Il nazionalismo: vizio d’origine degli stati-nazione

Per la rubrica “Rileggiamoli insieme”, a confronto “Nazioni e nazionalismi dal 1780” di Eric J. Hobsbawm e "Carte d’identità. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia" di Giuliano Procacci.

Paolo Favilli

Eric J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi dal 1780, Torino, Einaudi, 1991

Giuliano Procacci, Carte d’identità. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia, Roma, Carocci, 2005

I Prendere un filo per iniziare a sciogliere il nodo

Ho scelto di indicare la lettura/ rilettura di questi due libri, il più recente dei quali uscito quasi vent’anni fa, perché si tratta di lavori in grado di fornirci, a un livello molto alto di consapevolezza storica, alcuni elementi per riflettere sull’attuale guerra in Ucraina in una prospettiva di presente profondo. Naturalmente riguardano solo uno dei molti aspetti che convergono a configurare un evento di tanta rilevanza storico-politica: quello che s’interroga sull’oggetto identità nazionale. Un filo che tuttavia è componente non secondaria per porsi il problema della comprensione della guerra in Ucraina, anzi delle molte guerre in corso, e non da ora, in quella terra di confine.

Un grande scrittore russo, un grande scrittore appartenente al mondo intero, di fronte ad altra invasione, di fronte ad altra guerra catastrofica, ci aveva mostrato quale doveva essere il metodo di analisi per comprenderne il senso complessivo

«Il 12 giugno le forze dell’Europa occidentale varcarono le frontiere della Russia e cominciò la guerra, cioè si compì un fatto contrario alla ragione umana e a tutta la natura umana. Milioni di uomini commisero gli uni contro gli altri così innumerevoli malefici, inganni, tradimenti, rapine, falsificazioni ed emissioni di assegnati falsi, saccheggi, incendi ed assassini, quanti per secoli interi non ne raccoglierebbero gli annali di tutti i tribunali del mondo….»

Il secondo volume di Guerra e Pace comincia con questo periodo, cioè con l’icastica rappresentazione di un’invasione e dei suoi effetti. Oggi ci troviamo di fronte ad un’altra invasione con identici effetti potenziati al massimo da uno sviluppo senza precedenti della tecnologia bellica. Lev Tolstoj ha ben chiare le responsabilità contingenti dell’aggressore contro il quale condurre una guerra totale era cosa necessaria. Era necessario calarsi nell’orrore. Fa sue le parole di Andrej Bolkonski: «Non prendere prigionieri, ma uccidere e farsi uccidere. (…) Lo scopo della guerra è la strage; strumenti della guerra sono lo spionaggio, il tradimento e l’istigazione a tradire, la spogliazione degli abitanti, il saccheggio e il furto per approvvigionare l’esercito, l’inganno e la menzogna, detti astuzie di guerra». Usa un linguaggio demistificante nei confronti della «grandezza» di Napoleone «che più duramente di ogni altro che avesse partecipato a quell’azione portava il peso di quanto avveniva; ma mai, sino alla fine della sua vita, egli riuscì a intendere né il bene, né la bellezza, né la verità, né il significato dei suoi atti, troppo contrari al bene e al vero». Che, nelle sue riflessioni a Sant’Elena, considerava la campagna di Russia celle du bon sens et des vrais intéréts di un nuovo sistema di equilibrio europeo puremement pacifique. Che nascondeva l’atrocità del reale sotto il velo di proposizioni ideali.

Putin, l’aggressore, è il responsabile primo per aver trasformato i «piccoli» orrori della guerra a bassa intensità, nel grande orrore che sta sotto i nostri occhi. Ad aver trasformato la conflittualità latente dell’attuale sistema internazionale, in guerra aperta. Ma l’enormità dell’atto non si può comprendere concentrandosi nell’atto in sé.

