Pacifismo 2003-2023: dov’è finita la “seconda potenza mondiale”?

Vent'anni fa milioni di persone in tutto il mondo scrissero una pagina della storia del pacifismo mondiale, scendendo in piazza contro la guerra globale di Bush. Che cosa ne rimane, vent'anni dopo?

Fabrizio Burattini

Giusto vent’anni fa, il 15 febbraio 2003, si svolse in tutto il mondo, in quasi mille città, la prima (e per ora unica) manifestazione “mondiale” della storia dei movimenti, del pacifismo e, per certi versi, della storia dell’umanità. Oltre 100 milioni di persone sfilarono in tutte le piazze del mondo per dire “No alla guerra senza se e senza ma”, per manifestare la loro opposizione intransigente nei confronti della “guerra globale permanente” iniziata dall’allora presidente statunitense George W. Bush nel 1990, con le operazioni Desert Storm e Desert Shield (a cui parteciparono anche militari italiani), e poi proseguita alla fine del 2001 con l’invasione dell’Afghanistan.

Esattamente vent’anni fa, il 15 febbraio 2003, si svolse in tutto il mondo, in quasi mille città, la prima (e per ora unica) manifestazione “mondiale” della storia dei movimenti e, per certi versi, della storia dell’umanità. Oltre 100 milioni di persone sfilarono in tutte le piazze del mondo per dire “No alla guerra senza se e senza ma”, per manifestare la loro opposizione intransigente nei confronti della “guerra globale permanente” iniziata dall’allora presidente statunitense George W. Bush nel 1990, con le operazioni Desert Storm e Desert Shield (a cui parteciparono anche militari italiani), e poi proseguita alla fine del 2001 con l’invasione dell’Afghanistan.

In quella fine di inverno (febbraio 2003), l’amministrazione americana con i suoi alleati stavano preparando la seconda guerra del golfo (che poi effettivamente scoppiò a fine marzo con l’invasione dell’Iraq da parte di una coalizione di “volenterosi” a guida statunitense). Per giustificare quelle guerre vennero utilizzati tutti gli argomenti: liberare il Kuwait, illecitamente invaso dall’Iraq, difendere l’Arabia saudita dalla minaccia irakena, cercare e annientare i responsabili e i mandanti dell’eccidio delle Torri gemelle, combattere il terrorismo, portare la democrazia in Afghanistan, abbattere il regime di Saddam Hussein prima che lui potesse usare le “armi di distruzione di massa” che lo si accusava di detenere, ecc.

Ma nessuno di quei pretesti e di quelle che oggi definiremmo fake news fu in grado di disinnescare il movimento antiguerra. Peraltro, le guerre nei Balcani (nelle quali l’Italia si era impegnata a fondo tradendo in maniera esplicita quanto stabilito dall’articolo 11 della Costituzione) avevano già ampiamente chiarito che la fine della Guerra fredda (1989) non avrebbe affatto aperto la porta verso la “pace universale”.

Così, l’indicazione di massima che l’anno prima in Brasile, a Porto Alegre, aveva adottato il Forum Sociale Mondiale si trasformò in un’iniziativa concreta, e, dunque, nella decisione di organizzare manifestazioni pacifiste contemporanee e sincronizzate in tutto il pianeta. A Roma, in particolare, si svolse la manifestazione nazionale italiana nella quale vennero contati 3 milioni di partecipanti. Il percorso concordato non riuscì a contenere tutti i partecipanti che dovettero invadere tutte le vie della capitale, che restò totalmente bloccata e con milioni di persone che non riuscirono neanche a muoversi dalle piazze di partenza. A Roma arrivarono 27 treni speciali colmi di manifestanti, e migliaia di pullman. Milioni di finestre e di balconi furono addobbati per mesi e mesi con le bandiere arcobaleno.

I “Democratici di Sinistra” e il loro leader Massimo D’Alema, nonostante avessero avuto un ruolo centrale nella partecipazione italiana alle guerre nei Balcani, vista la straordinaria pressione dal basso, decisero di partecipare a quell’enorme evento, che, al contrario, la destra al governo (allora guidata da Berlusconi e Fini) definì “frutto di antiamericanismo ideologico, di pacifismo totalitario, di ignavia di fronte al terrorismo”.

Quella giornata fu così straordinaria da indurre l’editorialista del News York Times Patrick Tyler a scrivere: “Le enormi manifestazioni contro la guerra in tutto il mondo ci ricordano che potrebbero esserci ancora due superpotenze sul pianeta: gli Stati Uniti e l’opinione pubblica mondiale”.

