Al di là di “Dio” o del teismo

Estratto a firma del teologo José Arregi dal volume "Oltre Dio. In ascolto del Mistero senza nome", il volume dedicato al tema del post-teismo appena dato alle stampe dalla Gabrielli Editori.

José Arregi

Superare l’immagine teistica di Dio, come un essere dal potere soprannaturale e dai tratti antropomorfi e patriarcali, onnipotente e onnisciente, creatore, signore e giudice, che dimora al di fuori di questo mondo imperfetto e passeggero ed esercita il suo governo su di noi intervenendo “miracolosamente” nel dominio della natura. Insomma, andare al di là delle religioni così come le conosciamo, con i loro miti e i loro dogmi, con le loro dottrine e i loro meccanismi di sottomissione e di controllo.

È questo il proposito di Oltre Dio. In ascolto del Mistero senza nome, il volume dedicato al tema del post-teismo appena dato alle stampe dalla Gabrielli Editore all’interno del progetto “Oltre le religioni”, di cui costituisce la quarta pubblicazione. Curato come sempre dalla giornalista Claudia Fanti e dal teologo José María Vigil, il volume raccoglie gli interventi di alcuni dei maggiori esponenti della nuova teologia di frontiera: oltre allo stesso Vigil, José Arregi, Carmen Magallón, Mary Judith Ress, Gilberto Squizzato e Santiago Villamayor.

Di seguito, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto del testo di José Arregi.

 

[…] Se il messaggio sovversivo di Gesù non si fosse trasformato in “cristianesimo”, se la sua vita di compassione, libertà e cura non fosse stata rinchiusa in una religione di credenze e di potere, se Dio non fosse stato equiparato all’immagine di “Dio” (per quanto si trattasse dell’immagine che ne aveva Gesù), se il movimento di Gesù non fosse stato irregimentato in una Chiesa particolare dominante, se la Chiesa non si fosse gemellata con gli interessi dell’Impero, se lo Spirito di Gesù non si fosse identificato con il dualismo platonico e con i concetti aristotelici, se la fede di Gesù e la fede in Gesù non si fossero trasformate in dogmi, in presunte verità rivelate e immutabili…, la storia dell’Europa e del pianeta e il loro presente sarebbero stati senza dubbio molto diversi.

Non sarebbero stati condannati, costretti all’esilio, bruciati come eretici quanti pensavano in maniera diversa, né si sarebbero organizzate sanguinose crociate, né la spada si sarebbe alleata con la croce per legittimare conquiste e colonizzazioni, né l’Europa si sarebbe dissanguata in guerre di religione. La religione cristiana non si sarebbe appropriata della spiritualità, né, di conseguenza, si sarebbero scontrate la teologia cristiana e la filosofia, la chiesa cristiana e la modernità, la fede cristiana e la ragione scientifica. Né Feuerbach, Marx e Freud avrebbero dovuto formulare le loro tesi, indispensabili benché chiaramente riduttive, denunciando il fenomeno religioso come pura e semplice alienazione psicologica e sociale.

E non formulo queste ipotesi dimenticando che la storia è irreversibile, ma per ricordare che è anche contingente. Tutto ciò che è successo è il risultato dell’insieme degli infiniti fattori che sono entrati in gioco, ma nulla è successo perché un qualche “Dio” così abbia stabilito dall’alto e da sempre. Nessuna istituzione – né forma né credenza né dogma né rito né norma morale concreta – è necessaria, “rivelata da Dio” e intangibile, bensì è il risultato contingente di circostanze storiche – politiche, economiche, culturali, ecologiche – anch’esse contingenti.

Tale carattere di storicità e contingenza si applica anche e prima di tutto alla nozione di “Dio”. Nella misura in cui, dicendo “Dio”, applichiamo una qualche idea o immagine, lo limitiamo e lo etichettiamo, trasformandolo assai facilmente in risorsa o arma al servizio di qualche interesse, e quanto più inumano è questo interesse tanto più perverso è il fantasma che chiamiamo “Dio”. La storia trascorsa sulla Terra da quando la specie umana ha creato “Dio” a sua propria immagine e somiglianza, circa 6.000 anni fa, ne è testimone. “Dio” è stato al servizio del meglio e del peggio: nel suo nome si è dato la vita e si è ucciso. Nessuna parola sostiene un carico più pesante, nessuna è stata tanto screditata e fatta a pezzi, come scrisse Buber nel suo celebre testo.

