Né SuperLega né UEFA: il calcio moderno è quello che torna dai tifosi

Non bisogna cadere nell’inganno della scelta tra due modelli contrapposti che poggiano sull’identico presupposto di calcio-business. L’alternativa esiste e altrove non è utopia: riaprire le porte ai tifosi, coinvolgendo la base e rendendola garante della sopravvivenza del football stesso.

Valerio Curcio

Per chi ama il calcio e per chi si interessa ai suoi aspetti socio-culturali, il fallimento della SuperLega del calcio europeo non consente festeggiamenti. Come un incubo rivelatore, il piano arrogante e arbitrario di dodici dei club calcistici più importanti d’Europa ha costretto tutti (tifosi, atleti, dirigenti, istituzioni, addetti ai lavori) a confrontarsi con una serie di interrogativi fondamentali per il futuro del pallone. Ma siamo sicuri che non esista un’alternativa a due modelli che poggiano entrambi sui presupposti del calcio come business e del calcio come spettacolo televisivo?

Lo scontro ha visto, da un lato, il futuro distopico di una SuperLega annunciata dai club fondatori con il supporto finanziario di JP Morgan e altri fondi d’investimento internazionali. Gli aderenti hanno giustificato la creazione di un sovra-campionato privato con la retorica dell’unico futuro possibile, del drastico rimedio per salvare il pallone. Una maschera che non è servita a celare l’identità del progetto: un tentativo di tirare fuori i dodici organizzatori dal baratro del debito che tutti, chi più chi meno, sono riusciti ad accumulare con la malagestione e servendo interessi alieni allo sport. Un tentativo durato poco, prima di crollare sotto i colpi di una serie di fattori che – a detta di Andrea Agnelli, padre del progetto insieme a Florentino Perez – erano stati invece previsti e calcolati.

Dall’altro lato della contesa, è uscito come apparente vincitore lo status quo della UEFA e delle leghe nazionali, i centri del potere calcistico responsabili di più o meno tutto ciò che è avvenuto al pallone negli ultimi anni. Dalla Commissione Europea a Virginia Raggi, passando per Draghi, Johnson e Macron, le istituzioni politiche e sportive di ogni livello hanno difeso l’attuale sistema-calcio facendo appello a valori come solidarietà, inclusività, partecipazione e meritocrazia.

Il fallimento della SuperLega è stato inoltre provocato dall’intensa ondata di proteste da parte dei tifosi, soprattutto inglesi, che per due giorni ha infiammato il dibattito sui social network e si è fatta sentire in strada con striscioni e addirittura manifestazioni nel Regno Unito. Ma chiunque abbia mai messo piede in uno stadio capisce che il fronte comune del “no”, per quanto vittorioso, è in realtà tutto meno che compatto. Davvero adesso si tornerà alla normalità, come non fosse successo nulla?

Nessuno oggi può dire se quello della SuperLega sia un progetto fallito o solamente rimandato. Perché se è vero che questa SuperLega è stata ormai smembrata, è anche ovvio che le ambizioni di chi l’ha pensata rimarranno le stesse. Si pensi per esempio al nuovo formato delle coppe europee, che dal 2024 somiglieranno a veri e propri campionati, garantendo più partite e quindi maggiori introiti dai diritti televisivi. La nuova formula di Champions, Europa League e Conference League (terza coppa che partirà la prossima stagione) è proprio una concessione della UEFA al blocco di club che chiedeva più partite e più soldi. Una concessione evidentemente ritenuta non sufficiente, ma che fa capire quanto le istituzioni sportive siano ricettive verso le richieste di chi muove i soldi nel calcio. Il ruolo della UEFA risulta ancora più in discussione se si pensa che tutto il mondo, almeno per due giorni, ha immaginato la possibilità di un torneo al di fuori del perimetro della confederazione: la UEFA, per due giorni, è virtualmente morta.

È più che lecito allora pensare che quello della SuperLega sia stato uno strappo che, nei prossimi mesi, porterà non tanto a pesanti sanzioni verso chi ha provato a deviare la storia del calcio, quanto a fitti tavoli di mediazione tra la UEFA e gli altri poteri in gioco per far sì che tutti, alla fine, siano più o meno soddisfatti.

Chi, per rifiutare la SuperLega, ha parlato di funzione sociale, di meritocrazia e di solidarietà, ha descritto i massimi livelli del calcio di oggi con parole distanti dalla realtà. Negli ultimi trent’anni il gioco del pallone si è allontanato in maniera inesorabile da quello che un tempo era il suo core business, cioè i tifosi. Da attività sociale e popolare di massa, il football si è trasformato sempre più in un prodotto televisivo, e il fatto che sia proseguito durante la pandemia ne è la prova.