Tolstoj, nonostante la sua esecrazione per Napoleone, aveva ben compreso che la contingenza non poteva spiegarsi se non all’interno di una struttura, come avrebbe detto, quasi un secolo e mezzo dopo. Ernest Labrousse.  Il manifestarsi, lo «scoppiare» di una guerra di vasta portata, di eventi così capaci di dare un segno interpretativo forte ad una fase storica, non poteva essere compreso basandosi sul tempo breve in cui Napoleone ed Alessandro I avevano messo in moto il meccanismo: «Ogni volta che vedo mettersi in moto una locomotiva, odo un fischio, vedo che si apre una valvola e si muovono le ruote; ma da ciò non ho il diritto di concludere che il fischio e il movimento delle ruote sono la causa del movimento della locomotiva».

Tolstoj dedica brani di «spietata ironia» (Berlin) alle narrazioni superficiali e intellettualmente povere di quelli che oggi chiameremmo «storici politici». Naturalmente egli non poteva suggerire altre alternative se non ispirate ad alcune filosofie della storia del secondo Ottocento con forti caratteristiche deterministiche.

Quale «spietata ironia» dovremmo riservare, dopo decenni di elaborazioni teoriche e pratiche storiografiche tese a costruire categorie analitiche adatte alla comprensione del «presente come storia», al fatto che oggi venga continuamente riproposto, a proposito della guerra in Ucraina, lo stesso modello di rappresentazione oggetto dei feroci strali dell’autore di Guerra e Pace?

Per la verità attualmente non sono, in genere, gli studiosi professionali di storia ad utilizzare il modello della «contingenza» senza «struttura», ma gli «opinionisti» di una stampa che svolge le funzioni comunicative come reparto componente un ampio ed articolato schieramento bellico.

Ecco il modello conoscitivo proposto da un giornalista presente costantemente su quella stampa e nella politica-spettacolo televisiva. Ad un lettore che esprimeva qualche dubbio sulle caratteristiche della guerra in corso così ne spiegava le motivazioni ed il senso: «Si chiama lotta tra il bene e il male. Se un uomo che si abbandona agli istinti malvagi prende il potere in uno Stato autoritario, sono guai. È, semplificato al massimo, quanto sta accadendo, no?» (Severgnini, «Corriere della Sera», 11 maggio). Dove la «semplificazione» serve solo a sottolineare il fondamento esplicativo della guerra in corso. E a chi, in uno spettacolo televisivo, gli chiedeva quali sarebbero stati gli esiti della lotta in corso tra il bene ed i male in Ucraina, rispondeva con altrettanta «semplificazione»: «Non c’è storia, è abbastanza evidente come va a finire. Vinciamo noi questa guerra», noi «40 democrazie ricche, avanzate, organizzate» («Otto e mezzo», 27 aprile). Del resto, come aveva affermato un altro giornalista, Francesco Merlo, l’inglese non è forse «la lingua della democrazia»? («Corriere della Sera», 13 marzo).

Non si potrebbe dire più chiaramente, e su ciò i Severgnini, i Merlo, i Gramellini, i Grasso ecc. sono candidamente scoperti, che non è l’analisi dell’evento lo scopo dei loro interventi, quanto la partecipazione attiva all’iniziativa militare dell’esercito del bene.

Dal punto di vista del modo in cui gli studiosi intendono il processo conoscitivo solidamente fondato su «analisi» di sistema, le proposizioni dei suddetti, ed altre analoghe, sono soltanto stupidaggini pomposamente declamatorie. Dal punto di vista, però, di una guerra nel cui carattere locale si rispecchia una globale tensione conflittuale, tali proposizioni sono semplicemente armi di combattimento, parole come pallottole. E chi combatte convintamente una guerra non può concepire la pace se non come frutto della propria vittoria. Nel caso dei «nostri segretar[i] dell’opinione dominante» sarà la vittoria del «noi (…) 40 democrazie, ricche, avanzate, organizzate». In sostanza l’auspicio di una guerra, di una barbarie, continua.

