Oppenheimer, la hybris è il cuore nero degli Stati e degli uomini

Oppenheimer, un po' come il resto della cinematografia di Cristopher Nolan, non ambisce a essere un capolavoro, ma a dirci qualcosa di grande impatto sulle passioni umane e i loro risvolti drammatici.

Alessia Zappa

I film di Cristopher Nolan raramente si meritano l’appellativo di capolavori. Ma sono spesso grandi film. Oppenheimer, nelle sale in questi ultimi giorni di un agosto rovente, è un grande film. E le ragioni sono in tutto ciò per cui i film di Nolan si lasciano amare anche nei loro sovraesposti difetti: perché mettono in scena passioni umane, sentimenti, grandezze e miserie mai separate le une dalle altre, e lo fanno mostrandoci l’immensità del mondo, delle cose del mondo, e la loro bellezza spaventosa. Il cinema di Nolan, al suo meglio, abbaglia e lascia attoniti al tempo stesso, e proprio questo avviene anche nella sequenza più grandiosa, più incredibile, di questa lunga pellicola che vola via in un attimo.
Tecnicamente si tratta di un biopic, la storia, tratta dal libro “Oppenheimer. Trionfo e caduta dell’inventore della bomba atomica”, scritto da Kai Bird e Martin J. Sherwin e vincitore del Premio Pulitzer nel 2006. Ma è un biopic che il regista, come ama fare, smantella, spezzetta, dissequenzia, immergendoci non nella storia di una vita ma nelle atmosfere, cognitive, sentimentali di un personaggio e di un momento storico che cambiò il mondo. Una storia che ci viene raccontata con i tratti del mito greco, esplicitamente richiamato fin dal principio del film, ma anche del mito indù; con una citazione di grande impatto, tratta da un testo sacro, che non ha mancato di suscitare ire da parte del fervente nazionalismo indiano.
Come di fronte agli dei, non ne esploriamo perciò la psiche, non li seguiamo in una presa di coscienza o nel cosiddetto “coming of age” – il percorso di crescita – bensì siamo ammessi a vederne le passioni, a condividerne le visioni. Attraverso le scene di maggiore forza immaginifica, attraverso le grandi creazioni di una mente senza dubbio geniale come quella del protagonista, ma innanzitutto attraverso la superba interpretazione di un protagonista, Cillian Murphy, attore magistrale che finalmente ottiene la consacrazione con un ruolo che lascerà per sempre il segno. Visto con gli occhi di Cillian Murphy che si fa J. Robert Oppenheimer, il mondo non è più lo stesso mondo di prima. Ne scorgiamo le immensità ma ne vediamo le miserie, anch’esse attraverso lo sguardo viscido di un altro grande maestro, Robert Downey Jr. chiamato a interpretare il funzionario Lewis Strauss. Vediamo come la vicenda dell’invenzione della bomba atomica fu innanzitutto un affare di Stato, e di questo Stato tocchiamo il cuore nero.

Senza scadere nel film storico di denuncia civile, rimanendo fedele alla sua epica dei sentimenti e dei tormenti, il film di Nolan rivela, raccontando l’epopea che condusse alla creazione – termine che richiama fin dall’etimo la dimensione divina, e proprio così, prometeicamente, fu vissuta non solo dall’élite che la commissionò ma anche da quel gruppo di scienziati scelti che la ottenne – della bomba atomica. Svela il cuore nero degli Stati Uniti, e lo svela innanzitutto nelle parole che mai si sentono pronunciare da nessuno, neanche una volta, nel corso delle tre ore di racconto: libertà, democrazia. Il processo che portò alla realizzazione della bomba atomica nel contesto della Seconda guerra mondiale non ebbe nulla a che fare con la lotta per la libertà e per la democrazia, per sconfiggere il nazismo. Fu un processo tutto interno alla volontà di potenza degli Stati, all’interno del quale persino l’antisemitismo di Hitler poteva rappresentare un vantaggio competitivo; e di questa volontà di potenza ci viene mostrata l’essenza: la competizione come anima, il bisogno di controllo sul mondo e sui cittadini dell’umanità intera, la gloria che punta al divino ma regalando il fuoco agli uomini non dona loro la vita, bensì la sua stessa dannazione. E dopo aver ottenuto il massimo della gloria, ciò che aspetta Oppenheimer sarà il massimo del rimorso e dell’umiliazione.

