Norberto Bobbio, vent’anni dopo

L’intellettuale dalla duplice identità: studioso rigoroso e “filosofo militante”. Ricordo di Norberto Bobbio a vent’anni dalla scomparsa.

Valentina Pazé

Vent’anni fa ci lasciava Norberto Bobbio. Nel ricordarlo, viene naturale chiedersi che cosa penserebbe del crollo di ogni argine giuridico e morale all’infuriare della guerra, a cui stiamo assistendo in questi mesi, o di un evento fino a poco tempo fa inimmaginabile come l’assalto a Capitol Hill, o – per rimanere alle tristizie di casa nostra – del primo governo guidato da una Presidente del Consiglio proveniente da un partito erede del fascismo. Parlare a nome di chi non c’è più, attribuirgli giudizi e prese di posizione su questioni lontane dal tempo in cui è vissuto è, tuttavia, sempre discutibile, e in fondo scorretto. Quello che si può fare è ripartire dall’opera di Bobbio, e dalla sua figura di studioso e di intellettuale, per chiedersi in che cosa continua a essere viva per noi e quali indicazioni ci offre per orientarci nel nostro tempo.    

Un’identità ibrida   
Intervenendo, qualche giorno fa, sulla Stampa, Michelangelo Bovero ha insistito sulla duplice identità di Bobbio, studioso e intellettuale a un tempo. Da studioso, Bobbio si è posto scopi eminentemente conoscitivi: comprendere e interpretare il mondo, attraverso un’indagine rigorosamente avalutativa. Da intellettuale, è intervenuto criticamente nel dibattito pubblico, nel tentativo di incidere sulle vicende politiche del suo tempo. Nel corpus imponente degli scritti bobbiani è certamente possibile distinguere i testi prettamente scientifici, finalizzati ad approfondire problemi e autori oggetto di discipline accademiche (come la filosofia e la scienza del diritto, la filosofia e la scienza politica, la storia delle idee), dagli interventi destinati a un più ampio pubblico di cittadini, riguardanti temi di interesse generale come la democrazia, i diritti, la pace, l’antifascismo, il socialismo, la dicotomia destra/sinistra. Temi su cui Bobbio ha preso posizione, animato da una forte passione civile, che non gli ha impedito di denunciare “falsificazione di fatti” e “storture di ragionamenti” anche quando a macchiarsene era la parte politica a lui più vicina (secondo il modello dell’intellettuale “mediatore” delineato in Politica e cultura). Ora, ciò che mi sembra davvero caratteristico del Bobbio intellettuale, o “filosofo militante”, come anche è stato chiamato (applicandogli l’appellativo da lui riservato a Carlo Cattaneo) è la forte presenza di contenuti teorici anche nei suoi scritti più “impegnati”. O, se vogliamo, la costante vigilanza dello studioso sull’operato dell’intellettuale, frutto di una mai sopita vocazione teorica, ma probabilmente anche della convinzione che (prendo di nuovo a prestito le parole di Bovero) “se un intellettuale non è anche uno studioso attendibile, forse è bene non fidarsi troppo dei suoi messaggi”.
L’irrinunciabilità dello sforzo di comprendere prima di giudicare si è tradotta in Bobbio innanzitutto nell’esigenza di chiarezza nell’uso del linguaggio. Instancabile, in questo senso, è stato il suo lavoro di “pulizia concettuale”, volto a isolare i diversi significati delle nozioni-chiave del lessico politico e giuridico, a confrontarle con concetti affini e opposti, a distinguere usi descrittivi e normativi, a sciogliere ambiguità, a proporre nuove definizioni. L’esigenza teorica di chiarificazione concettuale ha inoltre sempre avuto, in Bobbio, una valenza etica, venendo concepita come condizione indispensabile per un confronto onesto, finalizzato a comprendersi e non a combattersi per partito preso, dentro e fuori l’accademia. Se, per prendere posizione sull’alternativa teorica tra giusnaturalismo e giuspositivismo, è necessario previamente accordarsi sulla definizione di tali nozioni, un’analoga esigenza si pone quando si tratti di discutere su questioni di interesse pubblico. “Che senso […] avrebbe il dire ‘preferisco la libertà’ se non si stabilisse prima in quale dei sensi descrittivi di libertà uso questa parola nel contesto?”, scrive negli anni ’50, rivolgendosi ai cantori della superiorità della “libertà comunista”. “Un discorso sulla libertà tra persone ragionevoli, cioè tra persone che vogliono comprendersi e non ingannarsi a vicenda, ha senso soltanto se si appoggia su un significato descrittivo ben determinato e ben delimitato del termine”.

