Nel nome della Costituzione NO a Draghi Presidente

Draghi al Quirinale trasformerebbe la nostra repubblica in un sistema presidenziale di fatto, consolidando il liberismo economico, sociale e culturale al massimo livello istituzionale.

Giorgio Cremaschi

Con la rinuncia pressoché formale di Sergio Mattarella, si apre ufficialmente la campagna per Mario Draghi Presidente della Repubblica.
Naturalmente l’ipocrisia di palazzo finge che non sia ancora così, ma la realtà della crisi politica, economica e sociale spinge verso Draghi presidente. La sola vera difficoltà che egli potrebbe incontrare verso la sua elezione, alla quale è chiaro che tiene moltissimo altrimenti se ne chiamerebbe fuori, è determinata dal rischio che subito dopo di essa si precipiti verso le elezioni anticipate. Ecco, la vera trattativa sotterranea tra i partiti, e alla fine anche con il diretto interessato, sarà su cosa succederà dopo la sua eventuale elezione: quando il voto dei cittadini, con quale governo, con quali garanzie reciproche tra i più forti. Su questo terreno potrebbero sorgere gli ostacoli a Draghi Presidente della Repubblica, non certo su quello dei nomi da contrapporgli, a partire da quello dell’impresentabile Silvio Berlusconi, alla cui possibilità che siano davvero eletti non crede nessuno.

Il punto di fondo è che nessuna delle principali forze rappresentate in Parlamento dice no a Draghi presidente per ragioni di merito, anzi tutti ne esaltano la candidatura. Invece è proprio alla candidatura in sé che, nel nome della democrazia e della Costituzione, si dovrebbe dire di no.

Come ha dichiarato incautamente il leghista di governo Giorgetti, Draghi alla massima carica dello stato trasformerebbe la nostra repubblica in un sistema presidenziale di fatto. Il ministro è stato molto rimproverato per questa affermazione incauta, ma è la verità.

Già con Napolitano e Mattarella l’assetto istituzionale ha subìto una torsione presidenzialista. La nomina di Monti da parte di Napolitano, gli interventi diretti sulla composizione del governo gialloverde e poi la nomina di Draghi da parte di Mattarella, hanno già modificato i pesi della Repubblica. Ampliando enormemente quello del presidente e riducendo a pura appendice quello del Parlamento. Così la nostra Costituzione Repubblicana è stata reinterpretata secondo lo Statuto monarchico albertino, quando il sovrano nominava i governi e il Parlamento poteva solo eventualmente sfiduciarli, cosa che non fece mai.

In questo caso però avremmo un passaggio negativo ulteriore rispetto alle ultime due presidenze. Napolitano e Mattarella hanno nominato propri governi di fronte a due emergenze: quella dello spread e quella della pandemia e degli aiuti europei. Io penso che questa loro scelta politica sia stata una forzatura e che sarebbe stato giusto consegnare le decisioni al Parlamento o scioglierlo, invece che imporre governi presidenziali.

Già con Napolitano e Mattarella si è andati contro lo spirito profondo, non le norme, della Costituzione. Ma con Draghi si andrebbe oltre, perché già al momento della sua elezione assumerebbe quel ruolo di tutore degli indirizzi politici e della composizione del governo, che i predecessori hanno svolto in situazioni di emergenza. Con Draghi tutti i sette anni di presidenza della Repubblica sarebbero un’emergenza.

Provate solo a immaginare un Parlamento dove si formasse una maggioranza disposta ad abolire la legge Fornero, o a ripristinare l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori: il conflitto istituzionale con il presidente Draghi sarebbe immediato. Naturalmente nell’attuale quadro politico italiano questa ipotesi è alquanto fantasiosa, ma non per questo cambia il significato che assumerebbe una presidenza della Repubblica affidata a Mario Draghi.