In questa tensione epica così efficacemente rappresentata dal contrappunto sonoro, che non concede mai un vuoto, che martella lo spettatore con la forza di una ossessiva chiamata interiore, Nolan non scava nelle psicologie individuali – per certi versi, in questo film concede solo alle poche donne coprotagoniste, l’amante e la moglie dello scienziato, di possedere una psicologia individuale; e solo in chiave di reattività drammatica alla piccineria maschile – e non celebra nessuno. Non siamo di fronte a un film celebrativo, ma a una rappresentazione di quelle dimensioni tutte umane – la passione per la scoperta, per la scienza, la vanità, l’amore di gloria, il valore di una copertina del TIME – che possono far sentire molto in alto senza mai per questo liberare gli uomini dalla loro profonda meschinità. Gli scienziati e le loro famiglie, che ebbero anni di tempo per fare i conti con la coscienza di ciò che stavano per realizzare, eppure andarono avanti, e risero dei morti di Hiroshima e Nagasaki; per non dire dei politici e degli uomini delle istituzioni, ci appaiono soprattutto così: nella meschinità delle loro ambizioni e della loro ansia di controllo, laddove al tempo stesso la hybris che li anima genera conseguenze che essi non si preoccupano di comprendere.

Ecco allora che l’unica figura, spoglia di qualsiasi gloria, vecchio stanco e appesantito, a conservare una sapienza di sé diventa Albert Einstein, che aveva saputo farsi da parte una volta compreso che la sua ambizione sarebbe diventata un ingranaggio della guerra. Einstein, che Oppenheimer non manca di giudicare con una certa superbia per non aver voluto collocarsi fra i vincitori della Storia, ma al quale ricorre ogni volta che si rende conto, in un guizzo di coscienza, che quella stessa Storia sul lungo termine non prevede vincitori e vinti, assume per Nolan proprio ­il ruolo di coscienza esterna del protagonista. Nella vita vera del fisico americano non ci sono testimonianze di questo tipo di dialoghi fra i due scienziati. Mentre è comprovato che, anni dopo lo scoppio della bomba, Oppenheimer ebbe a dichiarare che costruirla aveva significato, per i fisici, “conoscere il peccato”, riferendosi al peccato di superbia che essi provarono, per l’orgoglio di ciò che avevano realizzato.

A conti fatti, Nolan ci racconta le vicende di uno sconfitto della Storia. Perseguitato e ridotto all’irrilevanza proprio a causa dei suoi successi, Oppenheimer, che era stato simpatizzante della sinistra, come il film ampiamente racconta facendo di quelle vicende l’espediente narrativo principale, fu vittima di quella caccia al comunismo che fu il maccartismo negli anni Cinquanta e che rappresentò, ironia della Storia, il punto di maggior similitudine al comunismo e alle sue purghe che il regime democratico americano arrivò mai a toccare, compreso perché offriva la possibilità a mediocri burocrati di dare sfogo alle proprie ripicche ammantandole di rettitudine ideologica; la sua figura ne emerge, nonostante i risarcimenti tardivi che pure in qualche modo gli furono tributati, come la figura di uno sconfitto, di un punito. Per la superbia che lo aveva portato ad avvicinarsi a un Olimpo divino; ma l’Olimpo, come insegna lo stesso mito greco, è un campo di forza tanto quanto di debolezze, in grado di segnare il destino di ogni eroe concedendo la gloria o somministrando l’infamia. Quello che, volontariamente o forse no, il film di Nolan esprime è che di fronte a questa volontà di potenza divina non c’è considerazione democratica che tenga. Non c’è mai stata una via democratica al nucleare: nella corsa per accaparrarselo prima degli avversari gli Stati Uniti calpestarono i diritti di tutti, dalle tribù native dei territori che espropriarono – contaminandoli per anni – per i loro esperimenti, fino alle popolazioni giapponesi il cui sterminio fu freddamente calcolato, fino al sacrificio, se necessario, di chiunque osasse suggerire che un’invenzione così distruttiva non poteva essere lasciata alla competizione fra potenze. Come ha raccontato Silvano Fuso su MicroMega+, fu proprio questa la battaglia di Albert Einstein, insieme a Bertrand Russell e altri importanti studiosi, che dopo la Seconda guerra mondiale cercarono di farsi carico delle conseguenze di ciò che loro stessi avevano aiutato a innescare. Ma nonostante decenni di battaglie, la volontà di potenza è ancora lì che incombe su tutti noi e il cuore nero degli Stati, tutti, da quelli democratici alle autocrazie ai regimi burocratici alle democrazie ormai tali solo nel nome, continua a incombere su un’umanità che nel frattempo, diversamente dallo spirito che animò a lungo il Novecento, ha sempre più difficoltà a pensarsi, dirsi e quindi proteggersi come tale.



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