Obbligo scolastico fino a diciotto anni: un’ipotesi feconda e praticabile?

Per valutare la proposta occorre chiedersi quali sono le sue implicazioni e le sue condizioni. In ogni caso l’estensione dell’obbligo esige una riqualificazione del percorso di istruzione, e questo richiede investimenti. Non è pensabile di compierla a costo zero.

Massimo Baldacci

Con l’approssimarsi delle elezioni, si è tornati a parlare di scuola, e in particolare ha attirato l’attenzione la proposta di elevare l’obbligo scolastico fino ai 18 anni di età (partendo dall’età di 3 anni). Si tratta di un’ipotesi feconda e praticabile?
Rispetto a proposte di riforme settoriali, occorre tenere conto del carattere sistemico della scuola. La realtà della scuola, cioè, non è semplicemente il risultato di una somma di aspetti diversi, ma il prodotto di una serie di relazioni fra tali aspetti. La scuola va vista come una totalità, nel modificarne un elemento si devono valutare le implicazioni per gli altri, e provvedere a loro eventuali aggiustamenti. Se si trascurano le interdipendenze sistemiche, si rischia di perdere la coerenza del tutto, e di vanificare le riforme o portarle a esiti controproducenti. Pertanto, per rispondere alla domanda posta non basta valutare in via di principio un innalzamento dell’obbligo, occorre anche chiedersi quali sono le sue implicazioni e le sue condizioni.

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Iniziamo da una valutazione della questione in via di principio. Ripartiamo dal significato dell’obbligo scolastico. A questo proposito, si devono considerare almeno due elementi.
In primo luogo, imparare richiede tempo; perciò, per raggiungere un certo livello di istruzione sono necessari un certo numero di anni scuola. Le ricerche empiriche confermano che ogni anno di scolarità in più produce un certo aumento del corredo di conoscenze. Pertanto, in linea di principio, più cresce il bisogno di istruzione, più occorre estendere la durata della formazione scolastica. Rispetto alla società odierna, la quale viene denominata come “società della conoscenza” (sia pure con una certa dose di retorica), che il bisogno di istruzione sia in continua crescita è un fenomeno che non richiede lunghe dimostrazioni. Da questo punto di vista, l’elevazione dell’obbligo risponde dunque a un’esigenza storica oggettiva. Ma perché non lasciare che siano gli studenti e le famiglie a orientarsi spontaneamente verso una scolarità prolungata? A questo proposito, entra in gioco il secondo elemento: il paradosso della domanda di istruzione. In generale, sussiste un rapporto inversamente proporzionale tra entità del bisogno di istruzione e sua consapevolezza. I soggetti che hanno maggiore bisogno di istruzione (quelli che provengono da ambienti sociali meno favoriti), spesso ne hanno meno percezione, e lo stesso si può dire per le loro famiglie. Se si ravvisa un accresciuto bisogno di istruzione e si vuole rispondere con un progresso culturale e intellettuale di massa, l’elevazione dell’obbligo è perciò la misura adeguata. In via di principio, la proposta di innalzare l’obbligo ai 18 anni appare quindi sensata. E il fatto che sia adottata solo da una parte dei Paesi europei non costituisce di per sé una confutazione.

Passiamo però dal piano di principio, a quello delle implicazioni e delle condizioni. Attualmente vige la distinzione tra obbligo scolastico (fino ai sedici anni) e obbligo formativo (fino ai diciotto anni). Quest’ultimo può essere assolto nella formazione professionale. Tale distinzione risale alle riforme introdotte dal ministro Berlinguer, e configura una realizzazione del diritto di istruzione-formazione attraverso due distinti percorsi: uno di istruzione e uno di formazione professionale. Al di là della retorica sulla equivalenza e sulla pari dignità dei due percorsi (tale più di nome che di fatto), questa soluzione era motivata dalla difficoltà di far convergere tutta la popolazione scolastica su un canale unico di istruzione secondaria fino ai 19 anni di età. La fonte di tale difficoltà è nota: la popolazione d’ingresso al sistema scolastico è caratterizzata da livelli cognitivi e culturali disomogenei, e la scuola non riesce ad agire efficacemente da dispositivo di compensazione degli scarti culturali. E poiché tali scarti hanno un carattere cumulativo, col precedere degli anni di scolarità tendono ad accrescersi. Fino a che la permanenza nel percorso di istruzione di una certa parte dei ragazzi diventa problematica. Meglio allora dirottarli sul percorso dell’obbligo formativo. Sotto questo profilo la soluzione Berlinguer era indubbiamente realistica. Certo, da un altro punto di vista era una resa all’incapacità del sistema scolastico di assicurare a tutti gli studenti adeguati livelli di istruzione, e quindi di portare tutti a un titolo di studio secondario superiore. Indubbiamente, si deve tenere presente che da allora la situazione è migliorata: nel 2000 la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 anni che non aveva conseguito un titolo di studio superiore ammontava in Italia a oltre il 25%, mentre nel 2020 risulta poco più del 13% (Eurostat). Tuttavia, portare l’obbligo scolastico a 18 anni significa tenere tutti i giovani nel percorso di istruzione. Quella di Berlinguer, benché realistica, non era una soluzione ideale, ma il suo superamento ha implicazioni e condizioni ben precise, e trascurarle potrebbe portare a un esito infelice. Detto con chiarezza, per tenere tutti i giovani dentro il percorso di istruzione fino ai 18 anni, è necessario evitare che gli scarti culturali in ingresso al sistema scolastico si accrescano in itinere, e riuscire invece – se non a ripianarli – almeno a ridurli sotto il livello di guardia. E questo richiede un intervento sistemico e impegnativo (anche dal punto di vista economico) sulla scuola, che coinvolge necessariamente tutti i gradi scolastici, a partire dai primi (per aumentare di un ulteriore piano un edificio, è opportuno consolidarne le fondamenta). Qui posso dare solo qualche cenno alla questione, che avrebbe bisogno di una trattazione organica.

