Noi artigiani del metaverso

Mediante lo sviluppo delle nuove realtà virtuali, la tecnologia dei Non-fungible token (Nft) sarà in grado di rivoluzionare non soltanto il mercato dell'arte ma l'interezza della manifattura digitale.

Francisco Scalese

Se c’è un aspetto che emerge con particolare chiarezza dal marasma dell’infodemia è che siamo destinati a vivere in una dimensione parallela governata dal virtuale. Ancora deve arrivare il tempo in cui i visori VR protenderanno fuori di noi come protesi insostituibili del quotidiano, ma di certo esistono già oggi tecnologie di amplificazione sensoriale che hanno saputo far parlare di sé con forza sempre crescente; in alcuni casi, addirittura fino a indurre grandi aziende dell’IT a estese riconversioni in favore di un eventuale cambio dei paradigmi mediatici.

La letteratura in questi casi possiede un’innata indole premonitrice. Negli anni di ascesa del nazismo, forse per scappare da una società sempre più opprimente, Hermann Hesse si immaginava un mondo leibniziano governato dall’astrattezza del calcolo matematico nel Gioco delle perle di vetro; mentre negli anni Ottanta il cyberspazio abitato da Case, hacker cowboy del Neuromante di William Gibson, accennava per la prima volta al concetto fantascientifico di una realtà alternativa rappresentata numericamente. E così, insieme a loro, molti altri a seguire.

Appurato ciò, sorge una questione fondamentale: che ruolo dovrà avere o, ancora meglio, potrà avere l’homo faber all’interno di questo metaverso? Il Novecento è stato il secolo del lavoro; il XXI sembra apprestarsi a divenire – grazie allo sviluppo delle intelligenze artificiali e della robotica – quello dell’automazione. Tuttavia il filosofo Vilém Flusser lo descrive invece, facendo leva su un apparente paradosso, come un’epoca orientata alla manifattura pre-industriale: «L’essere umano è un funzionario di robot che operano in sua funzione», dove la mano modellatrice e la natura ritornano a congiungersi poiché «qualsiasi cosa fa può essere interpretata come una funzione del robot»[1], sostituto delle precedenti macchine. Non esisterebbero più inservienti specializzati e apparecchiature “eterodirette”, ma una unione dei due in un’unica soluzione transumana; e, a pensarci bene, questa interessante prospettiva trova cittadinanza anche all’interno dell’universo della virtualità – ultimo ritrovato protesico della svolta digitale.

Tutti siamo transumani digitali e quindi tutti siamo artigiani digitali; creatori di contenuti in bilico su un compromesso dal sapore ossimorico. Generalmente si definisce artigianale un prodotto pregno della soggettività di chi lo crea, reso unico dal tempo impiegato nella creazione, dalla storia e dall’esperienza del creatore, dagli errori commessi e dalle migliorie introdotte. Ma la replicazione digitale – l’atto del far copiare al calcolatore certi segmenti di bit da una memoria rom all’altra senza consumo di risorse fisiche – esaspera a un livello estremo il concetto di produzione in serie tipico dell’industria classica, andando a erodere definitivamente quell’hic et nunc tanto caro a Walter Benjamin nel quale l’opera trova il suo originale valore d’uso[2]. È per questa ragione che la maggior parte delle creazioni digitali diventano meme virali – immagini, video o scritte fruiti online da milioni di utenti – così condivisi e replicati da far perdere, nel tempo, le tracce degli autori.

La possibilità per un ridimensionamento delle suddette contraddizioni è nata da pochi anni e porta il nome di Nft: acronimo che sta per Non-fungible token. Ed ecco spuntare fuori personaggi come Beeple, autore di Everydays – un immenso collage di immagini jpeg collezionate nell’arco di anni –, Chris Torres – padre del famoso Nyan Cat, il gatto che ha sconfitto la gravità perché incollato a una fetta di pane imburrata – e Matt Furie con il suo Pepe the Frog; giusto per citare i casi più chiacchierati.

Nft? Sì; e il loro funzionamento non è così semplice come potrebbe far pensare. Iniziamo dicendo che questi token (dispositivi di sicurezza una volta fisici ma oggi interamente software) permettono di contrassegnare univocamente certi file all’interno di un ambiente digitale mediante un sofisticato sistema crittografico. Generare un Nft a partire da un’immagine, un brano musicale o un testo, significa produrre una chiave crittografica, cioè un codice alfanumerico unico, associabile in maniera esclusiva a tale file poiché dedotto dal suo stesso codice; e questa è la prima parte della storia, essendo la chiave da considerare metaforicamente come spezzata in due. La seconda parte vede coinvolgere il meccanismo di blockchain, per la prima volta introdotto da Bitcoin ed Ethereum: al fine di informare il consorzio degli utenti sulle transazioni dei prodotti digitali, e di conseguenza sulla generazione degli Nft, la chiave privata dell’acquirente deve collegarsi a una seconda chiave – cioè il secondo “pezzo” –, questa volta pubblica e visibile a tutti nel registro di uno dei blocchi della catena che, se (e solo se) unita a quella privata, permette di identificare il proprietario (l’autore stesso o un nuovo acquirente). L’Nft, in ultima istanza, sarebbe quindi una sorta di tecnica di digitalizzazione di un contratto di compravendita, accessibile a chiunque, sicuro e distribuito.

