Origine, territorio, cittadinanza e comunità: attenzione a queste parole

Ci sono molti motivi per cui l’idea nazionale ha preso piede e continua a sopravvivere. Ma che cosa significa, davvero, essere italiani? Estratto dell’introduzione dell’ultimo libro di Francesco Filippi “Prima gli italiani! (sì, ma quali?)” (Laterza).

Francesco Filippi

Termini come “origine”, “territorio” o definizioni legali come “cittadinanza” appaiono solo tentativi, peraltro molto approssimati, di inquadrare un insieme reale assai più vasto e complesso.
Si tratta, secondo la definizione del sociologo Benedict Anderson, di una “comunità immaginata”, vale a dire di un insieme di persone che, pur non conoscendosi e non essendosi mai incontrato, sente di appartenere, tutto, a un gruppo definito che le distingue da altre persone.

Eppure, per quanto fittizio, frammentato e disomogeneo possa essere il racconto che tiene unito questo insieme di persone, esso è tutt’altro che irrilevante: perché nel corso del tempo, rimanendo solo al caso italiano, è riuscito a convincerle che lo hanno fatto proprio per prendere scelte economiche controproducenti, imbarcarsi in avventure dannose per i più, combattere, uccidere e infine morire. È il racconto di una madrepatria in pericolo che ha prodotto le centinaia di migliaia di morti nelle trincee della prima guerra mondiale; è la volontà di dare gambe al racconto della rinascita del Paese ad aver prodotto un miracolo economico sostenuto da salari bassissimi e scarsa sindacalizzazione negli anni Cinquanta e Sessanta; è il racconto della necessità per un “grande Paese” di avere una propria compagnia aerea di bandiera ad aver permesso di buttare miliardi di euro per tenere aperto un vettore senza prospettive economiche. Questo racconto viene definito “pubblico” non solo perché indirizzato a tutto l’insieme degli individui che compongono la possibile comunità, ma perché costruito, approvato e propagato da chi questa comunità la governa, dandone la visione ufficiale.

È la forza evocativa di un racconto di iperbole storica che spinge Donald Trump a dichiarare, durante la campagna elettorale delle presidenziali 2020, di voler difendere l’immagine di Cristoforo Colombo per guadagnarsi le simpatie della comunità italoamericana. Dando per scontato che Colombo sia parte integrante del racconto storico italiano.

Un racconto utile, almeno per chi lo ha saputo gestire, manovrare e, alla bisogna, reinventare: l’Italia unita ha favorito quella parte di classe imprenditoriale che riesce da subito a sfruttare la fine delle frontiere interne alla Penisola. L’alfabetizzazione e “l’italianizzazione” delle masse ha fornito e fornisce a generazioni di capitalisti milioni di operai che comprendono una singola lingua – quindi comprendono gli stessi ordini e possono svolgere i medesimi compiti – e hanno basi culturali comuni, cioè possono credere agli stessi racconti. Una comunità nazionale che ha i medesimi desideri è anche, se ben manovrata, un enorme mercato uniforme pronto ad accogliere i medesimi prodotti.

[…] Ci sono molti motivi per cui l’idea nazionale ha preso piede e continua a sopravvivere. Ma che cosa significa, davvero, essere italiani?

[…] Le contraddizioni del “non modello” italiano si mostrano in tutta la loro difficoltà una volta applicata la teoria alla pratica: un paese dai confini geografici incerti e contestati, con specificità regionali che producono fratture sulle direttrici nord-sud, est-ovest, montagna-mare-pianura, città-campagna, ma anche uomini-donne e ultimamente, drammaticamente, vecchi-giovani; un paese popolato di italiani che non hanno l’italiano come madrelingua, che raccontano a sé stessi una storia frammentata in micromemorie di parte; un paese in cui i momenti più divisivi della vita pubblica sono proprio le feste nazionali, quelle pensate, cioè, per riunire attorno a simboli specifici un intero popolo. Un paese in cui, peraltro, il giorno dell’unificazione non è nemmeno festa nazionale.

Ora il modello di questa identità frammentata è messo ulteriormente sotto stress dalle generazioni di ragazze e ragazzi nati in Italia da genitori provenienti da altri paesi, impossibilitati a rientrare nell’evanescente schema che fa appartenere alla “patria” intesa come terra dei padri – più raramente delle madri – o, peggio, nello stereotipo razzista dell’appartenenza etnica. “Non ci sono negri italiani”, si grida negli stadi, con la realtà attorno a smentire questo ennesimo precario schema identitario.

L’intera architettura del definirsi italiani poggia sulle macerie non spianate di una serie di tentativi di dare significato a identità locali polarizzate e spesso tra loro confliggenti.



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