O l’aborto o la vita: paradossi pro-life in Texas

In Texas i medici che praticano l’aborto possono essere condannati fino a 99 anni di reclusione. Per l’assurdità di questa legge, che concede questo diritto solo nel caso in cui la vita della donna sia a rischio per cause connesse al feto o al parto, i medici si trovano spesso costretti ad aspettare che la salute delle madri intenzionate ad abortire si deteriori a tal punto che nessuno dubiti sulla necessità dell’intervento. L’ossessione pro-vita qui si risolve nel suo contrario: obbligando le donne a portare a termine gravidanze problematiche, aumenta il pericolo che queste non possano più fare figli in futuro.

Elisabetta Grande

Quanto drammatiche siano le conseguenze di Dobbs, la sentenza della SCOTUS che il 24 giugno di un anno fa ha cancellato il diritto -fino ad allora costituzionalmente protetto- all’aborto per le donne, ce lo dice un caso recentemente assurto alla ribalta delle cronache in Texas. Fino a 99 anni di reclusione e una sanzione pecuniaria di non meno di 100.000 dollari per il medico che pratica l’aborto e per chiunque aiuti la donna ad abortire. A questo si aggiunge la radiazione a vita del professionista, sono le a dir poco esagerate sanzioni previste in quello Stato, quando l’interruzione di gravidanza è praticata su una donna la cui vita o salute non sia seriamente in pericolo. E non importa se la gravidanza sia il frutto di un incesto, oppure di uno stupro, o ancora se il feto evidenzi serie o serissime malformazioni. Perfino in tali casi la donna è comunque obbligata a tenere il figlio o la figlia che nascerà, che abbia o meno –ça va sans dire– le possibilità economiche per mantenerlo. Ma chi e come decide se le circostanze che danno luogo all’esenzione da responsabilità si realizzano, e se è quindi possibile praticare l’aborto senza incorrere nelle tremende sanzioni previste? E’ questo il quesito cui lunedì 11 dicembre hanno risposto i giudici della Corte Suprema del Texas di fronte al caso della donna trentunenne, già madre di due bambini e in attesa di un terzo, cui era stata diagnosticata una malformazione che lo avrebbe condannato a una vita brevissima, se pur fosse nato vivo. Kate Cox, questo il nome della mamma, aveva altresì ricevuto una diagnosi secondo la quale la prosecuzione della gravidanza avrebbe compromesso la sua futura possibilità di avere ancora figli e siccome era suo desiderio avere una famiglia numerosa si era rivolta a un giudice di prima cura per ottenere un restraining order nei confronti del procuratore statale, Ken Paxton, affinché non esercitasse l’azione penale nei confronti del medico che avesse eseguito l’interruzione di gravidanza o di chiunque lo avesse aiutato in quell’attività. Di fronte alla richiesta della Cox, corroborata dal parere della professionista -che l’aveva seguita sotto il profilo medico- che si trattava di un’ipotesi rientrante nella esimente legalmente prevista, il giudice di primo grado accordava l’ordine restrittivo nei confronti di Paxton. Quest’ultimo però, diffidava qualsiasi medico dal procurare l’aborto alla Signora Cox, minacciando l’applicazione delle pesanti sanzioni penali qualora ciò fosse invece avvenuto e si appellava alla Corte Suprema per una pronuncia in merito, ottenendo ragione.

