Oscar 2024, la stagione d’oro del cinema che svela l’anima torbida delle democrazie

La stagione di cinema che si è chiusa con gli Oscar 2024 è stata fra le più belle e intense degli ultimi anni, con molti titoli eccellenti che hanno il coraggio di scavare nell'anima torbida delle società democratiche e occidentali in crisi.

Federica D'Alessio

La stagione cinematografica che si è chiusa, simbolicamente, con la notte degli Oscar 2024 è stata fra le più belle, intense e vissute degli ultimi anni. Trascinata anche in questo Paese da alcuni film campioni d’incassi – su tutti C’è ancora domani di Paola Cortellesi e Barbie di Greta Gerwig, due storie al femminile e dichiaratamente femministe – e dal vincitore del maggior numero di statuette, Oppenheimer, l’annata ha visto un importante ritorno del pubblico nelle sale cinematografiche, dopo che gli anni segnati dalla pandemia da Covid-19 avevano invece portato a una prolungata diserzione. Rispetto al 2022, gli incassi in sala sono aumentati del 58,6% secondo Cinetel, anche se i numeri sono ancora inferiori rispetto agli anni 2017-2019. I film che ci hanno portato di più al cinema non si sono limitati a intrattenere: hanno fatto parlare di sé, hanno fatto parlare le persone fra loro. Hanno aperto discussioni e dibattiti, su piani diversi, hanno stimolato riflessioni, hanno infuso vivacità ai luoghi. Dagli scenari dei festival principali come la Mostra del Cinema di Venezia o l’imminente Festival di Cannes, che vedono arrivare persone da ogni parte del mondo, fino ai più piccoli Festival di provincia come il recente Milazzo Film Festival, che invece coinvolgono nella loro realizzazione l’intera popolazione di una cittadina, il cinema si dimostra un elemento di aggregazione sociale e un linguaggio di impegno sociale, culturale e politico superiore, probabilmente, a qualsiasi altra arte.

Tutto sta, si fa per dire, come sottolineava proprio a Milazzo Mario Sesti, direttore artistico del Festival insieme a Caterina Taricano, nel saper trovare e raccontare “la giusta storia”: la storia che sappia parlare al pubblico, la storia che quando ce l’hai, quando ti arriva fra le mani, non puoi non raccontarla. Così è nato Oppenheimer, hanno raccontato durante la notte degli Oscar i produttori e il regista Cristopher Nolan. Perché nelle loro mani è arrivato il libro “Trionfo e caduta dell’inventore della bomba atomica” di Kai Bird e Martin J. Sherwin (in Italia edito da Garzanti), e hanno deciso che da quella storia poteva nascere, con la giusta dose di visionarietà, un grande film. E certo lo è, Oppenheimer, un grande film. Forse non un capolavoro, a meno che non si sia molto innamorati dello stile filmico di Christopher Nolan; ma è un film che – come scrivevamo su MicroMega – entra nel cuore nero della hybris umana, e che ha il coraggio di ricordare a noi tutti, in tempi di guerra globale, che abbiamo già oltrepassato più volte il punto di non ritorno; siamo già stati degli Icaro che si sono bruciati le ali. E ne abbiamo già pagato le conseguenze.

Qualcosa di simile ci ricorda anche un altro grandissimo lavoro, premiato agli Oscar come miglior film straniero: La zona d’interesse, del regista inglese Jonathan Glazer, anch’esso liberamente tratto da un libro, il bel romanzo omonimo di Martin Amis. La giusta storia – quella della famiglia del gerarca nazista Rudolf Höß, primo comandante del campo di Auschwitz nella Polonia occupata, che abitava in una bella casa con un grande giardino proprio di là dal muro del campo – per dirci di noi oggi, di quanto i meccanismi di disumanizzazione che portarono alla tragedia dell’Olocausto non siano stati affatto un buco nero né un unicum della Storia, bensì siano vicinissimi al presente, siano nel presente; un presente storico che viviamo oggi, anche in questo “tragico Ventiquattro”. Il regista e i suoi collaboratori, sul palco, hanno avuto il coraggio di tracciare direttamente un nesso con le vicende della più stretta attualità, attraverso il loro acceptance speech, il tradizionale discorso di ringraziamento dei premiati: “Tutte le nostre scelte sono state fatte per riflettere e confrontarci con il presente, non per dire guardate cosa hanno fatto allora, piuttosto: guardate cosa facciamo noi adesso. Il nostro film mostra dove la disumanizzazione porta al peggio; ha plasmato tutto il nostro passato e il nostro presente; in questo momento, siamo qui come uomini che rifiutano che la loro ebraicità e l’Olocausto vengano dirottati da un’occupazione che ha portato il conflitto nella vita di così tante persone innocenti, che si tratti delle vittime del 7 ottobre in Israele o dell’attacco in corso a Gaza. Tutti sono vittime di questa disumanizzazione. Come possiamo resistere? Aleksandra Bystron-Kolodziejczyk, la ragazza che brilla nel film come nella vita, ha scelto di farlo. Dedico questo film alla sua memoria e alla sua resistenza.”