Qualunque parola – “uomo, “donna”, “albero”… – possiede un significato costruito in ultima istanza dai nostri neuroni, a partire dalla percezione sensoriale e dalla cultura sociale appresa, ma indica un referente reale – quest’uomo, questa donna, questo ulivo – che, nella sua concretezza e nel suo mistero ultimo, ci sfugge. Lo stesso, solo in maniera più radicale, avviene con la parola “Dio” in qualunque delle sue versioni nelle diverse lingue. Il suo significato è una costruzione mentale e culturale, personale e sociale, e non esiste che nella nostra mente. E il suo referente? Non è questo né quello, non è niente di ciò che percepiamo ed è la Realtà piena di quanto percepiamo, e non possiamo immaginarlo né dirlo. Se ci fermiamo al significato della parola “Dio”, tale significato, in quanto costruzione mentale, risulta non solo ambiguo, ma anche riduttivo e alienante per il soffio vitale e la vocazione di infinito che abitano l’essere umano.

Per questo ci sono stati profeti, dentro o fuori le religioni stabilite, che hanno denunciato a ragione non solo gli abusi commessi in nome della costruzione “Dio/Dea”, ma anche ogni identificazione di tale costruzione con una realtà particolare, tanto più con la Realtà Assoluta.

E nessuno lo ha fatto con più ludicità e brillantezza di Friedrich Nietzsche (1844-1900), agli albori del XX secolo. Nessuno ha espresso con più anticipo e chiarezza l’avvenimento più decisivo della sua epoca, che è la nostra: la fine culturale del significato di “Dio” come costruzione mentale millenaria, l’agonia o la morte irreversibile di “Dio” nel pensiero, la sua scomparsa dall’orizzonte e il gigantesco vuoto che lascia, la vertigine mortale che provoca, la formidabile sfida che apre: come ricollocarci nel cosmo infinito e salvarci senza “Dio”, senza un Ente supremo, senza una Causa prima, senza Verità definitiva, senza spiegazione dell’inesplicabile, senza altro fondamento etico che la propria coscienza etica, senza altro rimedio per le nostre angosce che l’esperienza profonda del nostro essere e di tutto ciò che è, senza altra salvezza per la nostra finitezza che la dimensione assoluta e infinita della finitezza stessa.

Il fatto è che lo spirito umano non si è dispiegato ancora abbastanza per aprirsi all’Infinito transteista che lo abita nel profondo. La specie umana non si è evoluta ancora abbastanza per liberarsi di ogni “Dio” e immergersi in Dio, incarnare Dio o realizzarsi pienamente come umanità libera, innocente e fraterna. Contro la lettura abituale che si fa di Nietzsche, la prospettiva transteista (“Morte di Dio”) e l’orizzonte transumano (“Superuomo”) si fondono in lui come due forme complementari – la prima negativa, la seconda positiva – della stessa visione profonda. Negare il “Dio” inesistente – già morto o in stato terminale nel pensiero filosofico, nella cultura in generale – è la condizione necessaria per affermare Dio come Infinità del Reale («quanti mari ancora! quanti nuovi dèi!») e per affermarsi pienamente in Esso/Lei/Lui («Volontà di potere»). Nietzsche è un profeta visionario e, in fondo, un mistico della morte di “Dio” come rivendicazione del Reale inesauribile, della possibilità senza fine che anima la materia, il Cosmo, la Terra e questo essere umano appena risvegliato al suo essere.

Alle soglie del XX secolo, Nietzsche ha tracciato un nuovo quadro o paradigma del linguaggio su Dio: oltre la morale, il dogma e il tempio, oltre la religione, “Dio” o il teismo. Ma il suo stile aforistico, paradossale e caustico è risultato troppo provocatore e pericoloso per l’immensa maggioranza. È vissuto prima del tempo? Sono state piuttosto le istituzioni religiose con i loro teologi a vivere fuori dal suo tempo, ancorate al passato. Tuttavia, tra gli anni Trenta e Settanta del XX secolo, c’è stata una feconda generazione di teologi cristiani europei e anglosassoni (Bonhöffer, Cox, Vahanian, Robinson, Van Buren, Altizer, Hamilton, Tillich), tutti protestanti, che ha affrontato in pieno la sfida di Nietzsche, sforzandosi di comprendere e pensare – in linea con le scienze e la filosofia moderna – la crisi di “Dio” e della religione come evento teologico cruciale dell’epoca, elaborando “teologie” della secolarizzazione e della morte di “Dio”.