A parte l’enfasi dannunziana niente di concretamente determinato, nemmeno sui parametri attraverso i quali riconoscere i caratteri costitutivi dei magnifici 40. Anche in questo caso l’analisi specifica dell’oggetto specifico non è considerata necessaria: la democrazia si autodefinisce tramite tautologia.

Il giudizio politico su quanto sta accadendo può dare indicazioni su come operare nella proposizione di iniziative per la pace solo se solidamente fondato sul giudizio storico. Il giudizio storico non è quello che assolve o condanna, ma che si pone il problema della comprensione dell’evento inserendolo nei tempi e negli spazi geografici che lo rendono intellegibile. In fondo lo ha riconosciuto anche il comandante in capo delle armate del bene il 24 maggio, parlando a Tokyo di fronte ai colleghi del Quad, quando ha affermato: «Questa è più di una questione europea. È un problema globale».

Ecco, soltanto provandosi a mettere in connessione tutti i fili che attraversano le logiche della conflittualità tra le grandi potenze per la ridefinizione degli equilibri mondiali dopo la dissoluzione dell’Urss, si può aspirare di avvicinarsi ad un panorama conoscitivo che permetta di operare razionalmente in un contesto di relazioni devastato.

Anche su questo non ci si devono fare soverchie illusioni. La ragione è debole di fronte ai meccanismi delle forze in atto scatenate dal sistema guerra, meccanismi incontrollabili dopo determinati livelli di sviluppo endogeno. Ma proprio perché la ragione è così fragile non possiamo permetterci di farne a meno. Dobbiamo cercarne le tracce anche in quel groviglio tra ragioni pratiche e ragioni emotive in cui si manifesta la costruzione di una identità nazionale in forma di stato.

II Una nazione è per sempre?

L’italianista Giulio Ferroni, discutendo il senso del suo recente libro su L’Italia di Dante, ha affermato di non amare la «nazione italiana», ma i luoghi d’Italia. Anche chi scrive queste note non ama la «nazione italiana» bensì, sono ancora parole di Ferroni, «l’Italia che è nella poesia di Dante, nella pittura del rinascimento, nelle opere degli umanisti»[1]. Chi scrive queste note non solo non ama la «nazione italiana», ma tutte le nazioni che declinano il concetto in «nazionalismo».

Forse che il nazionalismo è l’esito obbligato del processo di costruzione di una «nazione»? Espressioni come «difenderemo fino all’ultima goccia di sangue i sacri confini della nostra nazione», che in questo nostro tempo vediamo espresse in varie forme da ministri. alti militari ucraini e cittadini comuni, sono la necessaria realtà del principio di nazionalità? Forse che questo principio non può affermarsi senza mitologia nazionalistica?

Che cosa rende «sacro» il confine? Un confine che spesso in pochi decenni è cambiato più volte. Dopo quanti anni un confine diventa «sacro»? La «sacertà» è innata, è per sempre, o ha date di inizio e di scadenza?

Il regista ucraino Lonitsa è stato espulso dall’«Ukrainian Film Academy» perché non abbastanza fiero dell’identità nazionale. Lonitsa nelle sue dichiarazioni e nella sua opera cinematografica si mostra sempre come fervente sostenitore della «ucraicinità», ma non fino al punto di boicottare il cinema di quei registi russi che si sono schierati contro la guerra.  Quindi, per l’Academy, non collabora all’opera di contrapposizione «tra le culture ucraine e russe». Non collabora fino in fondo all’ideologia del nazionalismo più estremo, quella della alterità assoluta.

Un’opera improba, peraltro. Quali sono gli elementi portanti della contrapposizione rilevabili nelle culture russa e ucraina? In quali rami della cultura? La letteratura? La filosofia? Contrapposizioni endogene alle culture, intendo, non quelle esogene portate da vicende politiche recenti e dunque legate alla contingenza. Forse l’alterità assoluta va cercata nelle esplicitazioni, finalmente venute alla luce dopo essere state represse fin dal trattato di Andrusovo del 1667, delle naturali e profonde differente etnico-linguistiche tra russi e ucraini?