Queste poche parole, qui riportate integralmente per il loro valore, sono state fatte oggetto di attacco pesante durante tutta la settimana successiva da parte del movimento sionista mondiale, con giornalisti che le hanno manipolate, distorte e tagliate per farle comparire come una specie di rigetto della propria appartenenza ebraica da parte di Glazer, e centinaia di personaggi di Hollywood, oltre a migliaia di account social della cosiddetta hasbara – la propaganda filosionista diffusa – che hanno insultato Glazer e provato a rappresentarlo, ancora una volta, come un ebreo antisemita. Lo stesso era successo, appena poche settimane prima, al giornalista israeliano Yuval Abraham, autore insieme al collega palestinese Basel Adra del documentario No Others Land, premiato alla Berlinale.

Quanto siamo simili ai nazisti?
La zona d’interesse è “la giusta storia” perché attraverso un linguaggio sottrattivo, basato sui suoni – anche il sound design ha ricevuto un premio Oscar – e su inserti molto sapientemente gestiti di contemporaneità, riesce nel miracolo narrativo di farci sentire, finalmente, la vicinanza temporale con le vicende del nazismo e dell’Olocausto. Di sottrarle alla memoria museale e rituale e riportarle alla attualità degli “splendori e miserie” che in ogni tempo e in ogni luogo interessano l’umanità. Quanto siamo simili ai nazisti, ci si chiede dopo aver visto il film. Quanto è ampia oggi la zona d’interesse nella quale perpetriamo, dietro un muro che ci consente di ignorare, i crimini più abietti contro l’umanità, svuotando noi stessi, ancora prima che le nostre vittime, di quella sostanza di cui è fatta la similitudine con il prossimo? Quanto è facile anche oggi ignorare i suoni, cancellare gli odori o coprirli, vestirsi di bianco e agire la barbarie alla luce del sole, mentre chi cerca di aiutare il prossimo è obbligato a muoversi nel buio delle tenebre; così fanno, per salvare le vite dei profughi, i personaggi di Green Border di Agnieszka Holland, un altro grande film di questa stagione, non candidato all’Oscar dalla Polonia perché le autorità polacche non hanno apprezzato lo smaccato atto d’accusa contro il razzismo di Stato lanciato dalla regista; e così fa in La zona d’interesse un’altra giovane polacca, l’inserviente del film ispirata alla Aleksandra citata da Glazer nel suo discorso.

Al coraggio di salvare vite si ispira un altro grande film di questa stagione, Io, capitano di Matteo Garrone, candidato all’Oscar 2024 come miglior film straniero, non senza le sporcature di esternazioni sgradevoli come quella del co-sceneggiatore Massimo Ceccherini o di Sabrina Ferilli; entrambi hanno insinuato, alla vigilia della cerimonia, che fossero “gli ebrei”, parole testuali di Ceccherini, a essere avvantaggiati per la vigilia, secondo il più banale e trito dei cliché  antisemiti, perché “loro vincono sempre”. Il film di Garrone mette in scena un romanzo di formazione, a tratti onirico, attraverso il viaggio duro e doloroso di due giovani cugini, Seydou e Moussa, da Dakar fino a una Lampedusa che mai vediamo. Un viaggio di crescita durante il quale patiranno le sofferenze inflitte a ogni migrante costretto ad affrontare la disumana rotta del deserto e il passaggio in Libia per poter giungere in Europa. Ma cresceranno, nel corso del viaggio, diventeranno uomini; Seydou crescerà e diventerà un “capitano”, un salvatore di vite umane, fino al finale straziante, geniale, nella sua ambiguità, un approdo in una terra – l’Europa – in cui salvare vite non è più considerato un gesto eroico, bensì un crimine, se le vite da salvare sono quelle di chi si preferisce che muoia.

