Contro la Costituzione: il neoliberismo di Sabino Cassese

Per il giurista il “potere di interdizione” di sindacati, magistratura, Corte dei conti e Autorità anticorruzione sarebbe alla base dell’“inerzia che blocca il Paese”. Una tesi antidemocratica.

Alessandro Somma

Nei primi decenni del secolo scorso la retorica antidemocratica si è impadronita del discorso pubblico, anticipando e accelerando l’avvento dei fascismi.

In Italia ci si è scagliati contro la “dominazione delle masse disgregate e amorfe” alla base del “potere politico oppressivo e demagogico” del parlamento[1]. In Francia quest’ultimo è stato equiparato a una onnipotente “macchina per fabbricare le leggi”, che impedisce all’esecutivo di far prevalere principi superiori[2]. In Germania si è sostenuta l’incompatibilità tra democrazia ed economia di mercato: “tutta l’attività parlamentare è necessariamente votata alla ricerca di bilanciamenti di interessi e di compromessi”[3]. E questo aveva reso lo Stato una “preda” di partiti, e il capo dell’esecutivo il “vertice di un comitato dedito al commercio delle vacche”[4], condannato a subire l’azione delle “forze caotiche della massa”[5].

Questo clima ha ispirato anche uno scritto di Carl Schmitt, confezionato al principio degli anni Trenta e ripreso in un recente intervento di Sabino Cassese[6].

Lo scritto è sintonizzato con gli umori del suo tempo perché si interroga sulla “situazione politica tedesca” e in particolare sulla debolezza dello Stato. Si esclude che essa debba attribuirsi alla struttura federale, come molti pensavano: la responsabilità è dei “partiti” e delle “organizzazioni che danno vita a un pluralismo di entità pronte al compromesso”. Di qui la necessità di edificare uno Stato forte facendo leva su quanto previsto dalla Costituzione di Weimar al fine di evitare “la dipendenza dell’esecutivo dal parlamento”[7]: ricorrendo alla disposizione per cui “il Presidente può prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica quando essi siano turbati o minacciati in modo rilevante” (art. 48).

È noto che proprio invocando questa disposizione la Repubblica di Weimar è scivolata verso il nazismo. Nonostante ciò, Cassese ricorre alla polemica schmittiana contro il pluralismo democratico per articolare la critica a quanto reputa essere alla base della “inerzia che blocca il Paese”: l’azione dei molti titolari di un “potere di interdizione” per cui “questo non si può modificare, quell’altro non si può fare”. Tanto da legittimare la domanda: “come è possibile governare”?

I titolari dei poteri di interdizione cui si riferisce Cassese, vere e proprie “forze della conservazione”, sono quelli delle categorie che fin dalla Seconda Repubblica si sono messe nel mirino. In prima posizione troviamo i sindacati e dunque i lavoratori, accusati di avere un non meglio definito “atteggiamento esclusivamente rivendicazionistico”, e il potere giudiziario, “che confonde indipendenza con immunità, tutela della legittimità con cura della moralità”. Ma ce n’è anche per la Corte dei conti, che “scambia il ruolo di guardiano della legalità con quello delle proprie prerogative”, con ciò “scimmiottando le Procure della Repubblica”, e persino per l’Autorità anticorruzione, che “ingigantisce il pericolo della corruzione per allargare ambito e intensità della propria azione”.

Carl Schmitt è anche colui il quale ritiene che lo Stato forte di cui auspica l’edificazione debba innanzi tutto promuovere una “economia sana”: come ha precisato in un altro scritto del medesimo periodo[8]. Proprio da questo assunto trae fondamento il neoliberalismo, dottrina che affida allo Stato il compito di costituire la mano visibile chiamata a consentire il funzionamento del mercato: a imporre la concorrenza come strumento di direzione politica dei comportamenti individuali. Il che significa innanzi tutto polverizzare il potere economico in quanto ostacolo al libero incontro i domanda e offerta: se gli individui sono soli di fronte al mercato, sono condannati a tenere i soli comportamenti che costituiscono reazioni automatiche agli stimoli del mercato[9].

Polverizzare il potere economico significa combattere i cartelli tra imprese, o comunque le pratiche limitative della concorrenza tra operatori del mercato, ma non solo. Le concentrazioni avversate dai neoliberali sono anche e soprattutto quelle rappresentate dai sindacati: se i lavoratori si presentano soli di fronte ai loro datori di lavoro, il loro salario non può che rispecchiare l’esito dell’incontro di domanda e offerta di occupazione. Se invece si coalizzano, la relazione di lavoro non viene degradata a relazione di mercato qualsiasi, il livello salariale sarà l’esito del conflitto redistributivo e potrà dunque avere come punto di riferimento, più che il funzionamento della concorrenza, l’aspirazione a condurre una vita dignitosa[10].