La lezione dei classici
Bisogna aggiungere che il compito di ricostruire, chiarendole, le categorie fondamentali del mondo dell’etica, della politica, del diritto, è stato svolto da Bobbio nel costante confronto con la lezione dei classici. E che anche il modo in cui Bobbio si è accostato ai classici del pensiero giuridico e politico, la maniera in cui li ha studiati e “usati”, rivela la sua duplice vocazione, teorica e “civile”. Ce ne accorgiamo, da ultimo, sfogliando il volume Mutamento politico e rivoluzioni. Lezioni di filosofia politica (Donzelli, 2022), che raccoglie le lezioni, ricostruite da tre studenti di allora, dell’ultimo corso tenuto da Bobbio prima del pensionamento, tra il novembre 1978 e il maggio 1979. Un testo peculiare, che, non essendo stato rivisto da Bobbio, restituisce nella sua vivacità il suo modo di insegnare. Il corso affronta le diverse figure del mutamento politico e sociale, spaziando da Aristotele a Machiavelli, a Bodin, a Hegel, a Marx, con l’approccio analitico tipico di Bobbio, sempre restio a farsi sedurre dal “miraggio dell’inquadramento storico, che innalza le fonti a precedenti, le occasioni a condizioni”. Al tempo stesso, Bobbio rilegge i testi dei grandi del passato a partire dagli interrogativi che pone il presente. Per limitarsi a un esempio, la teoria aristotelica del mutamento, oggetto delle prime lezioni, stimola al confronto con la teoria marxiana, particolarmente viva nel dibattito di quegli anni, in relazione alla questione delle condizioni oggettive (strutturali) e soggettive della rivoluzione. Ma le categorie aristoteliche vengono mobilitate anche per riflettere sull’ascesa del fascismo (fu una rivoluzione?) e per illustrare la distinzione tra costituzione materiale e formale, di cui si servono i giuristi per descrivere la differenza tra ordinamenti normativi e strutture effettive di potere. Bobbio, in dialogo con gli studenti, rivendica apertamente quelle che potrebbero sembrare digressioni, o addirittura divagazioni: “Ritengo che questa lettura di Aristotele debba anche essere una continua occasione, quasi un pretesto, per parlare dei problemi contemporanei”. Perché anche a questo servono i classici: a dotarci di “occhiali” utili a leggere e a interpretare il nostro tempo.
In Teoria generale della politica (1999),  Bobbio chiarisce: “Per assurgere al cielo dei classici un pensatore deve avere riconosciute queste tre eminenti qualità: deve essere considerato un interprete dell’epoca in cui visse tale che non si può prescindere dalla sua opera per conoscere lo ‘spirito del tempo’; dev’essere sempre attuale, nel senso che ogni generazione senta il bisogno di rileggerlo e rileggendolo di darne una nuova interpretazione; deve avere elaborato categorie generali di interpretazione storica di cui non si possa fare a meno per interpretare una realtà anche diversa da quella da cui le ha derivate e a cui le ha applicate”.
Potrebbe lo stesso Bobbio, oggi, essere annoverato tra i classici? Si tratta di una domanda impegnativa, e probabilmente prematura, che tuttavia è lecito porre, tenendo fermi i tre connotati individuati da Bobbio stesso per identificare, tra i grandi pensatori, quelli di statura “classica”. 