Nel carcere nazista di Tegel, il giovane e promettente teologo Dietrich Bonhöffer invocava un “cristianesimo senza religione” scrivendo il famoso aforisma, non facile da tradurre, ma che vale un intero trattato teologico transteista, «Einen Gott den es gibt gibt es nicht». Letteralmente: «Non esiste un Dio che esiste». «Un Dio esistente come Ente non esiste». Poco prima di essere giustiziato, invitava a vivere «dinanzi a Dio senza Dio» o in Dio senza “Dio”.

Alcuni anni dopo, Paul Tillich, fuggito dal nazismo negli Stati Uniti, diceva ai suoi stupiti ascoltatori che forse avrebbero dovuto dimenticare tutto ciò che avevano appreso su Dio, compreso forse lo stesso termine, insegnando che Dio è il nome della «Profondità infinita e inesauribile» della realtà e che il «fondo di ogni essere è Dio». John A.T. Robinson, a sua volta, affermava che «in quanto Ente, Dio manca di futuro».

Purtroppo, essi non sono stati seguiti né dai teologi né dalle chiese protestanti e cattoliche, ma anzi condannati ed eclissati dai “grandi”: Karl Barth dal lato protestante e Hans Urs von Balthasar e K. Rahner dal lato cattolico. Ma la sfida era stata posta e resta in buona parte attuale: il passaggio da una teologia teista a una teologia realmente in linea con le scienze, mistica, transteista e transreligiosa. E non sono neppure mancati insigni pensatori e testimoni che si sono impegnati nella sfida per fedeltà al Mistero e alla Ragione, come non erano mancati i precursori (soprattutto Rudolf Bultmann, 1884-1976). Ne citerò alcuni.

Alfred N. Whitehead (1861-1947), matematico, filosofo e teologo, aveva già fatto un ammirevole sforzo per rendere il discorso su Dio coerente con le scienze, e concretamente con il carattere radicalmente dinamico ed evolutivo della realtà: Dio è la fonte inesauribile di nuove possibilità senza fine, il permanente processo che si sviluppa nel cuore di tutto il reale.

Raimon Panikkar (1918-2010), figlio di padre indù e madre catalana, una delle massime figure spirituali e teologiche del XX secolo, ha combinato nella sua esperienza spirituale e nel suo pensiero la saggezza più profonda di Oriente e Occidente, fino a riconoscersi al tempo stesso indù, buddista e cristiano. Ricordo la sua risposta illuminata e serena alla domanda «Esiste Dio?»: «Dipende da ciò che si intende per Dio». Dio non esiste come entità soprannaturale. Dio è la realtà ultima che siamo, come dice Kena Upanishad, ciò che siamo chiamati a realizzare in noi, in modo che si possa tutti arrivare a dire, come il Gesù di Giovanni: «Io Sono». Cos’è allora l’esperienza di Dio? «…Non è esperienza di nulla: è la pura esperienza… È la radice ultima di ogni esperienza. È l’esperienza nella profondità di ciascuna esperienza umana». E cos’è la vera mistica? È «l’esperienza della Vita», la vita nella sua profondità e pienezza.

Su questa linea di pensiero si pongono, ciascuno con il suo accento, Willigis Jäger, Marià Corbí, José María Vigil, Juan Masiá, Enrique Martínez Lozano, Javier Melloni… E un cenno a parte merita Eugen Drewermann con la sua immensa opera di reinterpretazione psicologica della Bibbia e dei dogmi, il suo lavoro di psicoterapeuta e maestro spirituale, la sua decostruzione lucida del sistema religioso clericale e la dura condanna ecclesiastica subita per questo.

Finisco citando il vescovo episcopaliano John Shelby Spong, già novantenne ma ancora attivo e produttivo. Alla fine del primo capitolo di Perché il cristianesimo deve cambiare o morire dice di sé: «È così che mi definisco: un credente che vive sempre più esiliato dalle forme tradizionali con cui, fino ad oggi, è stato proclamato il cristianesimo».

