“Nope”, lo spettacolo è un mostro

Horror politico sull’immagine che più viene divorata e più divora, l’opera terza del regista afroamericano Jordan Peele è la sua più ricca e ambiziosa.

Flavio De Bernardinis

Terzo film per il regista Jordan Peele, dopo Scappa – Get Out e Us – Noi, il primo appassionante e lugubre storia di manipolazione chirurgica e psicologica, dai risvolti ed esiti tutto sommato prevedibili, e il secondo tagliente e riuscita variazione sul tema del doppio, in chiave di identità razziale e sociale.

In entrambi i casi, i protagonisti sono attori di colore (espressione dello stesso Peele), tema, questo del black feeling, che si fa ancora più importante e centrale nell’ultimo lavoro, intitolato Nope, incredibile horror spettacolare e genuinamente d’autore, incentrato sulla tematica pur logora e desueta dell’UFO movie.

I protagonisti, Oj e Em, fratello e sorella neri, ereditano dal padre il ranch con incluso allevamento di cavalli, ditta specializzata nella fornitura di purosangue alle troupe di Hollywood, cinema o pubblicità non fa differenza. Il problema è che nel cielo sopra il ranch, immerso in una valle solitaria della California, non lontano da un parco a tema western gestito da un orientale immigrato, ci sta una nuvola che non si muove mai. E quando si sposta, risucchia e inghiotte chi la guarda.

Il film è la storia della lotta tra Oj, Em e un paio di altri personaggi accorsi in aiuto contro la nuvola assassina, che ha il profilo classico degli UFO nei film anni ‘50, una sorta di piatto scodella volante. Ma non solo.

Come è noto, è bene non indulgere in ulteriori dettagli sulla trama di un film, pena la perdita del gusto di vivere le emozioni dell’intreccio e del racconto. Altro quindi non diremo. Perché di molto altro il film è tessuto, al di là della classica trama sci-fi.

Jordan Peele fa il suo esordio come attore comico televisivo, prima di passare dietro la macchina da presa e specializzarsi nell’horror e nel thriller. Nope è infatti un mix di horror e commedia, in salsa di fantascienza e con un pizzico di melodramma soggiacente. Il tutto assorbito in una cornice di atmosfere decisamente western.

Il difetto del film (o la virtù, forse) è quello di cercare di accontentare tutti i generi cinematografici presenti, saltando a volte dall’uno all’altro, o iniziando la scena con uno per concluderla con l’altro, o caratterizzando i personaggi attraverso un genere specifico per poi precipitarli improvvisamente negli eventi di un altro.

Il gioco, pur affascinante, talvolta disorienta e respinge. Ma Jordan Peele sa il fatto suo: perché mai come in questo caso, la forma è un contenuto precipitato (Peter Szondi, Teoria del dramma moderno).

Nope parla proprio di questo: dell’eccesso di spettacolo che ci è precipitato addosso, e ha infettato tutte le nostre forme di convivenza sociale. In una intervista, lo stesso Peele cita il classico esempio dell’incidente stradale in autostrada sulla carreggiata di sinistra, con la fila di automobili sulla carreggiata di destra che rallenta per guardare avidamente l’evento catastrofico.

Nope non è così un film sullo spettacolo in sé, così, ma su di noi che non siamo capaci di tirarcene fuori. Il titolo sta per un “NO” continuato (pronunciato dalla protagonista femminile davanti alla ferocia dell’UFO), che nelle intenzioni artistico allegoriche di Peele sta per il NO incontrovertibile alle fauci ingorde e insaziabili dello spettacolo stesso.