In una tesi di dottorato discussa all’Università di Milano-Bicocca nel 2014 si affronta il tema in questione a partire dall’esperienza concreta di un giovane ucraino. Jura, questo il suo nome, ha il padre di nazionalità ucraina che vive a Mosca. La madre ucraina di nazionalità russa. La moglie cittadina ucraina di nazionalità russa. Questo schema, dove “cittadinanza” ucraina e russa e “nazionalità” ucraina e russa continuano a intrecciarsi, rappresenta un modello famigliare diffuso nel contesto ucraino, in quanto riproduce una realtà simile a quella di milioni di altri ucraini, soprattutto nelle zone Sud-orientali del Paese[2].

Jura che nel 2014 aveva 35 anni, ha trascorso il primo periodo della propria infanzia in un oblast della Russia allora Sovietica. Ha sempre parlato russo ed ancora oggi parla ucraino con forte accento russo. Con la moglie parla russo e anche la loro bambina si esprime in quella lingua. «Quest’ultimo fatto lo turba molto: la figlia nonostante sia di “sangue” (la definizione è di Jura) ucraino, “disgraziatamente” (secondo Jura), come i genitori, non parla l’ucraino ma il russo (la lingua dei “russi”). Mi dice spesso: “Piangerò d’emozione e di gioia quando sentirò mia figlia che mi parlerà in ucraino”»[3]. Ha rotto i rapporti col padre che definisce nemico, nella logica di una parola d’ordine che ricorre costantemente nei suoi discorsi: «L’Ucraina agli ucraini! fuori tutti i russi!», cioè una parte rilevante dei cittadini ucraini. Questo nel 2014, appunto.

La tesi, tramite approccio storico-antropologico, è nata dal tentativo di risponde ad una domanda: «Сom’è possibile sentire, sviluppare tanta contrapposizione e alterità in presenza di tanta conformità fisica e culturale?».

La lettura/rilettura dei libri in oggetto può aiutarci a mettere qualche tassello al tentativo di dare una risposta.

III Lo stato-nazione dei «popoli senza storia»

«È evidente che il problema della costruzione se non dell’invenzione di un’identità nazionale si pone in termini di particolare acutezza ed urgenza quanto più labile ne sia il contenuto e quanto più recente è l’acquisizione dell’indipendenza o anche la rivendicazione della medesima. In certi casi tale processo segue anzi e non precede l’acquisizione dell’indipendenza e della dimensione statuale»[4].

Giuliano Procacci anticipa in questo modo i lineamenti conclusivi della sua accurata ricerca concernente l’insegnamento della storia tramite i manuali scolastici adottati in recenti stati-nazione, in particolare in quelli nati in seguito alla dissoluzione dell’Urss.

Strumento essenziale di questa forma di nazionalizzazione delle masse è il manuale di storia nazionale distinto da quello di storia generale. Un manuale che fa proprio della «distinzione» e della «contrapposizione» nei confronti di realtà nazionali e/o statuali «altre» criterio portante della propria narrazione. La preoccupazione identitaria, infatti, costituisce il tratto dominante di tutti i libri di testo studiati da Procacci. Una forma di nazionalizzazione, quindi, che proviene dall’alto e che s’incontra con costruzioni identitarie provenienti dal basso che però, a seconda delle diversità storiche dei differenti neo-stati, quelle reali non quelle inventate, si concretizza in composti diversi. Il quadro di sistema in cui la nazionalizzazione dall’alto ha inserito istanze identitarie provenienti dal basso e mantenenti un notevole grado di indeterminazione è, nelle sue linee generali, lo stesso per tutta la manualistica in oggetto: a) il legame per la terra dei «padri» da cui deriva che i confini, quelli attuali del tutto casuali, sono sacri e inviolabili; b) il legame di sangue versato per conquistare e difendere la terra; c) la lingua come elemento discriminante dell’appartenenza piena allo stato-nazione; d) l’amore di patria come valore primario e assoluto.

