /marchiati dal divieto nel mio turco là in Turchia”, le sue poesie di fatto saranno a lungo più conosciute all’estero che nel proprio paese. La sua figura è stata riabilitata solo all’inizio del 21° secolo, appena si cominciavano a girare le spalle al vecchio Novecento. Un contesto internazionale ben differente da quello marcato dalla Guerra fredda e, a livello locale, quando si misuravano gli effetti e le nuove prospettive inaugurate con l’apparente novità portata dalla vittoria del partito Akp di Recep Tayyip Erdoğan per la prima volta al governo. Su una lunga scia che segue le celebrazioni del centenario della nascita del grande poeta nel 2002, si cominciano prima a pubblicare tutte le sue opere per arrivare, nel 2009, a restituirgli, da parte del governo, dopo oltre cinquant’anni, la cittadinanza. Un’operazione che appare politica già allora e ancora di più oggi, se si guarda il trattamento riservato ad altri scrittori. Con la riabilitazione di Nâzım Hikmet, il governo turco allora non può che dare prova della democratizzazione in senso liberale che nei primi anni Duemila sembrava aver cambiato il corso della Turchia, insieme a successi in campo economico e in politica estera. Allo stesso tempo, all’interno del paese, confortava quel mondo culturale progressista, laico e di sinistra che aveva cominciato a guardare con profondo sospetto e preoccupazione all’affermazione di Erdoğan.

