Non sparate sul reddito di cittadinanza

Si accusano indiscriminatamente le fasce deboli di essere formate da fannulloni, felici di ricevere il sussidio dello Stato, ignorando le condizioni di sfruttamento in cui versano troppi lavoratori.

Teresa Simeone

Imperversa sui media, in questi giorni, e vivacemente, la polemica intorno alle difficoltà di reperire lavoratori stagionali da impiegare nei ristoranti, nei pub, negli stabilimenti balneari e, in genere, nel settore del turismo. La colpa, si grida da molte parti, è del reddito di cittadinanza che scoraggerebbe dal cercare un’occupazione.

Ora, a prescindere dall’assunto imprescindibile che la dignità venga dal lavoro e che la misura introdotta dal governo Conte non serva solo ad assistere ma dovrebbe consentire di sopravvivere in attesa di ottenerne uno, è veramente stupefacente che l’unica motivazione della carenza di personale disponibile sia addebitata a tale sussidio con un coro pressoché unanime di accuse. Unanime, ovviamente, dal punto di vista dei gestori e degli imprenditori, che hanno facile gioco nell’aizzare, populisticamente, la folla di consumatori contro gli sfaccendati che rifiuterebbero un lavoro sicuro, ancorché stagionale, a fronte del divano di casa propria. Sarebbe più opportuno, forse, e meno demagogico sostituire all’indignazione la riflessione su cosa sia diventato o stia diventando il lavoro, con i diritti acquisiti in decenni di battaglie e oggi riportati al livello di due secoli fa. E non soltanto per quei lavoratori temporanei che sono ingaggiati per due-tre euro all’ora, ma anche per chi è regolarmente contrattualizzato.

Prima di inveire contro i giovani bamboccioni, secondo la tristemente famosa espressione, correttezza metodologica vorrebbe che si conoscessero di più le condizioni in cui versano molti dei lavoratori del settore Beni, Servizi e Turismo: sottopagati, convinti che a loro spetti un solo giorno di riposo, quindi 48 ore quando, invece, nessuno può lavorare più di 40 ore a settimana, a meno che non accetti lavoro straordinario regolarmente retribuito; convinti che i giorni in rosso per loro non abbiano validità, considerata la tipologia di eventi che cadono spesso in giorni festivi e che invece sono anch’essi normati giuridicamente; convinti che i giorni di ferie siano una settimana, al massimo due settimane all’anno, quando invece sono quattro quelle obbligatorie per tutti e che, necessarie per consentire al lavoratore la reintegrazione delle energie psicofisiche, in nessun caso possano essere ridotte; convinti di non avere diritto alla tredicesima e quattordicesima che molti imprenditori, con abili giochi attivati dai propri commercialisti, spalmano sugli stipendi mensili, i quali, aumentati in virtù di tale operazione, danno l’illusione di essere più alti di quelli che invece si percepiscono (l’altro giorno un giovane che conosco mi ha detto di avere una retribuzione di 1100 euro, mentre, in effetti, riceve 950 euro che arrivano a quella somma perché comprensivi della tredicesima e quattordicesima distribuite su dodici mensilità); convinti che gli straordinari rientrino nel normale orario di servizio e non siano un lavoro aggiuntivo che come tale deve essere retribuito. Convinti, ma da chi? Da quei datori di lavoro che, approfittando della condizione di bisogno e dell’ignoranza dei propri diritti di molte fasce, ricattano i dipendenti e li convincono pure che stanno facendo loro un favore. È solo il caso di ricordare che ogni ora di lavoro in più svolto e non pagato è un’appropriazione indebita, un vero furto perpetrato ai danni del lavoratore che, ignaro di ciò che deve e di ciò che non deve, accetta di essere sfruttato: quante ore “regalano” tali lavoratori a quei capitalisti in un mese se, invece, di 40 ore ne lavorano 48 e in un anno se, delle quattro settimane di ferie, ne godono solo per una o al massimo due? Una situazione risalente all’Ottocento, quando esplose la questione sociale dovuta non all’esagerazione o alle pretese della massa enorme di sfruttati ma alla mancanza di tutela che c’era nelle fabbriche.

Molto si è fatto per arrivare finalmente allo Statuto dei lavoratori. Molto si sta facendo per eluderlo.