La declinazione di tale quadro di sistema può variare anche in tempi molto brevi a seconda delle variazioni concernenti gli interessi politici delle oligarchie che hanno governato e governano le repubbliche ex sovietiche, Russia ben compresa.

Nel caso della Bielorussia e dell’Ucraina, ad esempio, cioè di realtà che per secoli hanno avuto relazioni del tutto interne all’universo russo, gli esiti del processo di nazionalizzazione delle masse sono stati diversi proprio in relazione alle scelte politiche delle oligarchie via via dominanti.

Nel 1991, al momento della fondazione delle due nuove statualità (il termine «indipendenza» è del tutto fuorviante rispetto al risultato di uno scioglimento consensuale gestito dagli stessi gruppi dirigenti delle repubbliche sovietiche di Bielorussia e Ucraina), la strada di coltivare le pulsioni nazionalistiche era pressoché obbligata. D’altra parte, in tale contesto, il nazionalismo più spinto era, ed è, l’unica forma di legittimazione su cui quelle oligarchie possano contare con sicurezza.

La Bielorussia non fece eccezione ed in mancanza, o comunque di scarsa presenza, di precedenti di una qualche consistenza in materia, i manuali scolastici dettero grande rilievo alla costituzione nel 1918 di una Repubblica popolare bielorussa durata pochi mesi e la cui giurisdizione non andava al di là della città di Minsk. In uno di quei manuali si può leggere che l’esperienza di quei mesi rappresentava comunque «il sale della terra bielorussa»[5]. Quando poi gli interessi della gestione del potere di Lukashenko hanno avuto bisogno del retroterra del fratello maggiore russo, quei manuali sono stati immediatamente ritirati dalla circolazione.

Le oligarchie che hanno governato l’Ucraina a partire da 1991 hanno avuto con le oligarchie russe un rapporto più complesso e contraddittorio. Lo Stato ucraino del 1991 era disegnato nei confini di una repubblica sovietica, con i confini già modificati dalla «donazione» della Crimea da parte di Krusciov, l’ucraino segretario generale del Pcus, nel 1954, trecentesimo anniversario di quel trattato di Periaslav che aveva rappresentato l’unione dei popoli slavi: ucraini, bielorussi e russi. La «donazione», quindi, era stata fatta in una logica che niente aveva a che fare con una nazione basata su una qualsivoglia identità etnico-linguistica. Proprio per questo i governanti del nuovo Stato avevano la necessità di legittimarsi tramite la costruzione di una «ucrainità», intesa come un dato naturale e astorico. I manuali scolastici «nazionali» diventano, allora, lo strumento privilegiato di questa operazione.

Gli scolari ucraini apprendono così che la Rus’ di Kiev, lungi dall’essere uno Stato russo o slavo orientale, era uno Stato protoucraino, che il trattato di Periaslav del 1654 non sancì l’agognata riunificazione tra i popoli fratelli di Russia e di Ucraina, ma piuttosto la brutale annessione della seconda da parte della prima, che l’atamano Mazepa, che dal servizio degli zar passò a quello del re svedese Carlo XII e trovò la morte sul campo di Poltava, non era, come si leggeva nei manuali sovietici e si legge tuttora in quelli russi, un avventuriero, se non un traditore, bensì un «eroe nazionale» ucraino. E infine che la carestia del 1932-1933 fu deliberatamente voluta da Stalin e che i soldati ucraini che combatterono nel corso della prima guerra mondiale nelle file dell’esercito austriaco o di quello russo o quelli che nel corso della seconda guerra mondiale militarono nelle file dell’esercito collaborazionista di Vlassov in quelle dell’Armata rossa erano egualmente dei patrioti ucraini e che perciò meritano di essere accomunati nello stesso rispetto[6].

Un’«ucrainicità» che si vuol far coincidere (a forza) con la «nazione» (?) casualmente interna ai confini del 1991.