A ben vedere, quanto Cassese chiama il potere di interdizione dei sindacati attiene alle modalità con cui la Costituzione promuove attivamente l’uguaglianza. Per farlo lo Stato deve “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (art. 3). E questo significa che i pubblici poteri devono bilanciare la debolezza sociale riconoscendo diritti ai suoi portatori, e specularmente negando diritti a chi si trova invece nella situazione opposta. Come avviene in modo esemplare nella relazione di lavoro, nella quale al lavoratore si riconoscono prerogative non riconosciute invece al datore di lavoro, ad esempio nel caso di interruzione del rapporto, consentendo così al primo di confrontarsi con il secondo su un piano di tendenziale parità.

Insomma, lo Stato che mira ad attuare l’uguaglianza redistribuisce le armi del conflitto sociale, o in altre parole consente la formazione di contropoteri capaci di confrontarsi con i poteri prodotti dal funzionamento del principio di concorrenza: anche e soprattutto per promuovere “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3). Tutto il contrario di quanto perseguito dal neoliberalismo, che polverizzando il potere economico mira invece a impedire il conflitto sociale in quanto ostacolo al funzionamento del principio di concorrenza: a spoliticizzare il mercato.

Non solo. Lo Stato che combatte le forze della conservazione, come dice Cassese, non si limita a ripristinare le condizioni di un naturale sviluppo delle relazioni economiche. Il mercato è un artefatto, il prodotto di scelte politiche necessariamente di parte, e quelle auspicate da Cassese sono pensate per promuovere le libertà economiche a scapito dell’uguaglianza. E attribuiscono un potere di interdizione alla controparte del lavoro, come si ricava in modo esemplare considerando la libera circolazione dei capitali. Se infatti gli Stati non possono controllarla, le imprese avranno libero gioco a pretendere una bassa pressione fiscale e la precarizzazione e svalutazione del lavoro: in caso contrario trasferiranno la produzione nei Paesi disposti a ingaggiare una rovinosa corsa al ribasso per mostrarsi attrattivi nei confronti dei mitici investitori internazionali.

Insomma, il contrasto delle concentrazioni di potere economico non costituisce un’azione neutrale dal punto di vista dei soggetti coinvolti. Tutte le scelte politiche producono vincitori e vinti e non si può ritenerle frutto di lobbismo se favoriscono i lavoratori, e di libera determinazione se invece beneficiano il mercato. Come se il mercato non avesse lobbisti, e come se questi non siano stati i principali ispiratori delle politiche economiche prevalenti da diversi anni a questa parte: anni di scelte sulla pelle dei lavoratori e dei loro sindacati, a cui davvero appare difficile riconoscere ora un potere di interdizione da limitare.

NOTE

[1] A. Rocco, Il programma politico dell’Associazione nazionalista (1919), in Scritti e discorsi politici, vol. 2, Milano, 1938, p. 477.

[2] G. Ripert, Le regime démocratique et le droit civil moderne, Paris, 1936, p. 25 s.

[3] A. Müller-Armack, Entwicklungsgesetze des Kapitalismus, Berlin, 1932, pp. 110, 120 ss. e 215 ss.

[4] A. Rüstow, Diktatur innerhalb der Grenzen der Demokratie (1929), in Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte, 1959, p. 98 s. e Interessenpolitik oder Staatspolitik, in Der deutsche Volkswirt, 1932, p. 171.

[5] W. Eucken, Staatliche Strukturwandlungen und die Krisis des Kapitalismus, in Weltwirtschaftliches Archiv, 1932, p. 312.

[6] S. Cassese, L’inerzia che blocca il Paese, in Corriere della sera del 1. aprile 2021, pp. 1 e 28.

[7] C. Schmitt, Zur politischen Situation in Deutschland, in Der Kunstwart, 1931, p. 253ss.

[8] C. Schmitt, Starker Staat und gesunde Wirtschaft, in Volk und Reich, 1933, p. 81 ss.

[9] F. Böhm, Wettbewerbsfreiheit und Kartellfreiheit, in Ordo, 1958, p. 169.

[10] Come richiesto dall’art. 36 della Costituzione italiana: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.



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