Ogni mezzo per cercare la volontà divina, i cinquant’anni di «Todo Modo»

La prima edizione del libro di Leonardo Sciascia, Einaudi (1974), fa cinquant’anni. Con una scrittura tagliente e acuta l’autore agrigentino disvela la sua profonda conoscenza del carattere dei siciliani, in una terra oppressa che li ha resi oppressori di loro stessi. La sua narrativa spietatamente antipirallendiana, che usa i personaggi come burattini d'una trama già scritta, crea un ambiente ambiguo in cui verità e menzogna si inseguono in un gioco permanente di specchi, sfidando il lettore a trovare lui stesso soluzioni, spesso alternative e contraddittorie.

Giovanni Carbone

Il vecchio libraio che teneva la posizione con il suo bugigattolo, aveva parecchie cose di costa che parevano catapultate da altre epoche. Oltre che di quelle poche vendite in un mondo che non legge, si sosteneva di visite, era un punto d’incontro importante nel centro della sua piccola città in fondo alla Sicilia. Luogo di chiacchiere su quei tomi di cui conosceva dettagli precisissimi. Prima di farsi spazzare via dall’età che avanza, dal Covid, da librerie assai più attrezzate ad assecondare la grande distribuzione, s’espresse con precisione su uno di quei volumi, “andrebbe adottato nelle scuole Todo Modo”. Il libro di Sciascia fa cinquant’anni, la prima edizione per Einaudi è proprio del 1974. Il titolo è una citazione dagli esercizi spirituali elitari di ispirazione gesuitica, “Todo modo para buscar la voluntad divina (Ogni mezzo per cercare la volontà divina)”.
È un giallo che si concede parecchie derive, numerose fughe dall’archetipo del genere senza però mortificarne la struttura. Protagonista è un affermato pittore che si muove negli anni ’70, in cerca d’uno stacco, di pace, che lo porta ad un imprecisato Eremo di Zafer che tal Don Gaetano ha trasformato in albergo dove vengono ospitati, per i loro ritiri spirituali, persone d’un certo rango, ministri, direttori di banche, politici. Proprio durante uno di questi ritiri il pittore assiste all’omicidio dell’ex senatore Michelozzi. Le indagini sono affidate al procuratore Scalambri cui il pittore pare suggerire ogni mossa. È poi la volta dell’assassinio dell’avvocato Voltrani, di cui viene ritrovato il corpo dallo stesso Don Gaetano. Il pittore riesce a ricostruire i fatti, a trovare la soluzione dell’ingarbugliatissima matassa di eventi delittuosi, senza però svelarli. Chi ha commesso gli omicidi non si saprà mai, ed è lo stesso oscuro narratore dei fatti ad accusarsene. Il libro ribadisce come la verità sia sotto gli occhi di tutti, ma che sia necessario avere occhi per coglierla. Così Sciascia gioca col lettore, inserendo lungo il racconto elementi che danno indicazioni ambigue, e ponendolo nella condizione di dover trovare lui stesso soluzioni, spesso alternative e contraddittorie.
La sua scrittura tagliente e acuta disvela in ogni passaggio la sua conoscenza profonda del carattere dei siciliani, mettendoli a nudo nel dispiegarsi di tremila anni di storia, in una sorta di continuità che ha fagocitato impietosamente ogni sovrapposizione culturale. Una Sicilia oppressa che ha reso i siciliani i propri stessi oppressori, li ha inesorabilmente integrati nella natura ambigua in cui verità e menzogna si inseguono in un gioco permanente di specchi. Come volesse riprodurre ciò che l’immagine geografica di quella terra ha restituito con la sua forma – tripartita, triplice, triangolare – in un ritorno costante e circolare a quel tre che, oltre la perfezione del numero, incarna la somma del primo pari e del primo dispari. Sciascia articola il tutto alla stregua del suo esatto contrario.