Era il 1902 quando Nâzım Hikmet nasceva a Salonicco in una famiglia agiata e colta. La repubblica era ancora lontana e l’impero ottomano, oramai inesorabilmente verso la fine, era sotto il governo dispotico di Abdülhamid, il “sultano rosso” – rosso sangue di ferocia – come lo chiamavano i Giovani turchi che contro di lui si sollevarono nel 1909. Cresce in un ambiente raffinato e pieno di poesia e di cultura: la madre Celile, pittrice e appassionata di letteratura francese, annovera tra i suoi migliori amici, e frequentatori della casa, il grande poeta Yahya Kemal, suo futuro insegnante; il nonno paterno, governatore di Salonicco e Aleppo, adepto della confraternita derviscia dei Mevlevi, era anch’egli poeta, più legato alle forme tradizionali. Culture diverse che convivono, nel pieno del fermento intellettuale e culturale del primo Novecento. Nâzım Hikmet compone il suo primo poema già a tredici anni, ne seguono altri a quattordici, sedici anni. Un giovane poeta adolescente, allievo all’Accademia di marina, ancora alle prese con la metrica, pieno di senso patriottico. La svolta nella sua vita interviene quando, a diciotto anni, lascia di nascosto l’Accademia per partecipare alla guerra di indipendenza guidata da Mustafa Kemal. È così che per la prima volta attraversa l’Anatolia, incontra contrade a lui sconosciute e i volti dei contadini in quella ricchezza di umanità che poi in parte andrà a descrivere nei suoi Paesaggi umani. Nell’impeto nazionalista di quegli anni, il governo istituito a Ankara dai kemalisti, lo invia, alla pari di molti altri intellettuali, a insegnare in una scuola nel nord dell’Anatolia. E qui affascinato dalle eco della rivolta spartachista e assistendo alle prime forme di repressione dei kemalisti nei confronti dei sindacati e dei comunisti, decide di lasciare clandestinamente il paese, in compagnia del suo amico giornalista Vâlâ Nureddin (Va-Nu). Il viaggio che avrebbe dovuto portarli in Germania si ferma in Unione Sovietica dove è in corso la rivoluzione. L’incontro è folgorante. Come racconta è lì che scopre tutta un’altra umanità e comincia a scrivere in un altro modo. Si iscrive all’Università comunista dei lavoratori d’Oriente e si lascia travolgere dall’energia delle avanguardie sovietiche, si interessa al teatro, critica l’arte pura. Monta la guardia accanto al feretro di Lenin. Ritorna in Turchia nel 1924 con l’idea di contribuire alla trasformazione politica nel proprio paese: sono i primi anni delle riforme kemaliste, il processo di costruzione della nazione va a ritmi serrati. La repressione non lo risparmia, viene condannato a quindici anni e parte nuovamente per l’Unione sovietica dove partecipa attivamente alla produzione culturale e artistica. Quando rientra in Turchia, illegalmente perché non ottiene risposta dall’ambasciata per il visto, viene ancora arrestato per organizzazione di attività sovversive. In questo periodo viene pubblicato 835 righe, suo primo libro pubblicato nel paese, che riscuote un enorme successo e ancora oggi viene considerato un’opera chiave della letteratura moderna turca. Sono evidenti le influenze del futurismo e tra i richiami all’Anatolia si sente il ritmo delle macchine elettriche. Seguono altre pubblicazioni tra il 1929 e il 1931 (La Gioconda e Si-Ya-U, Varan 3, 1+1=1, La città che ha perduto la voce) ma regolarmente vengono additate come opere sovversive e il poeta è accusato di istigare il popolo contro il governo e di propaganda comunista. Grazie a un’amnistia ottiene nel 1933 la libertà vigilata. Scrive nel 1935 “Un giovane abissino in Italia” ispirato dalla storia di un giovane etiope trucidato dai fascisti ma la pubblicazione vede la luce solo con un altro titolo per le proteste degli italiani: sarà Lettere a Taranta Babù. L’ultima opera che riesce a pubblicare in Turchia è l’Epopea dello sceicco Bedrettin in cui racconta una rivolta contadina contro il sultano. Il suo stile si raffina, assumendo in questi anni i tratti di originalità che lo caratterizzano: svaniscono gli influssi delle avanguardie, la poesia diventa strumento di descrizione della realtà ma anche strumento di dialogo della coscienza tra e per l’umanità. Il suo poema Alle porte di Madrid, scritto mentre in Spagna è in corso la guerra civile viene ritrovato tra molti cadetti dell’Accademia militare. Nâzım Hikmet viene accusato di istigazione alla rivolta di esercito e marina. Comincia per lui il periodo di detenzione più lungo, con condizioni durissime in diverse fasi e la costante minaccia di impiccagione. Gli viene vietato di scrivere, le poesie vengono affidate a voce alla moglie durante i colloqui. È nelle celle di Bursa che oltre a ritrovarsi con un altro grande scrittore, Orhan Kemal, scrive le Lettere dal carcere, molte delle poesie d’amore e anche la sua più opera più ampia, Paesaggi umani, un poema che sarebbe stato composto da otto libri che racconta, attraverso ritratti e storie individuali, la Turchia dal 1908 al 1950, ma di cui una parte viene distrutta dalla polizia. Nel 1949 Hikmet fa uno sciopero della fame, comincia una campagna di solidarietà sia nel paese con raccolte di firme tra intellettuali sia con la pubblicazione di una rivista il cui titolo è Nâzım Hikmet. Il sostegno arriva in modo importante anche dall’estero e vede coinvolti tra gli altri Tristan Tzara, Jean-Paul Sartre, Picasso, Pablo Neruda. Sarà quest’ultimo a ritirare a suo nome il Premio internazionale per la pace. Esce dal carcere nel 1950 e dopo un anno lascia la Turchia, dove rimangono Münevver Andaç, sua moglie, e il figlio Mehmet nato da poco. È su di loro che si ritorce il governo turco: viene impedito loro di partire, vengono continuamente sorvegliati, la loro vita diventa un inferno. Nâzım Hikmet acquisisce la cittadinanza polacca e si trasferisce a Mosca. Comincia per lui un periodo di viaggi straordinari che lo portano dalla Cina a Cuba, da Parigi al Tanganica. In uno di questi viaggi, nel 1958 a Stoccolma, a un convegn per la pace conosce Joyce Lussu. Da quel momento la loro amicizia avrebbe significato un sodalizio letterario molto prezioso per noi italiani. È grazie a lei che le poesie di Nâzım Hikmet diventano accessibili. Senza conoscere il turco, in dialogo costante con Nâzım, che parlava francese e rileggeva l’italiano, per cinque anni lavora alle traduzioni e alle pubblicazioni. È grazie a lei che per anni si sono conosciute le sue vicende in Italia e si sono lette le sue poesie, oggi in parte riprese grazie al lavoro, sempre riconoscente alla sua predecessora, del turcologo Giampiero Bellingeri. Joyce Lussu diventa anche grande amica di Münevver e organizza una fuga per lei e il figlio di Nâzım Hikmet: un’avventura incredibile che lei racconta nei dettagli in Il turco in Italia ovvero l’italiana in Turchia. È con Joyce Lussu che Nâzım Hikmet gira per Roma ma se tra i poemi che dedica ai suoi viaggi manca quello che si accingeva di scrivere sulla capitale e altre città italiane, la cui pubblicazione era già programmata grazie a Gianni Bosio e alle edizioni Avanti! lo dobbiamo alla rigidità di Mario Scelba che tornato a essere ministro dell’Interno pensò bene di rifiutargli il visto. Al posto dell’Italia parte per Cuba, sono gli anni che precedono la Conferenza tricontinentale, il grande progetto internazionalista di liberazione dei popoli, e come racconta Lussu ci va per raccontare poeticamente la rivoluzione di Fidel Castro e così al suo ritorno pubblica il poema La Conga con Fidel. In giro per il mondo, poeta viaggiatore, per tutta la sua vita canta in poesia, in un verso che non poteva che essere libero, una realtà complessa ma pronta alla pace, all’umanità, alla gioia e al rispetto, a una convivenza che è intrinseca alla comunione di intenti. Nell’essere artista lui si immagina “ingegnere degli umani spiriti” ma viene segnato dal marchio di “traditore della patria”. Nella sua poesia Tradisce la patria del 1962 scrive “E sì che tradisco la patria, voi siete patrioti, la patria l’amate, io non l’amo tradisco la patria./Se patria vuol dire le proprietà vostre,/se patria vuol dire le casse di soldi/e i libretti di assegni per voi, se patria vuol dire crepare di fame sul margine ai viali,/ se patria vuol dire tremare da cani nel freddo e di febbre, malaria,/se patria è succhiarci il sangue vermiglio nelle vostre officine,/se patria vuol dire religione e dottrina divina su punta di lancia, milizia, bastoni,/se patria vuol dire quei vostri sussidi e le misere paghe per noi, se patria vuol dire le basi, le bombe, la flotta e i cannoni d’America,/se patria vuol dire esser schiavi delle tenebre nostre,/allora traditore lo sono./E via tre colonne scrivete caratteri strilli di scatola neri: Nâzım Hikmet tradisce la patria tuttora”.