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Partiamo dal primo segmento formativo (scuola d’infanzia e primaria). Il fatto che tale segmento goda di buona salute, infatti, non implica che non sia ulteriormente migliorabile.

Una prima avvertenza riguarda il sistema integrato 0-6 anni. Da un punto di vista teorico è indubbiamente necessaria una cultura dell’infanzia che comprenda questo arco d’età. Sotto il profilo istituzionale, ritengo però che la scuola dell’infanzia debba fare sistema con la scuola primaria, affinché sia vista come prima vera scuola. E non come un mero servizio socioeducativo. Questo implica che la scuola d’infanzia, come la scuola primaria, faccia propria un’impostazione curricolare, basata cioè su un percorso educativo intenzionale capace di renderla prima scuola del cittadino, e quindi dedita a ridurre precocemente gli scarti culturali presenti nella popolazione infantile, in funzione dei diversi ambienti di sviluppo dei bambini. A questo proposito, l’estensione dell’obbligo a partire dai 3 anni di età è indubbiamente coerente con la sua elevazione ai 18 anni.

Una seconda avvertenza concerne la scuola primaria. Questa scuola nel 1990 aveva raggiunto un ordinamento modulare che consentiva un insegnamento articolato per grandi ambiti culturali. Tale ordinamento è poi stato abolito, riesumando l’insegnante tuttologo e annacquando inevitabilmente il profilo culturale di tale scuola. Ciò, tra l’altro, inasprisce la discontinuità tra scuola primaria e scuola media, basata sugli insegnamenti disciplinari. Per rafforzare il profilo culturale della primaria occorre reintrodurre, almeno nel secondo ciclo, un’articolazione differenziata per grandi ambiti disciplinari, come minimo due: quello linguistico-storico-artistico (o umanistico) e quello matematico-scientifico-tecnologico (scientifico). Tra l’altro, questo non richiederebbe un aggravio di spesa. Nella scuola a tempo ordinario, si avrebbe un modulo di due insegnanti su due classi parallele (uno insegna l’ambito umanistico in entrambi le classi; l’altro l’ambito scientifico). In questo modo, le competenze d’uscita dei bambini potrebbero ancora migliorare e gli scarti ridursi; mentre, la discontinuità con la scuola media si attenuerebbe. La soluzione ottimale sarebbe quella di implementare questa soluzione modulare in una scuola a tempo pieno (che concede tempi di apprendimento più distesi ai bambini).

Veniamo adesso alla scuola secondaria, attualmente articolata in un triennio di scuola media e un quinquennio di scuola superiore. Si tratta di un’architettura che forse dovrebbe essere ripensata (per esempio, facendo del biennio 14-16 anni un biennio cerniera). Ma qui mi limiterò a un’osservazione inerente al modello didattico. L’estensione dell’obbligo scolastico richiede il superamento di un atteggiamento che attribuisce interamente allo studente l’onere di adattarsi alla proposta di istruzione. Di fronte a una più marcata disomogeneità dei livelli culturali, appare necessario introdurre misure di adattamento dell’insegnamento agli studenti. In particolare, per evitare che gli scarti culturali d’ingresso si accrescano, tra le varie misure necessarie, vi è quella dell’adozione del doppio dispositivo individualizzazione/personalizzazione. L’individualizzazione concerne la diversificazione dei percorsi d’apprendimento in rapporto a obiettivi comuni, e comporta l’attivazione di misure di sostegno e di recupero per gli studenti che restano indietro. Questa misura è facilitata da classi non troppo numerose, o dalla disponibilità di docenti in compresenza. La personalizzazione riguarda la differenziazione dei percorsi d’apprendimento in rapporto a mete diversificate, e richiede attività opzionali che permettano agli studenti di coltivare le proprie specifiche inclinazioni. Questa misura è facilitata dalla disponibilità di laboratori e di aule-progetto, e di relative risorse di personale. Da una parte si tratta di contenere le lacune degli studenti, dall’altra di dare modo a ognuno di sviluppare le proprie potenzialità personali. In entrambi i casi sono necessarie risorse: spazi, strumenti, personale. L’estensione dell’obbligo esige una riqualificazione del percorso di istruzione, e questo richiede investimenti. Non è pensabile di compierla a costo zero.



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