Oggi, ad un anno dall’aggressione e dall’invasione russa dell’Ucraina, ci troviamo ancora una volta di fronte ad una guerra, con le sue atrocità, le sue sofferenze, con le argomentazioni e le fake news (la negazione di una specificità nazionale dell’Ucraina, la difesa dell’autodeterminazione del Donbass, la denazificazione del paese, ecc.), che chi le ha dato inizio accampa. Ci troviamo di fronte alla obiettiva necessità di una risposta dell’opinione pubblica mondiale all’altezza, una risposta che tenti di essere all’altezza di quella che scese in campo venti anni fa…

Ma, occorre riconoscerlo con amarezza ma anche con obiettività, non nulla di tutto ciò si è palesato né, dopo 12 mesi di guerra guerreggiata, sembra profilarsi. Eppure, in Russia, migliaia di giovani, soprattutto di donne hanno sfidato la repressione del regime putiniano per denunciare che quella che l’autocrate del Cremlino si ostina spudoratamente a definire “operazione militare speciale” è in realtà una guerra, una guerra che ha provocato decine di migliaia di morti tra i militari e tra i civili: non ci cimentiamo nella inevitabile guerra di cifre tra le parti, ma tutti, al di là delle cifre sulle vittime, possono constatare l’immensa tragedia in corso. Senza dimenticare il dramma umanitario degli 8 milioni di ucraine e di ucraini che sono scappati dal paese e dei 6 milioni di sfollati interni.

In Italia abbiamo avuto alcune importanti manifestazioni nei primi giorni di guerra, ricordiamo quella del 5 marzo a Roma, una decina di giorni dopo lo scoppio della guerra. E poi quella del 5 novembre scorso quando circa 100.000 persone sfilarono ancora una volta nella capitale. Ma nessuna di quelle iniziative è stata minimamente comparabile a quelle di venti anni fa. Nessuna di esse è stata in grado di mettere in moto un “popolo della pace”, ma neanche di avviarne una ricostruzione. Peraltro, già altre guerre, più recenti di quelle di venti anni fa, ad esempio l’invasione della Libia, la guerra in Siria, il bombardamento dello Yemen, per non parlare della guerra permanente di Israele contro i palestinesi, non sono state accompagnate da alcuna mobilitazione pacifista. Quasi si sia creata anche tra gli attivisti più impegnati una sorta di assuefazione alle bombe e alle loro conseguenze.

E la guerra, da un anno a questa parte, è ancora più vicina, è in Europa e più che mai fa incombere sul pianeta la minaccia di un’escalation generale e nucleare. Dunque, perché quel movimento non c’è e non occupa come sarebbe necessario la scena politica? Naturalmente, come tutto nel nostro Paese, anche il movimento pacifista sconta la crisi della partecipazione politica. E questo non è un fenomeno solo degli ultimissimi tempi.Il movimento  di venti anni fa si collocava in un contesto profondamente segnato dalla crescita del “movimento altermondialista”, il movimento “no-global” che aveva gremito le strade di tante città, da Seattle (novembre 1999) a Genova (luglio 2021), con centinaia di migliaia di giovani che si attivizzavano contro quelle politiche neoliberali che toglievano potere alle persone e alle comunità, che aumentavano le disuguaglianze economiche e sociali, che danneggiavano l’ambiente e accrescevano il divario tra il Nord e il Sud del mondo.

E nello specifico dell’Italia, la mobilitazione pacifista si intrecciava anche con la lotta sindacale condotta dalla Cgil di Sergio Cofferati contro le politiche del secondo governo Berlusconi, lotta che aveva portato anch’essa, giusto nel marzo 2022, milioni di persone in piazza in difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Oggi il contesto è totalmente opposto. L’articolo 18, con le sue garanzie contro i licenziamenti arbitrari non esiste più, e non per responsabilità della destra politica, ma grazie ad una legge (il Jobs Act) voluta e votata dal centrosinistra; i sindacati confederali italiani sembrano paralizzati e rassegnati alle peggiori conseguenze delle politiche neoliberali: il paragone con quel che sta accadendo in questi giorni in Francia contro la riforma previdenziale voluta dal governo Macron è stridente.

Esiste una significativa mobilitazione giovanile di massa contro la devastazione ambientale, raccolta soprattutto attorno a Friday For Future, ma sembra sedimentare poca partecipazione politica e poca attenzione alle tematiche non strettamente connesse con il cambiamento climatico.