Il delicato punto di diritto su cui la Corte Suprema texana si è pronunciata, gettando nello sconforto la classe medica e le donne in attesa di bebè in condizioni critiche, riguardava il criterio da adottare nella decisione circa la situazione di pericolo per la vita o la salute della donna in gravidanza. Secondo il giudice di prime cure un medico avrebbe potuto praticare lecitamente un aborto qualora avesse ritenuto in buona fede che la donna versasse nelle condizioni previste dalla legge. Una simile lettura della norma avrebbe assicurato ai professionisti la possibilità di interrompere una gravidanza senza conseguenze penali tutte le volte che ciò fosse parso loro genuinamente opportuno al fine di tutelare la vita o la salute della donna. L’interpretazione della Corte Suprema, che impone invece alla Cox di portare al termine la sua gravidanza, fa riferimento al diverso criterio della ragionevolezza, laddove solo quando un serio pericolo per la vita o la salute della donna sia da ritenersi ragionevole è per quei giudici possibile praticare lecitamente l’aborto. La ragionevolezza del pericolo, a differenza della buona fede, chiama in causa un giudizio non soggettivo, bensì oggettivo- calibrato cioè sul giudizio del medico medio. Ciò espone il dottore che pratica l’aborto in buona fede alla possibilità di essere smentito da uno o più altri medici nella sua diagnosi di situazione di pericolo per la donna, col risultato di renderlo assoggettabile a una sanzione così pesante come il carcere a vita. E’ per questo che la decisione della Corte Suprema texana, la cui interpretazione normativa va oltre il caso specifico per offrire con ogni probabilità una soluzione anche per il futuro, rappresenta un vero macigno capace di sotterrare ogni speranza di una seria tutela della salute delle donne texane in gravidanza. La pronuncia “apre le porte a periti di parte dell’accusa… e lo stato ha la sua schiera di medici pro-life pronti a testimoniare che non è ragionevole praticare l’aborto nelle condizioni date” dice una professoressa di diritto americana, chiarendo il punto.

Non è, d’altronde, certamente un caso che nel 2020 -antecedentemente alla prima fra le normative anti-aborto texane – in quello Stato le interruzioni di gravidanza avessero raggiunto il numero di 50.000, mentre nel 2023 sono state solo 34.  I medici spiegano di essere costretti a giocare d’azzardo sulla pelle delle donne: il rischio di eseguire un aborto che ritengono necessario, ma che potrebbe non essere giudicato tale dal procuratore dello stato e da una giuria, con la conseguenza per loro di finire in prigione per il resto della vita, li obbliga infatti ad aspettare che la salute della donna gravida si deteriori al punto che nessuno possa dubitare della necessità di un intervento.
E se prima di Dobbs era del tutto inimmaginabile che si sarebbe potuti arrivare a un tal punto di orrore e barbarie in un paese come gli Stati Uniti -che si è sempre fregiato di essere la terra delle libertà- i paradossi certamente non mancano. Il primo è che chi può permetterselo va ad abortire fuori dal Texas, come ha fatto Kate Cox prima che la Corte Suprema texana si pronunciasse in via definitiva, o va magari in Messico, dove – secondo una prospettiva invertita rispetto a pochi anni fa- la libertà di scelta della donna sul proprio corpo è oggi assai più protetta che in molti Stati della land of the free. Il secondo paradosso è che l’ossessione pro-life finisce per risolversi nel suo contrario, laddove puerpere che sono obbligate a portare a termine gravidanze pericolose finiscono per non poter avere più figli. E’ ciò che sarebbe successo a Kate Cox se non fosse andata ad abortire in uno Stato diverso dal Texas ed è quanto è già capitato a tante donne texane, che magari non avevano le possibilità economiche per sostenere i costi di un viaggio e di una permanenza fuori di casa. E’ questo per esempio il caso di Amanda Zurawski, che insieme ad altre 20 compagne di sventura ha intentato una causa di fronte alla Corte Suprema del Texas (Zurawski v. Texas) per domandare chiarimenti sulla portata di una legge anti-aborto così crudelmente assurda. Dopo un anno e mezzo di cure per la fertilità Amanda era riuscita a rimanere incinta. Alla diciottesima settimana le si erano però rotte le acque e, nonostante non ci fosse alcuna possibilità che riuscisse a portare a termine la gravidanza, le era stato negato l’aborto fino a quando non andò in sepsi, con la conseguenza di un serio danno all’apparato riproduttivo che difficilmente le consentirà di rimanere ancora incinta.
Se in Texas la maggioranza repubblicana al Congresso non cambierà la legge che impedisce alle donne di rinunciare alla propria gravidanza perfino nei casi più gravi e allarmanti, è tuttavia difficile sperare in un possibile contrappeso “contromaggioritario” da parte del potere giudiziario.  Politicamente scelti, i 9 giudici della Corte Suprema texana sono tutti repubblicani, così come peraltro lo è il procuratore generale dello stato Ken Paxton. E’ questa la tragica conseguenza della sentenza Dobbs: l’aver permesso che non ci fosse più un “giudice a Berlino” capace di tutelate i diritti fondamentalissimi delle donne statunitensi.
CREDITI FOTO: ANSA-ZUMAPRESS / CHRIS SWEDA



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