Non basta essere eletti per essere democratici

L’esito del voto non garantisce la democraticità dei vincitori, soprattutto in un paese nel quale il fascismo si è affermato (anche) per via elettorale.

Fabio Armao

Il torto maggiore che i duellanti della campagna elettorale hanno fatto ai cittadini italiani è stato quello di offrire ai propri potenziali/effettivi elettori un’ennesima rappresentazione parodistica di un rito di passaggio – le elezioni, appunto – che in democrazia meriterebbe un rispetto ben maggiore. Non è un problema di toni, sempre esacerbati in prossimità del voto, quanto di contenuti. Com’era purtroppo prevedibile, abbiamo assistito per lo più a un tripudio di deliri narcisistici di leader dediti a cantare le proprie lodi (e le infamie dei propri avversari), ignorando spesso le leggi della logica argomentativa, talvolta persino della grammatica istituzionale, pur di non rischiare di ridurre la propria audience scontentando qualcuno.

Nella campagna appena conclusa non ci si è fatto alcuno scrupolo di piegare a un uso “commerciale”, di cinico marketing politico interno, una vicenda drammatica come la guerra in Ucraina, di cui sono state rimosse le immagini quotidiane di distruzione e morte per poterne paventare soltanto i rischi energetici, più spendibili sul mercato italiano. Come se non bastasse, c’è pure chi ha perso una splendida occasione per fare almeno parziale ammenda delle proprie cattive frequentazioni. Mi riferisco a quell’autentica (e quanto mai rara) rivendicazione della superiorità dei princìpi della cittadinanza democratica sugli opportunismi politici rappresentata dal rapporto del Parlamento europeo sulle derive autocratiche dell’Ungheria. La scelta di votare contro quel rapporto è stata rivendicata con orgoglio, soprattutto con due argomenti correlati tra loro: la violazione della sovranità ungherese da parte dell’Ue, aggravata dal fatto che Viktor Orban è stato eletto democraticamente. Tanto è già stato detto nel dibattito e nelle polemiche che ne sono seguite, ma vorrei aggiungere due osservazioni.

La prima è che l’appartenenza all’Unione europea non è un obbligo, bensì una libera scelta: nessuno ha mai voluto imporre agli stati membri di entrare a farne parte; al contrario, ciascuno di essi ha fatto domanda per essere ammesso, accettando tra l’altro di sottoporsi a una lunga trafila diretta a verificarne proprio i requisiti di ammissibilità (economici e valoriali). La membership, quindi, implica anche l’accettazione di una serie di vincoli e di standard, oltretutto ampiamente remunerati (al punto che lo stesso Orban, pur di non perdere i cospicui finanziamenti europei, si è dichiarato disponibile a qualche misura di “utile ravvedimento”, se non sui diritti umani e civili almeno sulle norme anticorruzione).

Ciò che troppo spesso sfugge ai sovranisti, anche di casa nostra, è che l’appartenenza a una comunità europea, al di là di qualunque afflato ideale, ha un solido fondamento di razionalità politica ed economica, che si può misurare nei termini della scomparsa della violenza interstatale e della sostanziale crescita del benessere economico tra chi ne fa parte. In entrambi questi campi, sarebbe davvero arduo dimostrare che qualcuno degli stati membri ha registrato in questi ultimi decenni un saldo negativo. Ne abbiamo una conferma ex adverso nella Gran Bretagna, alla quale la strategia di Brexit non pare abbia portato poi così lauti guadagni.

La seconda osservazione è che l’esito del voto non garantisce la democraticità dei vincitori. Dovrebbe trattarsi di un’ovvietà, soprattutto in un paese nel quale il fascismo si è affermato (anche) per via elettorale. Eppure, pare non sia così scontato e questo sì è un indicatore significativo della propensione autoritaria di una forza politica, perché non guarda al passato, ma si proietta nel futuro: prefigura, infatti, la rivendicazione di un diritto a emanare leggi liberticide per il solo fatto di essere stati eletti dal popolo.

Un simile atteggiamento denota una sostanziale ignoranza (qualora non ci sia del dolo, ovviamente) della natura della rappresentanza in democrazia, che non costituisce del resto una grossa novità. Basti ricordare che, in anni recenti, diversi parlamentari hanno perorato la causa dell’introduzione in Costituzione di un vincolo di mandato, nel tentativo di limitare il fenomeno del “nomadismo parlamentare”. Mentre adesso, all’estremo opposto, si arriva appunto a presupporre di fatto l’esistenza di una sorta di mandato in bianco, da riempire a proprio piacimento, che legittimerebbe addirittura la pretesa di alterare la natura stessa del regime democratico.

La via della rappresentanza politica, storicamente, si è rivelata alquanto stretta e difficile da percorrere. Sono occorsi secoli perché si passasse dal voto per censo al suffragio prima maschile e poi, infine, universale; e, ancora oggi, il diritto di partecipare alle elezioni viene di fatto messo in serio pericolo persino in paesi come gli Stati Uniti d’America (rendendo difficoltosa alle minoranze l’iscrizione alle liste elettorali) – o ridicolizzato, come nel caso della Russia di Putin. Il voto democratico, inoltre, si deve confrontare con il fatto che il risultato determinerà un vincitore a maggioranza e non all’unanimità (nel qual caso ci troveremmo di fronte a un plebiscito), quando non a minoranza (in presenza di un forte astensionismo).

Affinché, se non altro in via ipotetica, l’alternanza dei risultati e dei governi che ne derivano possa garantire nel tempo e a rotazione la possibilità a tutti di vedere rappresentati i propri interessi (fatti salvi, sempre e comunque, i diritti inalienabili anche delle più sparute minoranze) è fondamentale che la maggioranza in carica non alteri le regole essenziali del gioco democratico. Il rischio che ciò possa accadere oggi in Italia, tuttavia, è reso più concreto dalla patologica personalizzazione della competizione politica, che produce conseguenze sia dal punto di vista della relazione con gli elettori, sia da quello della stabilità di governo.

La democrazia ridotta a un’arena in cui si confrontano leader carismatici – al netto della qualità e quantità di “grazia” che ciascuno di essi rivendica con maggiore o minore successo – induce gli elettori a scegliere sulla base di criteri emotivi più che razionali. Al punto da far loro ritenere che misure che in effetti li danneggiano (si pensi alla flat tax per i ceti a medio e basso reddito), vadano comunque sostenute se a proporle è colui o colei cui destinano la propria devozione.

D’altra parte, un esecutivo in cui si trovino costretti a convivere più leader carismatici può finire con il generare terrificanti effetti di “rifrazione luminosa” destinati, inevitabilmente, a produrre ingovernabilità. In Italia è già successo, più volte, costringendo le istituzioni ad appellarsi al deus ex machina rappresentato dai cosiddetti tecnici: idolatrati finché ritenuti utili a fare il lavoro sporco di approvare misure non remunerative politicamente, per poi essere cacciati in malo modo con l’accusa di aver voluto sottrarre spazio ai partiti. C’è chi auspica una soluzione “tecnocratica” anche alla crisi di governo in corso. Ma non si può purtroppo neppure escludere una via d’uscita alternativa: l’autocrazia elettiva di stampo ungherese.

(immagine di Edoardo Baraldi)



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