Un “coming of age” così diverso da quello di un altro grande film chiacchierato di questa stagione, Poor things, dove la protagonista, Bella Baxter, nata bambina in corpo di adulta da un esperimento scientifico, attraversa un percorso accelerato di ingresso nella vita segnato da una tenace e ingenua volontà di autodeterminazione, anche nel suo caso non priva di incontri traumatici con le brutture del mondo e della società. La comparazione fra le due pellicole è interessante non solo perché siamo di fronte a due romanzi di formazione dagli esiti profondamente divaricati – Seydou apprenderà a salvare vite, Bella acquisirà il sinistro potere di ricostruirla in laboratorio e di giocarci, fare quello che vuole delle vite degli altri – ma anche per l’uso che entrambi i registi, l’italiano Garrone e il greco Lanthimos, fanno del colore, della sua saturazione e del suo sbiadimento, per rappresentare la diversa emozionalità delle loro scene, accompagnando attraverso il tono cromatico i cambiamenti che avvengono nelle storie dei due protagonisti; dei quali è interessante soprattutto un aspetto, almeno per chi scrive: la presenza versus l’assenza dell’amore come energia e materia della loro crescita e trasformazione in adulti. Se nel personaggio di Bella Baxter vediamo dispiegarsi tutte le forme dell’autodeterminazione individuale, compresa la pietà caritatevole classista e la solidarietà socialista fra “sex worker” ante litteram – quasi da manuale della brava femminista dell’empowerment che evidentemente Lanthimos, così attento a dichiarare il suo film come femminista quando lo ha presentato a Venezia, deve aver seguito forse anche con più attenzione di quanto non abbia letto il libro da cui è tratta la sceneggiatura –, non vediamo mai, in lei, agire la conoscenza dell’amore. Bella, frutto di un esperimento scientifico realizzato da un uomo a sua volta mai cresciuto nell’amore, ignora questo sentimento, e se in lei si realizza l’empowerment, esso prende le sembianze della libertà di distruggere per poi ricostruire secondo il proprio volere. Una simbologia che richiama in modo contundente il senso della vita sotto il sistema capitalista e liberista. Seydou, dal canto suo, guidato dall’amore di sua madre come grande bagaglio che sempre lo accompagnerà durante tutto il suo viaggio, non agisce l’empowerment, non agisce neanche la libertà, che anzi gli verrà sottratta più e più volte; agisce la responsabilità verso gli altri, la difesa della vita. Un altro orizzonte di valori, che si vedrà negato e di fatto rovesciato, nel momento in cui giunge alle porte dell’Europa.