Nel 1999, poco prima di andare in pensione, formulò “12 tesi” su ciò che doveva cambiare nella teologia cristiana. Le prime due dicono: «1. Il teismo come modo di definire Dio è morto. Non può più intendersi Dio in modo credibile come un essere dal potere soprannaturale, che vive al di sopra del cielo ed è pronto a intervenire periodicamente nella storia umana, perché si compia la sua divina volontà. Pertanto, oggi, la maggior parte di ciò che si dice su Dio non ha senso. Dobbiamo trovare un nuovo modo di concettualizzare Dio e di parlarne». «2. Dal momento che Dio non può essere concepito in termini teisti, non ha senso cercare di intendere Gesù come “l’incarnazione di una divinità teista”. I concetti tradizionali della cristologia sono, pertanto, in bancarotta». Né il Dio teista né il Cristo teista. Da qui la ricerca di nuove immagini di Dio, oltre il teismo. […].

Il significato teista della parola “Dio” fa acqua da tutte le parti. Se ha sempre evidenziato enormi crepe, e le menti più lucide e gli occhi più mistici sono sempre andati oltre, è nel corso del XX che è entrato in fase terminale, a causa dello sviluppo delle diverse scienze umane (psicologia, sociologia, storia, ermeneutica…) ed esatte (astronomia, fisica nucleare, neuroscienze, biogenetica…) e della globalizzazione dell’informazione. L’immagine teista di Dio, elaborata circa 6.000 anni fa, sta scomparendo; un giorno, non molto lontano, verrà cancellata del tutto o sopravvivrà nei musei.

Perché? Semplicemente perché non è più credibile o utile: a chi sostiene, non senza qualche ragione, che tutto ha bisogno di una causa per essere, chiunque potrà rispondere che non serve il ricorso a una Causa Prima extramondana ed eterna per spiegare l’inizio del mondo temporale, che un Dio Causa esplicativa non è che una costruzione logica umana, e che pensare a un universo o a un multiverso autosufficiente ed eterno è altrettanto o più logico che pensare a un Dio autosufficiente ed eterno come Creatore dell’universo. In ogni caso, qualunque bambino potrebbe chiedere a ragione: “E Dio chi lo ha creato?”, e gli si potrebbe rispondere solo con sotterfugi.

L’immagine teista di Dio è servita per spiegare l’esistenza del mondo e per mantenere l’ordine, promuovere la bontà ed evitare danni reciproci. Ma tale immagine non trova più posto nel quadro culturale del nostro tempo, all’interno del «credibile disponibile» (P. Ricoeur) della nostra epoca. E pertanto non serve più. Non possiamo più continuare a dire “Dio” come spiegazione, causa, fondamento o giustificazione di alcunché.

Del resto, è anche evidente che non c’è più ordine e bontà né meno menzogna e ingiustizia tra quanti credono ancora all’esistenza di Dio rispetto a quanti hanno abbandonato la fede. Se ci sono stati più credenti buoni che non credenti buoni, è solo perché i “credenti in Dio” sono stati molto più numerosi dei “non credenti”. Semplicemente per questo, e non certo perché il credere nell’esistenza di un Dio renda qualcuno migliore di chi non ci crede. Basta guardare al passato e al presente. E basta leggere, per esempio, Confucio, Mencio e Lao-Tsu, o la parabola del Buon Samaritano: un samaritano, considerato a quel tempo dagli ebrei devoti come un eretico o un ateo, è presentato da Gesù – che provocazione per i credenti presuntuosi di allora e di oggi! – come un modello di persona buona, di chi rivolge lo sguardo al ferito, prova compassione, si avvicina, versa olio sulle ferite e si prenda cura di lui.

Non si tratta di un mero “cambio di Dio”, ma di una trasformazione del mondo. E, come ha scritto Rafael Sánchez Ferlosio, «finché non cambiano gli dei, nulla cambierà» nel mondo. Il passaggio da una teologia teista a una realmente coerente con le scienze, mistica, transteista e transreligiosa è una sfida culturale decisiva, un compito filosofico-teologico e politico perentorio, se vogliamo transitare verso un’altra umanità necessaria e possibile, verso un’epoca inscindibilmente spirituale, economica e politica realmente nuova per questa nostra problematica specie. […].



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