Naturalmente, l’espediente tecnico non conferisce unicità all’oggetto virtuale prodotto ma soltanto «scarsità digitale». Così come l’operazione di traslazione spaziale di una Brillo Box – simbolo della svolta pop nell’arte – da un centro commerciale a un museo non aveva vestito di nuova ontologia la famosa scatola di Andy Warhol. L’Nft del modello 3D di un letto, ad esempio, non è in grado di distinguere l’insieme dei suoi bit da quelli di una copia, la quale può sempre essere replicata all’infinito a prescindere dalla generazione del token – rappresentando in ogni caso il medesimo letto. Ciò che esso è in grado di identificare è il contesto delle relazioni – che senso ha x riguardo a y, z, Ω? – in cui l’oggetto digitale è immerso; quell’aboutness (concernenza) che Arthur Danto ritiene essenziale per l’affrancarsi di un’opera “d’arte” dal mondo degli oggetti comuni dal momento che ne evidenzia il dispositivo semiotico[3]. Nel caso specifico del metaverso è la blockchain a fare le veci del «mondo dell’arte» e a conferire valore ai file generati dagli utenti, indicando chi sono i creatori, chi sono i beneficiari e quale significato abbiano nel loro ambiente operativo.

Immaginiamoci di passeggiare in una città virtuale, di visitare prima un supermercato per fare scorta di scatolette di tonno virtuali per la nostra dispensa virtuale. Di visitare in seguito, per pura curiosità, una mostra d’arte vicino al nostro quartiere e vedere, appena entrati, dello scatolame ittico su un piedistallo. A uno sguardo più attento ci accorgiamo che sono le stesse scatolette da noi appena acquistate e apprendiamo che si tratta di un’opera d’arte realizzata da un tizio x: modellatore della prima scatoletta. Ora, se una guardia virtuale ci fermasse e ci perquisisse non sarebbe mai indotta ad accusarci di furto, poiché l’oggetto digitale messo in mostra non verrebbe minato nella sua autenticità crittografica – anche qualora si trattasse effettivamente di un furto. Fintanto che l’infrastruttura della blockchain rimane intatta, l’Nft di tale prodotto è sufficiente a identificare il vero proprietario; a prescindere dalle copie generate e “possedute” dagli utenti.

In un contesto digitale infinitamente replicabile l’Nft è l’opera d’arte; è il frutto della mano artigiana, essendo legato strettamente al suo stesso codice. Altrimenti non avrebbe alcuna garanzia di esclusione dall’anonimato. Fino a ora sono soprattutto le immagini e i brani musicali a essere trasfigurati in opere digitali univoche, ma non è detto che la stessa sorte non possa toccare anche agli oggetti digitali più banali. A pensarci bene l’idea di un ready-made virtuale deve ancora svilupparsi, ma si ritiene che esso possa nascondere dentro di sé un grande potenziale inespresso.

La sfida futura dovrà giocarsi intorno alla concezione che si vuole avere di questi oggetti digitali pronti all’uso. Se considerarli arte in una prospettiva greca nel seno di una ποιητιχή τέχνη (poietiché techne) sensibile a come «giunga all’esistenza una delle cose che possono essere o non essere» (Arist. EN VI 4, 1140a10-15)[4]; perciò sensibile ai fini utilitaristici della produzione del prodotto, come già avviene in alcuni videogiochi e in alcune piattaforme di streaming. O se sacrificare il lato meramente produttivo in favore di una sua – si scusi il goffo anglicismo – memeabilità. In entrambi i casi, comunque, l’abilità nel ricercare il giusto stile, declinabile come ornamento virtuale o come viralità culturale, dovrà rappresentare l’obiettivo primario per la diffusione del cosiddetto made-in all’interno dei gangli digitali di questa neo-manifattura.

[1] Vilém Flusser, The shape of things, Reaktion Books, 1999, p. 48 (traduzione mia).
[2] Cfr. Walter Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, in Opere complete: VII. Scritti 1938-1940, Einaudi, 2008, pp. 303-307.
[3] Cfr. Arthur Danto, La trasfigurazione del banale, Laterza, 2008.
[4] Aristotele, Etiche: Etica Eudemea, Etica Nicomachea, Grande etica, a cura di Lucia Caiani, UTET, 1996.



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