Prezzi dei biglietti sempre più alti, per stadi fatiscenti o per fredde cattedrali dell’hi-tech, hanno contribuito a fare in modo che in molti campionati la partita diventasse una fan experience da vivere ogni tanto, e non più il momento più alto di una narrazione totalizzante, quella che Pasolini definì “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo” e che, senza coinvolgere attivamente i tifosi presenti allo stadio, torna a essere undici persone che corrono appresso a un pallone. O meglio, diventa uno show come molti altri, a tratti avvincente ma destinato a una fruizione in gran parte superficiale e atomizzata.

Il fatto che, tra i colpi che hanno abbattuto il castello della SuperLega, ci siano le dimostrazioni di sdegno dei tifosi è un appiglio di speranza per chi crede ancora nella dimensione sociale e culturale del calcio. Perché se è vero che al contrario delle tifoserie inglesi, in Italia come in Spagna praticamente nessuno è sceso in strada a protestare, è anche vero che i tifosi di ogni angolo d’Europa, e in generale gli appassionati di calcio, con le loro rimostranze sul web hanno fatto capire ai produttori del nuovo show televisivo che il pubblico non avrebbe gradito. E non è un caso che le più accese proteste siano avvenute nel Regno Unito, dove la Premier League è diventata un bene di lusso, dove sugli spalti non si può bere una birra o stare in piedi, ma dove al contempo il legame di appartenenza tra tifoso e club non si è mai interrotto.

Quello dei tifosi britannici è un senso di appartenenza che ha anche dei risvolti di fatto socio-politici: nel Regno Unito quasi ogni squadra ha un Supporters’ Trust, cioè un organo indipendente e democratico con cui i tifosi agiscono in difesa dei propri diritti e tutelano gli elementi fondamentali della vita e dell’identità del club. Il cosiddetto fan activism è un processo previsto e riconosciuto formalmente attraverso la Football Supporters Association (FSA), organizzazione che riunisce i Supporters’ Trust del Regno Unito, e a livello europeo dalla Football Supporters Federation (FSE), interlocutore della UEFA.

È da queste realtà che, all’indomani del fallimento della SuperLega, si è levato un appello per un calcio più aperto, trasparente e inclusivo. Ronan Evain, direttore esecutivo di FSE, ha le idee chiare su quale dovrebbe essere il futuro del calcio europeo: «Lo scopo della UEFA e delle istituzioni nazionali non è quello di favorire il potere di pochi, ma di bilanciarlo con gli interessi dei molti. Il calcio deve tornare a essere un patrimonio collettivo». Secondo Evain, «l’alternativa al progetto autoritario e paternalistico di una SuperLega esiste e passa per il coinvolgimento attivo dei tifosi. In questi giorni abbiamo visto grande unità tra i tifosi e chi governa il calcio internazionale. Ora bisogna immaginare nuovi spazi di partecipazione nei club, negli organi nazionali e in quelli internazionali: solo così si potrà proteggere il futuro di questo sport».

Qual è dunque l’alternativa che UEFA e FIFA dovrebbero promuovere? Davvero si dovrà scegliere tra il calcio di Perez, Agnelli e Glazer e il calcio dei Mondiali in Qatar, che si giocheranno d’inverno al costo finora di oltre 6.500 operai morti sul lavoro? O il calcio del PSG, di proprietà del fondo sovrano qatariota, che come il Manchester City (e la Juventus, e l’Inter, ecc.) dribbla le regole del fair play finanziario immettendo denaro nel club con pseudo-sponsorizzazioni provenienti dallo stesso gruppo imprenditoriale?

La risposta è no. Un modello alternativo esiste ed è in parte rappresentato dalle altre grandi escluse dalla SuperLega. Se il PSG è rimasto fuori per l’allenza strategica che lega il Qatar e Ceferin, colossi come il Bayern Monaco e il Borussia Dortmund non sono tra i fondatori poiché semplicemente i loro tifosi non avrebbero voluto, e si dà il caso che i tifosi siano anche i proprietari. Il calcio tedesco non ha infatti mai abbandonato la sua struttura associazionistica e pertanto, salvo alcune eccezioni, i tifosi-soci devono detenere più del 50% delle quote dei club professionistici. Anche Real Madrid e Barcellona sono dei club in senso letterale, detenuti dalla collettività dei soci, ma la loro struttura interna limita il potere decisionale dell’assemblea rispetto a quello dell’élite che compone il direttivo (per diventare presidente del Real bisogna garantire con le proprie finanze personali una cifra che copre il 15% delle spese previste dal club, ovvero per la stagione in corso 124 milioni: alle ultime elezioni Perez era l’unico candidato…).