L’emergenza pandemica ha slatentizzato una condizione di debolezza sociale, facendo emergere la possibilità di aggirare il sistema di tutele e in qualche modo offrendo giustificazioni a quegli imprenditori che non rispettano nella sostanza, oltre che nella forma, i diritti dei dipendenti. Chi di noi non conosce lavoratori in cassa integrazione che continuano o hanno continuato a lavorare, nonostante l’illegalità di tale prestazione? Nessuno lo ammetterà mai pubblicamente, dal momento che alla conoscenza di un illecito deve seguire la denuncia. E questo basta perché una coltre di silenzio cali sulle vite di chi è in situazione di subalternità e perché lo status quo si perpetui a danno di chi subisce e che, data la condizione di bisogno in cui versa, accetta e accetterebbe qualsiasi imposizione senza reagire: la protesta o la rivendicazione dei propri diritti, infatti, implica come passo successivo le dimissioni o il licenziamento. Non si tratta, spesso, di piccole imprese ma di realtà la cui capacità di fare pressioni su chi dovrebbe e potrebbe fare controlli è pari alla forza economica di cui dispongono. E meno male che l’uso vergognoso delle dimissioni in bianco sia stato neutralizzato! Grazie ai diversi interventi legislativi almeno tale iniquità è stata superata e dal marzo 2016, com’è noto, è divenuta operativa la procedura telematica tramite il sito del Ministero del Lavoro e dunque cogente l’obbligo di dare le dimissioni volontarie compilando un modulo con numerazione progressiva e perciò non retrodatabile. Un ricatto in meno, un diritto in più. Anche allora si diceva: ma perché questa norma? Come si permettono i legislatori di sospettare che qualche datore di lavoro ricorra a un simile comportamento? È prevedibile, perciò, il coro di voci che si alza e gli scudi levati a difesa degli imprenditori che si sentono offesi ogni volta che si denuncia una situazione d’ingiustizia. Tranquilli! Quelli che rispettano i diritti dei propri dipendenti non devono sentirsi minimamente sfiorati da tali sospetti. Che dovrebbero essere sollevati, soprattutto, per i lavoratori che non conoscono il contratto che firmano né a volte lo chiedono nemmeno o, se lo chiedono, non lo leggono con la necessaria attenzione, desiderosi, come sono, di non trovare ostacoli con se stessi di fronte all’opportunità finalmente di poter guadagnare. E che, quando se ne rendono conto, vi si trovano imbrigliati.

Quanti di loro, infatti, hanno reale coscienza delle battaglie che sono state affrontate per arrivare a definire i termini di un rapporto contrattuale che prevede non solo doveri verso i datori ma anche tutele? Quanti sono in grado di decodificare veramente quelle condizioni, spesso scritte cripticamente da parte di coloro che lo stendono e che ricorrono a ogni escamotage per aggirare le norme, come, ad esempio, la confusione tra “qualifica” e “mansione”; la distribuzione della tredicesima e della quattordicesima, che dovrebbero essere date a dicembre e a giugno e che invece, come ricordato, vengono ripartite nell’intero anno? E perché non si interviene? Perché quello che si sta leggendo, ovviamente, è un’illazione. Perché – si sostiene – senza denuncia nessuno può avviare un’inchiesta. Ma, chi denuncia sapendo che poi sarà licenziato? Fa comodo, perciò, far finta di non vedere. Fa comodo, ça va sans dire, ai datori di lavoro; fa comodo ai dipendenti che spesso accettano perché meglio abbassare la testa e lavorare che alzarla e rimanere senza lavoro; fa comodo alle forze di controllo perché richiederebbe troppi sforzi avviare inchieste nelle aziende; fa comodo allo Stato perché, comunque sia, l’economia gira, le imprese producono e il conflitto sociale è tenuto a bada. Fa comodo a tutti.

Quest’anno passato si sono fatti corsi, webinar, dirette di ogni tipo, insieme a dichiarazioni nobili di principi, affermazioni di alto senso civico: pochi, però, volti a promuovere la conoscenza da parte dei lavoratori dei propri diritti e la capacità di leggere un contratto e di contestarne l’opacità. Eppure è da qui che si dovrebbe iniziare per un’alfabetizzazione civica della società. Farebbe bene, in proiezione futura, a tutti gli attori coinvolti.

Così continuando, invece, si legittima lo sfruttamento e si perpetua uno status quo schiacciato sul passato, riportando indietro di secoli la società e mettendo una pietra tombale sul cammino di rivendicazioni faticosamente percorso. E s’inducono molti giovani, quelli che ne sono perfettamente consapevoli, a scegliere di andare all’estero, risultando loro intollerabile vivere in una società in cui siano sistematicamente violati i propri diritti. E si ritorna al primum da cui siamo partiti, scaricando ancora una volta una situazione di reperimento di personale sulle fasce deboli, accusate indiscriminatamente di essere formate da fannulloni, felici di ricevere l’assistenza dello Stato.

 

(foto ANSA/MASSIMO PERCOSSI)

 

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Il reddito di base nel mondo. Prima parte: Stati Uniti



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