Nella tempesta della guerra, c’è vita a sinistra

La manifestazione per la pace dello scorso 5 novembre ha segnato un punto di svolta nella visione della guerra della Russia in Ucraina, a partire dallo stesso appello di convocazione. Fino a quel momento, la narrazione prevalente a sinistra era, sia pure con diverse sfumature, tutta sbilanciata verso le ragioni di Putin. Ora si riapre la possibilità di un dibattito che metta al centro la lotta contro tutte le oppressioni.

Germano Monti

La manifestazione romana dello scorso 5 novembre ha segnato un punto di svolta nella visione della guerra in Ucraina, a partire dallo stesso appello di convocazione. Fino a quel momento, la narrazione prevalente a sinistra era, sia pure con diverse sfumature, tutta sbilanciata verso le ragioni di Putin. Certo, nelle prese di posizione non mancavano le frasi di circostanza di condanna dell’invasione russa, ma erano sempre immediatamente seguite dal rovesciamento della responsabilità per quello che stava avvenendo in capo all’Occidente e alla NATO, per non parlare delle ricostruzioni della storia recente dell’Ucraina fra il fantasioso e lo strumentale.

Nella narrazione della “sinistra radicale” – perlomeno la più visibile, quella riunita nella coalizione politico-elettorale “Unione Popolare” – l’elemento fondante di ogni intervento era costituito dalla descrizione degli accadimenti del 2014 come conseguenza del “golpe di Euromaidan”, cioè dal disconoscimento e la delegittimazione della rivolta popolare contro il governo ucraino dell’epoca, letta come un’operazione pianificata e condotta dalle potenze occidentali e, in particolare, dagli Stati Uniti. Si tratta della medesima lettura data alle “primavere” arabe e alla rivoluzione siriana, presentata non come insurrezione popolare nei confronti di un regime nazista e mafioso, quale quello del clan Assad, ma come il risultato di una cospirazione imperialista finalizzata alla destabilizzazione di un regime “laico e antimperialista”, secondo alcuni addirittura “socialista”.

Nonostante l’evidenza della brutalità degli invasori e dell’inaspettata determinazione del popolo ucraino a resistere, le sole manifestazioni organizzate dalla cosiddetta “sinistra radicale” sono state contro basi e centri di comando della NATO e sedi dell’Unione Europea, accompagnate da una costante descrizione degli Ucraini come “nazisti”, al punto che il tormentone sul Battaglione Azov era diventato la declinazione speculare del fascista “E allora le foibe?”.

Nei lunghi mesi di guerra, il dibattito a sinistra è stato di fatto segnato da una sostanziale indifferenza verso il popolo ucraino vittima dell’aggressione russa e dall’assenza di interesse verso un altro soggetto importante: l’opposizione alla guerra nella stessa Russia. Nessuna organizzazione della “sinistra radicale” italiana ha mai ritenuto di dare voce a chi, in Russia, si è schierato contro le scelte di Putin, a differenza di quanto fatto dalla sinistra radicale francese di Jean-Luc Melenchon, che – non risparmiando le doverose critiche a NATO e Occidente – ha sempre condannato duramente l’invasione dell’Ucraina e collabora con la sinistra di opposizione russa, in particolare con il gruppo “Socialisti contro la guerra”, i cui esponenti Alexey Sakhnine, Andrei Roudoi ed Elizabeta Smirnova a fine ottobre hanno partecipato a diverse iniziative in Francia insieme allo stesso Melenchon.

Sprezzante disinteresse è stato mostrato dalla nostra “sinistra radicale” anche nei confronti della sinistra ucraina, che pure esprime ricchezza di analisi e di iniziativa, sia partecipando attivamente alla resistenza e alla difesa del proprio Paese contro gli invasori, sia lottando contro le derive liberiste del governo di Kyiv, come le leggi che promuovono privatizzazioni e deregolamentazione dei diritti di lavoratori e lavoratrici. Anche i movimenti femministi italiani hanno ignorato gli appelli di quelle che dovrebbero essere le loro compagne ucraine, come il manifesto “Il diritto a resistere” del luglio scorso. I soli riferimenti a una presunta sinistra in Ucraina prodotti dalla nostra “sinistra radicale” sono stati quelli alle formazioni filorusse e collaborazioniste messe fuori legge dal governo ucraino, accusato di reprimere il dissenso nello stesso momento in cui si taceva della repressione del dissenso nella Russia di Putin.

Un quadro desolante, risultato di arretratezza politica e povertà culturale, che vengono manifestate anche da intellettuali e opinionisti stimati e prestigiosi, come quelli che, mentre reclamavano tregue e negoziati, chiedevano la fine dell’invio di armi all’Ucraina e la cessazione delle sanzioni contro la Russia, non rispondevano all’osservazione che questo avrebbe portato a una rapida resa dell’Ucraina. C’è stato chi si è spinto a dire che fosse sbagliato e criminale inviare armi agli Ucraini perché non servivano a sostenere una “resistenza” inesistente, in quanto ci trovavamo di fronte non a una resistenza popolare, ma a una guerra fra eserciti regolari. Argomentazione singolare, se non altro perché anche la Resistenza contro il nazifascismo avveniva in presenza di una guerra fra eserciti, quelli nazifascisti e quelli Alleati.