Lo stesso meccanismo si è verificato nelle repubbliche caucasiche ed asiatiche già costituenti l’Urss. Una realtà dove il ricorso a precedenti storici «nazionali» era, ed è, impossibile. Qualcuno bisogna comunque trovarlo, così il presidente uzbeko Islam Karimov nel 2002 chiese con insistenza che sui libri di testo si contrapponessero ai nefasti della dominazione russa «le glorie di Tamerlano, uomo di pace e non solo di guerra» al contrario di Gengis Khan. Contemporaneamente, prima di rientrare nella Federazione russa, nella Repubblica autonoma del Tatarstan si insisteva perché nella manualistica scolastica fosse data «una valutazione diversa da quella tradizionale ad deterrendum della figura di Gengis Khan»[7].

Nelle steppe dell’Asia centrale appartenenti all’impero russo assai spesso la popolazione non sapeva nemmeno in che cosa consistesse una frontiera. Paradossalmente, «fu il regime comunista a creare delle “unità nazionali amministrative” su base territoriale etnico-linguistica (…) in aree dove nulla del genere era mai esistito e neppur vagheggiato, come nel caso delle popolazioni musulmane dell’Asia (…). L’idea di repubbliche sovietiche basate sulle “nazioni” kazhaka, kirghisa, uzbeka, tagika e turkmena fu un’elaborazione teorica degli intellettuali sovietici»[8].

Nonostante che tale elaborazione teorica portasse a «unità nazionali amministrative» in cui la base etnico-linguistica era fortemente parziale e necessariamente convivente con altre realtà dello stesso genere, nessuna delle neonate formazioni che intendono essere stati-nazione mette in discussione i confini ereditati dalla costruzione sovietica. «Anche il revisionismo storiografico ha dunque i suoi limiti e le sue astuzie»[9].

Quei confini, disegnati secondo una progettualità del tutto interna alla logica di una statualità in cui l’interdipendenza di tutte le componenti era la condizione necessaria per quella che, non a caso, si è chiamata «Unione». Dopo il 1991, in un contesto che negava alle radici la razionalità della suddetta logica, quei confini sono divenuti comunque «sacri», «inviolabili», segni di identità assoluta per i quali dulce et decorum est mori.

Una situazione per molti versi simile a quella dell’Europa dopo i trattati di Versailles del 1918: «La maggior parte dei nuovi Stati edificati sulle rovine dei vecchi imperi risultarono altrettanto “multinazionali” delle vecchie “prigioni delle nazioni” che avevano sostituito. (…) Il cambiamento più rilevante consistette nel fatto che gli Stati erano adesso mediamente più piccoli, e che i “popoli oppressi” al loro interno, adesso li si chiamava “minoranze oppresse”»[10]. E si scoprì che il nazionalismo delle piccole nazioni mal tollerava le minoranze proprio come quello che Lenin aveva chiamato «sciovinismo da grande nazione».

Così nella costruzione della «nuova nazione» non più imprigionata nell’unità statuale da cui ha, peraltro, mutuato confini e realtà etnico-linguistica eterogenea, non è possibile permettere a minoranze di avere condizioni politico-culturali che possano portarle a rivendicare, a loro volta, l’«autodeterminazione».

Per evitare che le minoranze possano considerarsi «popoli» è necessario imporre l’ufficializzazione a tutti i livelli dell’esercizio politico-amministrativo della lingua in cui si esprime la maggioranza. È necessario imporre la discriminazione su basi linguistiche, diffondere la glottofobia, cioè alimentare uno stato di guerra civile prima latente, poi a seconda delle contingenze politiche, interne ed internazionali, passibile di trasformarsi in guerra civile armata. Nel nostro caso «separate confrontations have turned into a bloody civil conflict between those who supported the Maidan and those who opposed it. I used the term ‘constructed ’ to underline the structuralist perspective of my analysis, trying to accentuate that the spiral of hate and animosity – an integral component of anycivil confrontation – is impossible without the construction of ‘otherness’ by each side of the conflict»[11].  Una otherness che passa attraverso la «homogenization of the self as opposed to the enemy; the radical difference of the enemy; and the need for destruction of the enemy»[12].