Norberto Bobbio pensatore classico?
Propongo due soli esempi a riprova di quanto detto. Come comprendere la temperie culturale del secondo dopoguerra, gli anni entusiasmanti e difficili della costruzione della democrazia e delle grandi contrapposizioni ideologiche, nel mondo diviso in blocchi, senza l’aiuto di Politica e cultura, il volume del 1955 che documenta il dialogo intrattenuto da Bobbio con esponenti di spicco dell’intellighentsia marxista, come Ranuccio Bianchi Bandinelli, Galvano Della Volpe, Franco Fortini, Roderigo di Castiglia (alias Palmiro Togliatti)? Ma, al tempo stesso, come non continuare a leggere, e rileggere, Politica e cultura per riflettere su temi perenni come la libertà, la democrazia, lo stato di diritto, il nesso tra liberalismo e socialismo, la funzione degli intellettuali? E come fare a meno delle categorie messe a punto in questo testo per continuare a pensare il nostro presente, a partire dalla celeberrima distinzione tra libertà negativa e positiva, analoga a quella che negli stessi anni stava mettendo a punto Isaiah Berlin, ma per molti versi più chiara?
Si pensi, in secondo luogo, ai saggi sulla pace e sulla guerra che Bobbio scrive a partire dagli anni Sessanta, i più significativi dei quali sono stati raccolti nei volumi Il problema della guerra e le vie della pace (1979) e Il terzo assente (1989). Ci raccontano, per un verso, il faticoso formarsi e consolidarsi di una “coscienza atomica” dopo Hiroshima, nell’età inaugurata dalla Carta dell’ONU e dalle Costituzioni pacifiste del dopoguerra, e proseguita nella cupa atmosfera dell’equilibrio del terrore. Per altro verso, essi ci offrono categorie e modelli tuttora indispensabili per continuare a pensare – in un contesto molto diverso, in cui la “coscienza atomica” si è assai affievolita e il diritto internazionale agonizza – la sfida della rifondazione di un ordine globale in grado di limitare la violenza nelle relazioni internazionali. Al “modello giusnaturalistico”, o “hobbesiano”, che Bobbio ricava dallo studio di uno dai suoi autori prediletti, guarda oggi Luigi Ferrajoli nell’elaborare un progetto di Costituzione della Terra finalizzato a sottrarre agli Stati il potere di farsi giustizia da soli, attraverso l’attribuzione a istituzioni sovra-statali del compito di garantire la pace e i diritti fondamentali. Un progetto che si muove nel solco della riflessione di Bobbio che, negli anni Sessanta, aveva definito la guerra una “via bloccata”, a fronte della smisurata distruttività delle armi nucleari.
Concludo citando un passo tratto proprio da Il problema della guerra e le vie della pace, in cui – mi pare – c’è tutto Bobbio: la distinzione tra fatti e valori, tra conoscere e giudicare, ma anche l’imperativo morale ad agire e ad impegnarsi, nonostante tutto: “Non sono ottimista, ma non per questo credo che ci si debba arrendere. Altro è prevedere, altro è fare la propria scelta. Quando dico che la mia scelta è nel senso di non lasciare alcun mezzo intentato per la formazione di una coscienza atomica, e la filosofia che oggi non si impegna in questa strada è un ozio sterile, non faccio alcuna previsione sul futuro. Mi limito a fare intendere quel che con tutte le mie forze vorrei non accadesse, anche se in fondo in fondo alla mia coscienza ho l’oscuro presentimento che accadrà. Ma la posta in gioco è troppo alta perché non si debba, ciascuno dalla propria parte, prendere posizione, benché le probabilità di vincere siano piccolissime”.
CREDITI FOTO: ARCHIVIO ANSA



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