Con il PNRR l’Italia ha accettato, in cambio di aiuti e prestiti, di vincolare le proprie scelte politiche ed economiche a precisi condizionamenti e impegni, le famigerate riforme liberiste che da trent’anni costituiscono la costituzione reale dell’Unione Europea. L’attuale governo ha già cominciato a ottemperare a questi obblighi, con la riforma della giustizia e quella degli appalti e dei servizi pubblici, con lo sblocco dei licenziamenti e il restauro della già citata legge Fornero. La direzione di marcia dei provvedimenti è chiara: liberalizzazioni, privatizzazioni, flessibilità del lavoro. La trimurti del liberismo. A essa si aggiunge il ripristino dell’austerità di bilancio, cioè dei tagli alla spesa pubblica, a partire dai 2023.

Gli accordi con la UE prevedono che ci sia un rigoroso meccanismo di controllo sull’attuazione di queste “riforme”, al quale è legata la stessa erogazione delle rate dei fondi di sostegno alla nostra economia. Nella sostanza ogni sei mesi la UE potrebbe aprire o chiudere i cordoni della borsa verso l’Italia, se il governo olandese o lituano di turno maturassero la convinzione che il nostro paese stia godendosela troppo con i soldi comunitari. Questo meccanismo di controllo, un perfezionamento di quello dei memorandum della Troika che hanno devastato la Grecia, durerà circa sei anni. Durante questo tempo basterebbe un semestre che non piaccia ai vertici europei per scatenare lo spread.

Il controllo UE dura sei anni, la presidenza della Repubblica sette. È chiaro che Draghi in questi sette anni sarebbe contemporaneamente la figura di garanzia dell’Italia in Europa e dell’Europa in Italia e come presidente anche il garante della Costituzione. Troppo per una persona sola e soprattutto troppo per la carta costituzionale di quella che formalmente è ancora una repubblica parlamentare. È chiaro che ciò che resta della nostra democrazia sarebbe stravolto da sette anni di presidenza Draghi. Che quando era presidente della Banca Centrale Europea dichiarò che le scelte di politica economica dei singoli paesi erano tutte soggette al “pilota automatico”. Ora in Italia il pilota automatico sarebbe lui.

I processi autoritari si affermano e consolidano sempre in un vuoto di democrazia e partecipazione. È ovvio che la forza di Draghi è anche determinata dallo squallore di un sistema di partiti dove trent’anni di alternanze in nome del meno peggio, hanno selezionato a rovescio la peggiore delle classi politiche. Che si scontra duramente su questioni d’immagine, ma poi condivide tutte le scelte di fondo di cui Draghi è interprete. Cosa che fa sì che la metà dell’elettorato abbia rinunciato a partecipare ad un voto che ritiene inutile.

La nostra democrazia da tempo e in misura crescente è stata sottomessa, sul terreno pratico come su quello ideologico, al mercato, al profitto, alla competizione individualistica. L’articolo uno della Costituzione non è stato modificato, ma la realtà è che l’Italia è oggi una Repubblica fondata sull’impresa e non sul lavoro.

La presidenza con ampi poteri affidata a un banchiere può sembrare a tanti la stabilizzazione di un sistema percorso da crisi sociali e rotture destinate ad amplificarsi. Le idiozie dei novax, consapevolmente amplificate dai mass media, sono il miglior sostegno alla spinta verso un regime fondato sulla tecnocrazia e le cosiddette competenze. Un regime dove la patina liberale coprirebbe un autoritarismo di fondo, basato sulla massima di Margaret Thatcher: non ci sono alternative.

La società italiana sta regredendo da decenni verso una forma sempre più ingiusta e selvaggia di capitalismo. La pandemia invece che creare le basi per il cambiamento ha accentuato tale regressione. Ora con Draghi presidente il liberismo economico, sociale e culturale si consoliderebbe al massimo livello istituzionale. Impedire questo consolidamento sarebbe un primo passo per riaffermare quei principi della Costituzione, da tempo negati nel nome del profitto e dell’austerità.

No a Draghi Presidente della Repubblica.

 

(credit foto ANSA/ANGELO CARCONI)



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