La sua lettura della politica è espressa precisamente. “Ma tante cose avevo perso di vista; di tanti mutamenti non mi ero accorto, di tante novità. E non soltanto io: anche la gente che incontravo ogni giorno era nella mia stessa condizione. Ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali: quella che si suole chiamare la classe dirigente. E che cosa dirigeva in concreto, effettivamente? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d’oro.”
Anche alcuni elementi di filosofia, una finestra aperta sul mondo della letteratura della sua terra emergono prepotenti: “A somiglianza di una celebre definizione che fa dell’universo kantiano una catena di causalità sospesa a un atto di libertà, si potrebbe” dice il maggior critico italiano dei nostri anni “riassumere l’universo pirandelliano come sin diuturno servaggio in un mondo senza musica , sospeso ad una infinita possibilità musicale: all’intatta e appagata musica dell’uomo solo”.
“Credevo di aver ripercorso, à rebours, tutta una catena di causalità; e di essere riapprodato, uomo solo, all’infinita possibilità musicale di certi momenti dell’infanzia, dell’adolescenza: quando nell’estate, in campagna, lungamente mi appartavo in un lungo, che mi fingevo remoto e inaccessibile, di alberi d’ acqua; e tutta la vita, il breve passato e il lunghissimo avvenire, musicalmente si fondevano, e infinitamente, alla libertà del presente. E per tante ragioni, non ultima quella di esser nato e per anni vissuto in luoghi pirandelliani, tra personaggi pirandelliani, con traumi pirandelliani (al punto che tra le pagine dello scrittore e la vita che aveva vissuta fin oltre la giovinezza non c’era più scarto, e nella memoria e nei sentimenti); per tante ragioni, dunque, rivolgevo nella mente, sempre più precisa (tanto che la trascrivo ora senza controllare), la frase del critico: appunto come frase o tema dell’infinita possibilità musicale di cui dispone. O, almeno, di cui mi illudevo di disporre.”
Nel rievocare – ancorché per apparente interposta persona – Luigi Pirandello, Sciascia se ne assicura il testimone, pure se l’altro siciliano più antico s’offre al lettore in modo assai diverso quando tratta i suoi personaggi. Il maestro di Racalmuto usa i suoi personaggi come burattini o marionette d’una trama già scritta. Il loro apparire sulla scena è la recita a soggetto, ciò che li precede è già noto, inutile reiterarne la genesi. Sono prigionieri della storia, interpretano il ruolo che questa ha riservato loro. Non godono di alcuna libertà, non riescono nemmeno per un attimo ad essere artefici del proprio destino. In questo senso, forse, la sua narrativa è spietatamente antipirandelliana, poiché l’altro agrigentino certamente lasciava – pur mantenendone un labile controllo con fili sottilissimi – margini al libero arbitrio dei suoi personaggi, e consentiva fossero protagonisti della propria vicenda umana.
Sciascia conosce bene il ‘peso’ delle parole, le usa con cautela, non ce n’è una che sia di troppo, e non ce n’è una di meno. Ma nella sintesi efficace non si abdica all’espressione sorprendente, all’invenzione letteraria, ad un linguaggio superbo, colto, elegante. Il ruotare intorno alle vicende umane, all’osservazione attenta e minuziosa d’ogni più recondito ed apparentemente insignificante dettaglio, sembra essere l’esatto contraltare della sua postura statica. Immobile, come la statua che campeggia sulla piazza del suo paese natale, con l’immancabile sigaretta in mano, Sciascia si è assicurato un posto in prima fila nel teatro degli accadimenti, la cui rapidissima e folle corsa li porta a roteare intorno a lui perché ne possa cogliere ogni sfumatura.
Da adottare a scuola Todo Modo, no, forse no. Forse nella scuola che vuol essere fucina del pensiero critico, del pensiero autonomo, che s’attrezza a divenire fondamentale istituzione di formazione sociale. Sarebbe lettura assai contraddittoria per la scuola che vuol produrre buoni lavoratori per l’armata industriale di domani.



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