Nope, e questo può essere un altro difetto, è un film integralmente artistico allegorico, che chiede allo spettatore il lavoro dell’interpretazione quasi ad ogni sequenza. Il peso ermeneutico è bilanciato però da una ricerca convinta, quasi affannosa, del fascino puramente cinematografico di azioni, colpi di scena, sorprese, catastrofi. Sollecitazioni che andrebbero godute in una sala IMAX, formato in cui il film è originalmente girato, ossia a schermo enorme e incombente, con sistema sonoro ATMOS, ovvero una irradiazione delle fonti sonore che giungono al pubblico giù dal soffitto del cinema stesso. Se dal cielo arriva il pericolo, allora dall’alto, le decine e decine di altoparlanti sul soffitto, deve arrivare la fragorosa minaccia sonora.

Si diceva del black feeling movie. Peele arriva a dichiarare che il NO del titolo è anche il NO che verrebbe da dire, in antifrasi, davanti a un film tipicamente hollywoodiano interpretato però quasi solo da neri.

Il pioniere della fotografia E. Muybridge (1830-1904) è l’autore di una celebre sequenza, entrata a pieno titolo delle storie del cinema delle origini, di un cavallo al galoppo montato da un fantino nero.

Peele inventa che i due protagonisti, Oj e Em, padroni del ranch di cavalli da affittare a Hollywood, siano i discendenti di quel fantino. La sequenza è in realtà una cronofotografia ossia una serie di istantanee “sparate” a raffica che poi producono l’illusione del movimento. Cinema primitivo, quindi.

Questa è la chiave di lettura dominante del film, che possiamo menzionare senza privare il lettore, eventualmente futuro spettatore, di alcun gusto o piacere alla visione. È tutto dichiarato sin dai titoli di testa. La cinepresa adotta subito il punto di vista della “bocca” dell’UFO, ossia una sorta di fascio allungato rettangolare, a mantice, alla fine del quale compare la cronofotografia di Muybridge.

Chiaro. L’UFO, il mostro, è una macchina fotografica o da presa che inquadra e inghiotte qualunque cosa. Attenzione, però: non proprio tutto, solo qualunque cosa che getti uno sguardo su di lei. Ossia su di noi, nella carreggiata di destra dell’autostrada, che rallentiamo per goderci lo spettacolo del sangue e lamiere contorte nella carreggiata opposta. Nel finale del film, in pieno contrappasso che non diciamo, Em renderà pan per focaccia al terribile predatore.

Da tale chiave di lettura dominante derivano poi svariati sotto codici a questa più o meno rigorosamente collegati, che producono la sensazione, più o meno gradita, di una sorta di pan-film, film che include tutte le modalità di visione e delle possibili interpretazioni da queste scaturenti.

Fotografia, televisione, cinema, camere di sorveglianza digitali, vecchie cineprese in pellicola, tutti i supporti dell’immagine, ferma o in movimento, sono convocati in scena, contenuto precipitato della società dello spettacolo in cui siamo immersi. E che divoriamo pervicacemente al riparo dei nostri ibridi dispositivi, come l’UFO immobile dietro la nuvola ferma nel cielo.

Nelle mani dei giusti artisti e/o artigiani del cinema, l’horror si conferma così genere squisitamente politico, capace di affondare nelle contraddizioni o menzogne del Potere, di cui lo Spettacolo, come Guy Debord insegna, è la concentrazione tale e tanta da diventare Immagine. Nope è infine un film sull’Immagine che più viene divorata e più divora, più è inghiottita e meglio inghiotte, più si mostra e meno che mai si dimostra. Attenzione, dice Peele avvalendosi impunemente della fantascienza cinematografica, lo Spettacolo è un UFO, un Alieno, un Mostro venuto dallo spazio, che ha colonizzato l’intero pianeta Terra, come può essere anche la cattiva globalizzazione.

Non si trascuri, in tale direzione, la densità del black movie. La cronofotografia di Muybridge, nella realtà storica, inquadra un fantino nero rimasto anonimo. Peele qui gli assegna provocatoriamente una identità, e conferisce agli eredi di quel fantino, come lui neri, il compito di fare giustizia di una mostruosa macchina crono-fotografica, quasi sempre nelle mani di chi, senza fare sconti, detiene ancora tutto il Potere del mondo.



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