All’inizio del 21° secolo, a livello politico esisteva un partito, Rifondazione comunista, che, tra luci ed ombre, offriva una sponda politica al movimento altermondialista e alle mobilitazioni pacifiste. Oggi la rottura tra quel che resta dei movimenti e in particolare le giovani generazioni da un lato e la politica dei partiti dall’altro sembra totalmente consumata. Basta guardare le sconfortanti percentuali di partecipazione alle recentissime elezioni regionali (soprattutto proprio tra i giovani). E poi, occorre riconoscerlo, nella sinistra politica e, dunque, anche tra gli attivisti che potrebbero lavorare per ricostruire un movimento pacifista esiste largamente una lettura falsa o  di quel che è accaduto nel mondo in questi anni e di quel che accade in Ucraina. La fine della guerra fredda è stata letta anche da politologi assai autorevoli a sinistra (ad esempio Toni Negri) alla fine del Novecento come l’inizio dell’era dell’ “impero” (quello statunitense, ovviamente) a cui la fine del mondo “bipolare” spianava la strada. In realtà, la storia successiva ha chiarito come non ci fosse nessun “impero” unico, come la stessa potenza americana uscisse azzoppata dalle numerose sconfitte che aveva accumulato dopo il disastro della sua aggressione al Vietnam, indebolita da una crisi economica che si avvita tra recessioni e “ripresine”, insidiata dall’emergere di nuove potenze economiche e politiche. Una situazione nella quale l’equilibrio bipolare che aveva governato il pianeta per oltre 40 anni (dal 1945 al 1989) veniva sostituito dal caos geopolitico. La sinistra, soprattutto in Italia, è rimasta abbarbicata ad una lettura per la quale tutto quel che avviene nel mondo è in conseguenza dell’iniziativa statunitense. E, dunque, che tutto quel che sembra contrapporsi all’iniziativa statunitense è positivo, proprio perché contrasta o sembra contrastare l’impero. Così, ad esempio, la Cina, con la sua crescita economica che sfida l’economia occidentale, nonostante si basi sul supersfruttamento e sull’oppressione di centinaia di milioni di operai e contadini cinesi, diventa un fattore positivo del “mondo multipolare”. E le ribellioni antiautoritarie, come ad esempio, l’insurrezione dei siriani contro Assad (e in generale le “primavere arabe”) vengono bollate di “filoccidentalismo” e, dunque, i sanguinari bombardamenti russi su Aleppo e su tante altre città siriane in rivolta vengono ritenuti necessari e “salutari”. Fino a guardare con sospetto le lotte delle donne e dei giovani iraniani contro la teocrazia degli ayatollah.
E il bellicismo sciovinista grande russo di Putin è stato più o meno esplicitamente considerato da buona parte della sinistra italiana come un bastone tra le ruote nell’egemonia statunitense: un’inversione della realtà, visto che proprio l’iniziativa dell’autocrate moscovita ha offerto un formidabile assist a Washington per rilanciare la sua centralità e rivivificare il ruolo della NATO.
Con questa visione falsata del mondo, di un mondo che ormai sfugge totalmente ai vecchi schemi interpretativi, la sinistra si trova spiazzata. E non ha fatto nulla per interloquire e intercettare il moto di indignazione che ha scosso l’opinione pubblica di fronte alle notizie e alle immagini delle atrocità dell’invasione russa in Ucraina e ha lasciato che quella indignazione venisse largamente incanalata dalla propaganda atlantista.
E questo non ha solo contribuito ad impedire la creazione di un movimento contro la guerra in Ucraina ma costituisce anche uno degli aspetti della generalizzata incapacità della sinistra radicale italiana di stabilire una “connessione sentimentale” con porzioni significative dell’opinione pubblica. E possiamo constatarlo elezione dopo elezione… Tanto da trovarsi in un’imbarazzante e frequente sintonia con alcuni espliciti avversari dell’indipendenza ucraina ed estimatori di Putin, come Berlusconi.

CREDITO FOTO © ANSA – GIUSEPPE GIGLIA – CD – Roma, 15 febbraio 2003.



Ti è piaciuto questo articolo?

Per continuare a offrirti contenuti di qualità MicroMega ha bisogno del tuo sostegno: DONA ORA.

Altri articoli di Fabrizio Burattini

Il governo teocratico in Iran teme l'avvicinarsi del 16 settembre, quando ricorrerà l'anniversario della morte di Mahsa Jina Amini.

La necessità di dare un giudizio sulla guerra in Ucraina ha scombussolato in pieno anche la sinistra dell’America Latina.

Altri articoli di Società

L’impatto sociale dell’Intelligenza artificiale non è paragonabile a quello avuto da altre grandi innovazioni tecnologiche.

"I ragazzi della Clarée", ultimo libro di Raphaël Krafft, ci racconta una rotta migratoria ancora poco indagata, almeno nei suoi aspetti più umani.

Il diritto all’oblio è sacrosanto, ma l’abuso che gli indagati per mafia ne è pericoloso.