Il lungo percorso analizzato da Hobsbawm di questo tipo di nazionalizzazione dall’alto delle masse in periodi storici diversi ci permette di cogliere analogie e differenze. La vicenda  della costruzione non di una ucrainicità storicamente reale, ma mitologicamente astorica, può ritrovarsi bene nella seguente  osservazione del grande storico inglese: «Nella misura in cui questi sentimenti non erano creati dal nulla bensì adottati e accuratamente coltivati dai governanti, i governi che realizzarono questo tipo di operazione diventarono specie di apprendisti stregoni»[13].
Poteva succedere, come è successo, che nello spirito del battaglione Azov e assai vasti dintorni, ci si vedesse la furia combattiva dei supposti «protoucraini», dei «colonnelli» alla Taras Bulba. Nella cosacca Sič di Zaporižžja si diceva: «Che razza di zaporozets può essere [un giovane] se non le ha mai suonate ad un miscredente?»[14]. Il «miscredente» è, naturalmente, la personificazione dell’alterità assoluta. Continuità di quello spirito materializzatasi tramite il medium Stepan Bandera, non casualmente insignito dell’Ordine della Stella d’oro e proclamato Eroe  dell’Ucraina nel 2010 con decreto del presidente Viktor Juscenko, «per aver difeso le idee nazionali».

[1] G. Ferroni, I sovranisti non amano l’Italia. Amano gli umori aggressivi che provano alcuni italiani, Huffington Post, 09/02/1922.

[2] E. Bertolasi, La questione dell’identità nazionale ucraina, Tesi di dottorato, Milano-Bicocca anno accademico 2013-2014, p. 9.

[3] Ivi, p. 10.

[4]G. Procacci, Carte d’identità. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia, Roma, Carocci, 2005, p. 16.

[5] Ivi, p. 22.

[6] Ivi, p. 20.

[7] Ivi, p. 27.

[8] Eric J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi dal 1780, Torino, Einaudi, 1991, pp. 197-198.

[9] G. Procacci, Carte d’identità…., cit. p. 27.

[10] Eric J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi…, cit. p. 157.

[11] O. Baysha, Ukrainian Euromaidan: The exclusion of otherness in the name of progress, «European Journal of Cultural Studies» 2015, Vol. 18, pp.  3 –18, cit. p. 4.

[12] O. Baysha, Dehumanizing political others: a discursive-material perspective,  «Critical Discourse Studies», January 2019, p. 5

[13]Eric J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi…, cit. p. 108.

[14] N. Gogol, Taras Bul’ba, in Idem, Opere, Milano, Meridiani Mondadori, Vol. I, pp. 328-477. La cit. p. 365.



Ti è piaciuto questo articolo?

Per continuare a offrirti contenuti di qualità MicroMega ha bisogno del tuo sostegno: DONA ORA.

Altri articoli di Paolo Favilli

Rileggiamoli insieme: “L’invenzione della verità” e “Oltre la mano invisibile. Ripensare l’economia per una società giusta”.

In questa puntata discutiamo la fine del capitalismo (o la sua rinascita) con Weber e “Oltre la mano invisibile” di Kaushik Basu.

Un’analisi della critica di Jameson al postmodernismo e del concetto di realismo capitalista di Mark Fisher.

Altri articoli di Rileggiamoli insieme

Bernie Sanders, “Sfidare il Capitalismo”, e Roberto Mangabeira Unger, “Democrazia ad alta energia – un manifesto per la Sinistra del XXI secolo”.

Rileggiamoli insieme: “L’invenzione della verità” e “Oltre la mano invisibile. Ripensare l’economia per una società giusta”.

In questa puntata: "La democrazia dei tecnocrati" di Diego Giannone e Adriano Cozzolino e "Destino delle ideologie" di Jean Meynaud.