L’Europa e i suoi fantasmi
Il rovesciamento e lo smarrimento dei valori nella cultura europea sono fili conduttori rintracciabili anche nei due film nel complesso più belli e importanti, a parere di chi scrive, di questa stagione. Anatomia di una caduta, della regista francese Justine Triet, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes 2023 e candidato all’Oscar come miglior film straniero, è un capolavoro sapientemente costruito per attirare gli spettatori nello stesso inganno messo in scena nella pellicola: dare sfogo ai propri pregiudizi e ai propri schemi di pensiero, nel momento in cui è necessario, per risolvere un caso di morte sospetta, indagare alla ricerca della verità. Utilizzando la figura del sospetto per eccellenza, ovvero la Donna, e soprattutto la Donna/Strega, la donna che non chiede scusa, la donna che non dipende dall’uomo, che ha più successo dell’uomo, la donna che non è un angelo del focolare, interpretata magistralmente dall’attrice tedesca Sandra Hüller, Triet costruisce una storia tutta incentrata sul senso della verità, e sulla perdita di contatto con la verità che dilaga nelle società contemporanee, nel mondo della giustizia, in quello mass-mediatico. Anatomia di una caduta è la rappresentazione dell’infingimento e dell’autoinganno che tutti noi, specialmente attraverso l’uso del linguaggio, lasciamo penetrare nelle nostre vite personali oltre che nello spazio pubblico. Un inganno che sarà spezzato da un bambino cieco e da un cane, gli unici due personaggi attrezzati per poter cercare la verità dei fatti, per riconoscerla, e per crederci non come atto di autoinganno, bensì come determinazione ragionevole. È curioso, ma anche molto significativo, che in così tanti abbiano preso il film come la messa in scena di un misterio giudiziario irrisolvibile, di un’ambiguità presente nei fatti stessi. Persino durante la cerimonia degli Oscar, l’attrice che ha presentato la nomination di Sandra Hüller all’Oscar per miglior attrice protagonista – poi vinto da Emma Stone – le ha detto “non ho ancora capito se sei stata tu o no!”. Qui sta la genialità del film, che in realtà risolve qualsiasi ragionevole dubbio sullo svolgimento dei fatti; ma lo fa attraverso un atto performativo che produce negli spettatori le stesse reazioni inscenate, gli autoinganni dovuti ai pregiudizi, il procedimento attraverso il quale il sospetto si insinua nella mente, costruendo quella che la dottrina nazista chiamava tätertyp, la colpa d’autore. Punire qualcuno non per ciò che ha fatto, ma per chi è. Una dottrina che i tribunali giudiziari applicano molto spesso nei confronti delle donne, come ha sottolineato persino la nostra Cassazione qualche tempo fa in riferimento alle frequenti accuse di “alienazione parentale” mosse alle madri separate senza la minima base fattuale. E che vediamo magistralmente agita in questo film, a costruire un filo conduttore tanto con La Zona d’interesse e con Oppenheimer – durante il quale la competizione con i nazisti e la gara a batterli sul loro stesso terreno, agendo in modo a loro speculare, si rivela cruciale – quanto con un altro capolavoro, La sala professori, per mandarci un solo messaggio: noi europei e occidentali in generale siamo molto più imbevuti di cultura nazista, nel modo di agire e di pensare, di quanto siamo non solo disposti ad ammettere, ma persino in grado di capire.

Burocrazie disumane
La sala professori, del regista Ilker Çatak  è a sua volta un eccelso film sul sospetto, sui danni che fa alla mente umana e alla società la cultura del sospetto e su come essa vada perfettamente a braccetto con i precetti moralistici di una società in cui le regole sono a “tolleranza zero” per chi trasgredisce, ma non si basano su alcun buon senso umano; anzi, al contrario trovano la loro ragione d’essere proprio nell’incapacità delle persone di adoperare il buon senso, il prezioso frutto di una cultura della comunicazione e dell’immedesimazione, di una giustizia non astratta, non burocratica, bensì umana. La storia raccontata nel film è infatti quella di un disastro annunciato in cui da una situazione di partenza facilmente risolvibile – siamo in Germania e nella sala professori di una scuola media sono avvenuti alcuni furti – tutti i personaggi senza esclusione, a cominciare dalla protagonista,  compiono una catena di scelte sbagliate che produce un disastro generale, portando alla disgregazione dell’intero tessuto sociale della scuola, all’incomunicabilità reciproca e alla colpevolizzazione generale. Nessuno è in grado di agire secondo il buon senso, tutti si appellano alle regole in modo astratto e burocratico e/o a un’idea di giustizia paternalista e moralistica; tutti si risolvono a esercitare ogni forma di potere di cui dispongono come un’arma contro gli altri, fino ad arrivare al trionfo della burocrazia disumana, ovvero: il ricorso alla repressione come mezzo di risoluzione dei conflitti. La sala professori non lascia scampo: è un atto d’accusa senza pietà nei confronti della società tedesca in particolare, attraversata da un moralismo zelante e pedante delle regole che si vorrebbe espressione di una civiltà avanzata e che invece rivela lacune radicali di senso dell’umanità; ma è un atto d’accusa sfacciata anche nei confronti della società “politicamente corretta” all’interno della quale il rispetto delle regole avviene non perché ci si sa parlare per risolvere i conflitti, ma facendo la checklist dei precetti da seguire. Una società nella quale, per sopravvivere, bisogna diventare spietati: e spietati sono i giovani studenti, a loro volta privi di qualsiasi buon senso, di qualsiasi capacità di convenire umana. Inseguono i loro precetti, come quello del racconto della verità o della difesa di una persona amata, senza preoccuparsi di farlo in modo violento, senza problematizzarli. Una società in cui, in primis a scuola, non impariamo più a usare la ragione per risolvere i problemi – e questo, significativamente, a partire da una insegnante di matematica – e dobbiamo far ricorso alla forza, è una società fallita irrimediabilmente.