Ultima considerazione: prima del 24 febbraio in Italia erano già presenti più di 220.000 Ucraini, quasi l’80% dei quali donne, perlopiù impiegate nel lavoro di cura (badanti), uomini impiegati nell’edilizia e nel settore commercio-turismo e quasi 20.000 minori frequentanti le nostre scuole. (Rapporto 2021 “La comunità ucraina in Italia” del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali). Una presenza più che significativa che fa di quella ucraina la quarta comunità di immigrati nel nostro Paese, dopo quelle di Romania, Albania e Cina. Anche verso questo importante settore di lavoratrici e lavoratori dentro casa nostra la “sinistra radicale” non ha mai prestato alcuna attenzione.

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Questo quadro desolante è stato almeno in parte lacerato dalla manifestazione del 5 novembre. In precedenza, a protestare davanti l’ambasciata russa a Roma contro l’invasione era stata solo la comunità ucraina, nell’indifferenza della sinistra politica e anche dei media e soltanto il 7 ottobre, ad oltre sette mesi dall’inizio dell’aggressione, alcune piccole forze della sinistra radicale hanno promosso un sit in all’ambasciata russa. L’iniziativa è stata numericamente debole, ma ha suscitato interesse mediatico, anche per la presenza di un intellettuale russo, Alexander Bikbov, che ha avuto finalmente la possibilità di far sentire l’opinione dei molti che, nel suo Paese, si oppongono alle scelte scellerate del regime di Vladimir Putin. Pochi giorni dopo, davanti l’ambasciata si è tenuta un’altra manifestazione, promossa sostanzialmente dal Partito Democratico, le cui parole d’ordine erano però improntate a un atlantismo esasperato, molto lontano dalle sensibilità storiche di un “popolo di sinistra” che, per quanto confuso e disorientato, nel nostro Paese esiste ed è tutt’altro che marginale.

L’appello lanciato da Europe for Peace ha rappresentato un salutare elemento di rottura con tutto quanto avvenuto nei mesi precedenti. Per la prima volta, infatti, grandi associazioni, sia laiche che cattoliche, hanno espresso a chiare lettere la condanna dell’aggressore unitamente al rispetto per la resistenza ucraina, quella che, secondo gli opinionisti di cui sopra, non esisterebbe. L’invasione russa è stata definita senza mezzi termini come “inaccettabile” ed è a partire da questo presupposto che è stata richiesta al Segretario Generale delle Nazioni Unite la convocazione di “una Conferenza Internazionale per la pace, per ristabilire il rispetto del diritto internazionale, per garantire la sicurezza reciproca e impegnare tutti gli Stati a eliminare le armi nucleari, ridurre la spesa militare in favore di investimenti per combattere le povertà e di finanziamenti per l’economia disarmata, per la transizione ecologica, per il lavoro dignitoso”.

Il fatto che al corteo del 5 novembre, per la prima volta dall’inizio della guerra, abbiano partecipato diversi Ucraini con le bandiere del proprio Paese ha espresso l’affermazione di una soggettività precedentemente ignorata o negata da un martellamento propagandistico che tendeva a rappresentare tutti gli Ucraini come “nazisti” e “banderisti. In questo senso, si può dire che la manifestazione del 5 novembre sia stata tutt’altro che rituale e abbia segnato un momento di svolta – culturale, prima ancora che politico – davvero importante per una sinistra che ha bisogno di riscoprire le proprie radici e la propria identità, che non possono che fondarsi sulla solidarietà verso gli oppressi e sulla nemicità verso gli oppressori.

Identificare oppressi e oppressori significa anche identificare aggrediti e aggressori ed è proprio il rovesciamento di questa identificazione ad aver provocato lo spiazzamento politico della nostra “sinistra radicale”, nella cui visione il popolo ucraino come soggetto autonomo non esiste, proprio come teorizzato da Vladimir Putin. La complessità della società ucraina, le linee di frattura che l’attraversano, il dibattito politico e culturale, i movimenti sociali, insomma, la realtà di un Paese in piena e confusa trasformazione non interessano la nostra “sinistra radicale”.

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La piazza del 5 novembre ha mostrato l’esistenza e la vitalità di un “popolo di sinistra” ben più ampio di quello rappresentato dal ceto politico della “sinistra radicale”. Un popolo consapevole dei ruoli rivestiti dai soggetti in campo e desideroso di una via di uscita dagli orrori della guerra che non coincida con la vittoria dell’aggressore e la resa dell’aggredito. Una via di uscita che appare stretta e irta di ostacoli e che il prolungarsi del conflitto rende sempre più tortuosa. Eppure, dopo tanta afasia, il 5 novembre in tanti hanno mostrato la determinazione di riprendersi la parola e adesso la necessità è quella di operare affinché non piombi nuovamente il silenzio. C’è vita a sinistra, ma questa vita ha bisogno di essere innervata di nuovi contenuti, di analisi e di comportamenti politici conseguenti.



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