Caso Hasél, non è solo una questione di libertà d’espressione

Da quasi un mese Barcellona è teatro di manifestazioni e proteste. L’arresto del rapper catalano Pablo Hasel, accusato di apologia di terrorismo e ingiurie alla Corona, ha catalizzato una serie di tensioni che covavano da tempo per l’assenza di prospettive di futuro per i giovani, la frustrazione per la sconfitta dell’utopia indipendentista e la crisi della monarchia.

Steven Forti

Da quasi un mese Barcellona è teatro di manifestazioni e proteste, spesso conclusesi con scontri con la polizia e atti di vandalismo. Tutto è iniziato lo scorso 16 febbraio quando è stato arrestato il rapper catalano Pablo Hasél, condannato a 9 mesi di carcere per apologia di terrorismo e ingiurie alla Corona. Teoricamente, Hasél non sarebbe dovuto entrare in prigione ma era già stato condannato precedentemente per reati simili, il che ha implicato il suo ingresso in carcere. Le proteste per la liberazione del rapper si sono svolte in varie città spagnole, ma solo a Barcellona sono continuate fino a questa settimana, per quanto negli ultimi giorni siano calate di intensità. Molti sono stati gli arresti, inclusi alcuni anarchici italiani; una ragazza ha perso un occhio per l’utilizzo di pallottole di foam da parte della polizia catalana; i danni, soprattutto ai negozi del centro della città, sono ingenti. Ovviamente, le immagini degli scontri con incluso un furgone della polizia incendiato, hanno fatto il giro del mondo.

Come spiegare tutto ciò? È indubbio che la questione della libertà d’espressione pesa notevolmente, tenendo poi conto che un altro rapper, Valtònyc, è stato condannato per reati simili tre anni fa: per evitare il carcere nel 2018 fuggì in Belgio. Il dibattito, non nuovo, sulla libertà d’espressione nel paese iberico ha dunque ripreso centralità. Se gli indipendentisti catalani, ma in buona misura anche Unidas Podemos, partito attualmente al governo insieme ai socialisti, sostengono che in Spagna non c’è una “piena normalità democratica” (Pablo Iglesias dixit), il PSOE, così come la destra spagnola e la maggior parte dell’opinione pubblica, rigettano queste accuse.

Premettendo che Hasél non è un santo – recentemente è stato condannato per aver minacciato un testimone in un processo e più volte ha fatto dichiarazioni maschiliste –, sembra pacifico che il suo ingresso in carcere sia eccessivo. Un personaggio di questo tipo, che nelle sue canzoni e nei suoi tweet ha ripetuto più volte che vorrebbe vedere assassinati diversi politici, dovrebbe essere condannato moralmente dalla società e multato, non convertito in un martire.

La Spagna è un paese democratico, su questo non ci possono essere dubbi: paragonare il paese iberico alla Turchia o all’Ungheria, come sono soliti fare gli indipendentisti catalani, non sta né in cielo né in terra. Ciò non toglie che ci sono delle questioni da risolvere e parecchie cose da migliorare. Il codice penale spagnolo, figlio dell’epoca segnata dal terrorismo di ETA, scioltasi ormai una decina d’anni fa, dovrebbe essere riformato e la cosiddetta “legge bavaglio”, approvata dall’esecutivo conservatore di Mariano Rajoy nel 2015, legge che limita il diritto di manifestazione e protesta, dovrebbe essere derogata. Questa è anche la volontà del governo di coalizione formato dal PSOE e Unidas Podemos, ma le urgenze segnate dalla crisi del Covid, le divisioni in seno all’esecutivo – con i socialisti un po’ titubanti al riguardo – e la dura opposizione a qualunque riforma da parte delle destre non hanno permesso di fare dei passi in avanti.

Sarebbe però superficiale ridurre le proteste e le violenze viste a Barcellona solo a questo. Il caso Hasél è stato in realtà il catalizzatore di una serie di tensioni che covavano da tempo. In primis, la stanchezza di una parte della popolazione, soprattutto dei più giovani, dopo un anno di restrizioni per la crisi sanitaria. Attenzione, non è che chi sta manifestando nelle piazze sia un negazionista del Covid: semplicemente, sta scaricando un mix di fatica, rabbia e frustrazione accumulato negli ultimi dodici mesi. A ciò si somma il fatto che, consapevolmente o meno, molti di questi giovani temono di non avere prospettive di futuro: la disoccupazione giovanile in Spagna ha superato il 40% e le ricadute socio-economiche dovute al Covid, a meno che il Next Generation EU non faccia miracoli, non miglioreranno la situazione. Non si perda di vista per di più che si tratta di una generazione che non conosce altro che la crisi, iniziata nell’ormai lontano 2008 e in realtà mai terminata. Che in società sempre più sfilacciate e prive di referenti come in passato alcuni tendano a una sorta di nichilismo non può stupire. Lo rappresentava bene uno striscione visto nei primi giorni delle proteste: “Ci avete insegnato che essere pacifici è inutile”.

In terzo luogo, non si può non tenere conto di un altro elemento. Nell’ottobre del 2019 Barcellona era già stata teatro di proteste simili, protagonosti giovani e finanche giovanissimi, ancora minorenni. In quel momento, la scintilla era stata la condanna dei leader indipendentisti catalani per i fatti del 2017. Quelle di queste settimane non sono proteste prettamente indipendentiste, come un anno e mezzo fa, ma molti dei giovani nelle strade della Ciutat Comtal sono gli stessi. Dei giovani abbagliati durante quasi un decennio dal mito della repubblica catalana, venduto irresponsabilmente dai partiti indipendentisti come un obiettivo raggiungibile facilmente: questi giovani – ma non solo giovani – ora devono gestire la frustrazione della sconfitta dell’ottobre del 2017. Se l’utopia indipendentista si è dimostrata una chimera, con cosa la sostituiranno? L’azione per l’azione? Non è uno scenario da scartare. Non si dimentichi poi che l’autunno del 2019 era stato segnato da proteste un po’ in tutto il mondo: Cile, Ecuador, Algeria, Libano, Hong Kong… Tutto è entrato in stand by per il Covid. Barcellona potrebbe segnare la fine di questa parentesi. Detto questo, non si pensi che qui le proteste siano paragonabili a quelle delle banlieues). I giovani nelle strade, vincolati o vicini alla sinistra anticapitalista indipendentista, sono soprattutto di classe media o alta.

Per ultimo, di fondo c’è anche la crisi della monarchia. Gli scandali di presunta corruzione del re emerito Juan Carlos I, stabilitosi l’estate scora a Abu Dabi, e le difficoltà di Felipe VI nel trovare una nuova fonte di legittimità hanno riportato al centro del dibattito pubblico la querelle monarchia/repubblica. Che Hasél sia stato condannato anche per ingiurie alla Corona e che la Catalogna sia maggioritariamente di simpatie repubblicane è un altro elemento da aggiungere alla lista, insomma.

Le proteste per il caso Hasél potrebbero continuare o scemare nei prossimi giorni. Ma, al di là del caso del rapper catalano, quello che conta davvero e che ci deve preoccupare è che se non si risolvono i problemi di fondo, legati a questioni globali e alla crisi multilivello in cui è entrata la Spagna a partire dal 2010, vedremo presto nuove proteste. E la prossima volta a canalizzarle e cavalcarle potrebbe essere l’estrema destra.

@StevenForti

 

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