Fino all’ultimo giorno, Nâzım Hikmet ha vissuto pienamente, scrivendo, viaggiando, discutendo, amando il mondo e la gente, pieno di speranza e fiducia nell’avvenire dell’umanità. Ha scritto poesie d’amore e di lotta, come si intitola la più ampia antologia delle sue poesie in italiano, perché l’amore e la lotta non si possono distinguere. È morto il 3 giugno 1963, a Mosca, in una giornata di sole. Fu trovato sulla porta, in un gesto naturale che lo aveva fermato mentre stava per uscire a ritirare la posta, a fare due passi o a prendere i giornali. Sembrava tranquillo. L’infarto era stato folgorante. Come scrive la sua amica Joyce: “Gli dispiaceva morire. Ma siccome morire era indispensabile, si era augurato una morte come questa, rapida e decisa.”

Un vero poeta non canta la rivoluzione, un vero poeta fa la rivoluzione cantando e con questo – spiega ancora Joyce Lussu – voleva dire che i veri poeti ci rendono più intelligenti, non solo per osservare la realtà ma per parteciparvi. A sessant’anni dalla morte di Nâzım Hikmet leggere le sue poesie non può che rendere noi tutti più attenti ma anche più partecipi alla situazione in Turchia, dove scrittrici e autori, giornalisti e artiste, nuovi “traditori e traditrici della patria”, vengono rinchiusi in galera con accuse tanto gravi quanto infondate, o costretti all’esilio; dove la miseria della politica si è tradotta in una profonda crisi economica che aggrava il divario sociale e impoverisce gli animi nel quotidiano; dove il controllo e la censura tentano costantemente di mortificare intelligenza e creatività; ma dove tutto sommato si aprono e si ridisegnano spazi di resistenza. E a questi spazi, rileggendo le sue poesie, che bisogna dare aria e costruire ponti e nuovi approdi.

 



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