In Germania qualcuno deve aver capito che il tifoso-proprietario conviene più del tifoso-cliente e ha agito di conseguenza. Ogni squadra ha un attivissimo ufficio di relazioni coi tifosi, il cosiddetto SLO, che recepisce critiche e proposte, rendendo permeabile la struttura del club. Le squadre, poi, oltre a contare su gruppi di tifo organizzato e sui Supporters’ Trust, hanno coinvolto numerosi Fanabteilungen, comitati di tifosi-soci interni al club che lavorano su tematiche verticali e vigilano sui dirigenti. La partecipazione dei tifosi alla vita del club si ripercuote sulla presenza allo stadio, generando un circolo virtuoso anche economico: prima del coronavirus il Borussia Dortmund viaggiava su una media di 81mila spettatori a partita, mentre i numeri della seconda divisione tedesca potevano competere con quelli della Serie A.

Gli stadi tedeschi sono costruiti per favorire il calore del tifo, con spalti vicinissimi al campo, settori popolari in cui poter stare in piedi e un’architettura funzionale, non inutilmente avveniristica e soprattutto manutenuta. Le enormi percentuali di riempimento sono dovute anche al costo dei biglietti, che è basso: ad esempio l’anno scorso l’abbonamento più economico per vedere il Bayern veniva meno di 150 euro. Perché mai i tifosi bavaresi dovrebbero voler partecipare a una SuperLega europea?

Tutto questo rappresenta un’eccellenza e delle eccellenze, si sa, non si può fare copia-incolla. Si può però trarre ispirazione da un sistema collaudato che, oltre a generare ottimi risultati sportivi, rende il calcio economicamente sostenibile e lo tiene lontano dal debito (il Bayern, al contrario della “sporca dozzina” della SuperLega, ha i conti in verde).

Il secondo fronte su cui i tifosi chiedono alla UEFA un intervento è proprio quello finanziario: Supporters Direct Europe, altra organizzazione europea che promuove la partecipazione dei tifosi nei club, ha chiesto alla UEFA una «redistribuzione equa dei ricavi e una revisione delle regole sui diritti tv e sul fair play finanziario». Altre voci autorevoli hanno invocato un tetto ai salari dei calciatori e un limite alle commissioni degli agenti, così come l’effettiva estromissione dei fondi d’investimento dalla proprietà dei cartellini dei giocatori (third-party ownership). E infine, per preservare la spettacolarità e la competitività tanto care ai promotori della SuperLega, in molti chiedono di ridurre le partite, portando a 16 o a 18 il numero degli iscritti ai campionati.

Tutto questo non è utopia. Sono riforme, certamente radicali, ma spesso già testate e sperimentate, che adottate gradualmente agirebbero in difesa del calcio come sport sostenibile e non finanziato a debito. Come sport comunitario e non esclusivo. Come sport sanamente meritocratico e non elitario.

“Odio eterno al calcio moderno” è uno slogan con cui molte tifoserie si scagliano contro il sistema calcio dall’avvento delle pay-tv in poi. Un approccio antagonista che però, nella sua vena nostalgica, non può bastare a proporre un’alternativa valida a due modelli che in realtà sono la stessa cosa. Il calcio di oggi, poi, è tutto meno che moderno e per riavvicinarsi ai tifosi ha bisogno di idee che moderne lo siano veramente. Le nuove generazioni, ancor prima della pandemia, avevano iniziato a rapportarsi col pallone in maniera differente, rifiutando usi e tradizioni di fratelli e genitori: niente stadio, meno partite in tv, più highlights, social network e videogiochi. Meno squadre del cuore, più simpatie. Meno bandiere, più stelle. Meno tifosi, più fan.

La vera sfida dei club calcistici, oggi, è fare in modo che questi ragazzi e queste ragazze, nonostante il buco nero di oltre un anno senza pubblico sugli spalti, potranno un giorno identificarsi anche come tifosi di una squadra. Perché il calcio dei fondi d’investimento, della corruzione, dei debiti, della pay-tv è vecchio, mentre quello che si riavvicina ai tifosi è il vero calcio moderno.

(Foto di Tobias Zils – Unsplash)

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