Il fantoccio dell’inclusione
Di infingimenti delle società e crisi dei loro valori parlano anche i due film statunitensi più interessanti fra i nominati agli Oscar durante questa stagione, The Holdovers di Alexander Payne e American Fiction di Cord Jefferson. Il primo – la storia di un Natale di confinamento forzato trascorso in un college americano da uno studente, un professore e una cuoca – è classicamente costruito come il solito film americano sull’importanza delle relazioni solidali in una società di individualisti che non viene mai messa in discussione come tale; nella sua prevedibilità continua a dire una delle cose che più amiamo sentirci dire da Hollywood, e che non dovremmo mai smettere di sentirci dire, ovvero che – diversamente da quanto avviene proprio in La sala professori – molto più del rispetto delle regole di per sé, conta l’amicizia, conta la vicinanza umana, conta la solidarietà e la capacità di aiutarsi e conoscersi. È un film prevedibile, ma prezioso proprio se lo accostiamo all’imprevedibilità delle pellicole di cui abbiamo parlato in precedenza. Perché ci dice che per quanto ci piaccia rappresentarci come in The Holdovers, in realtà somigliamo molto di più alla società ritratta nella sala professori di Çatak.

American Fiction, dal canto suo – visibile su Primevideo – è un piccolo gioiello di caustica critica all’ipocrisia del mondo letterario americano (e per estensione, occidentale) e alla logica dell’inclusività, quel fantoccio attraverso il quale il mondo della cultura e dei media a guida saldamente WASP cerca di scrollarsi di dosso il senso di colpa per l’oppressione inflitta agli afroamericani, ma allo stesso tempo, continua a controllare la narrazione, ovvero continua a cercare di trarre profitto e potere anche dalle storie dei neri, imponendo canoni e stilemi, linguaggi e immagini. Lo scrittore nero Thelonious “Monk” Ellison, docente universitario e autore di romanzi di nicchia, dopo essersi sentito accusare di scarsa sensibilità da una studentessa bianca per aver usato la parola “nigger” in una lezione, decide di truffare il sistema scrivendo, dietro pseudonimo, un romanzo infarcito di quegli stereotipi che i bianchi adorano leggere sui romanzi dei neri. Ovviamente sarà un successo eccezionale, e ovviamente, dice il film, non c’è via di scampo: dentro il sistema, vince il sistema; la disciplina del politicamente corretto e dell’inclusione non hanno niente a che fare con la volontà di conoscenza e scoperta della vita vera delle persone nere, se indagassimo di più la quale – suggerisce il film – scopriremmo che è fatta degli stessi identici alti e bassi di splendori e miserie, amori e odi, generosità e meschinità di qualsiasi altro nucleo umano sulla faccia della Terra, specialmente se impiantato nella cultura patriarcale; esse servono gli interessi dei bianchi, ovvero di chi detiene il potere, servono ai bianchi per ammantare di giustezza morale la propria autoreferenzialità, per continuare a detenere il potere senza apparire troppo avidi, e per sciogliere il conflitto fra chi detiene la supremazia e chi la subisce, rendendo gli oppressi complici volontari e compartecipanti attivi della propria stessa oppressione. Una abilità che il sistema capitalistico statunitense manovra da decenni con grande sagacia e che, anche nel caso dei neri afroamericani, rimanda a una colpa d’autore, ovvero la colpa di essere neri e di potersi rappresentare – e di poter vivere, tout court – soltanto attraverso le storie che ai bianchi fa piacere sentire, soltanto attraverso il tipo di lingua che i bianchi sono disposti a recepire, soltanto attraverso stilemi che ribadiscono, alla fin fine, la subordinazione e la sottomissione; la possibilità di esistere, sì, ma come spunta di una checklist ancora una volta, come casellina del catalogo delle razze, categoria anch’essa massimamente esaltata durante il nazismo, la cui validità come tale negli Stati Uniti nessuno si sogna, ancora oggi, di mettere in discussione.
Siamo molto più simili ai nazisti di quanto non sappiamo di essere, e tutti questi film, in questa stagione così intensa, hanno il merito immenso di suggerircelo. Il fatto che così tante persone li abbiano visti, discussi, amati e apprezzati, indica forse che in tanti sentiamo sia arrivato il momento di sentircelo dire; e, possibilmente, di farci i conti.



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