Pacifismo, libertà e nuda vita

Le lotte di liberazione dall’oppressione non sono compatibili con le metodiche “pacifiste” dell’accomodamento a ogni costo fino alla resa incondizionata. Una vita sottomessa e asservita alle logiche del potere è una non-vita.

Fausto Pellecchia

Come ha dichiarato espressamente Tomaso Montanari, una delle voci del pacifismo italiano la cui onestà intellettuale va senz’altro riconosciuta, la guerra tra Russia e Ucraina nei suoi temibili sviluppi e nelle sue imprevedibili accelerazioni, ci pone quotidianamente dinanzi al dilemma circa la priorità della salvaguardia della vita rispetto alla difesa della libertà e dell’autodeterminazione. Il pacifista sostiene che la tutela dell’esistenza naturale è un presupposto basilare irrinunciabile, che precede e fonda altresì ogni valore e ogni aspirazione ideale sul piano etico-politico. Pertanto, ogni strategia che punti sul prolungamento (o peggio, sull’allargamento) delle ostilità è potenzialmente omicida: comporta inevitabilmente un intollerabile aumento di vittime innocenti in entrambi gli schieramenti. La prognosi contabile dei probabili eccidi, delle violenze e delle morti imputabili al prolungamento del conflitto è assolutamente preponderante sulla posta in gioco tra i contendenti, quale che sia il suo significato e le sue implicazioni sul piano etico e politico.

Alla prosecuzione dei combattimenti e all’escalation degli armamenti, è dunque preferibile qualsiasi forma di armistizio e di avvio del negoziato tra le parti: anche quella, estrema, di una resa incondizionata del più debole, soprattutto quando la sproporzione delle forze in campo non lascia dubbi sull’identità del probabile vincitore.

In questo senso, bisogna riconoscere che il mero calcolo dei probabili lutti e delle violenze provocate dalla guerra costituiscono un indiscutibile elemento di dissuasione razionale che mette al riparo il discorso pacifista da ogni possibile contestazione. Da sempre, l’essere-in-guerra significa che un numero indeterminato di persone vedono le loro vite esposte alla distruzione.

Ma la parola “vita” contiene in se stessa un’ambivalenza e un enigma che impongono un’ulteriore riflessione. Nel linguaggio comune, “vita” designa, infatti, non solo e non tanto la mera esistenza biologica, la pura “sussistenza” o “la nuda vita”, quanto piuttosto l’insieme delle abitudini, delle relazioni interpersonali e dei codici di condotta che vivono e si incarnano nel nudo fatto di esistere. Non si vive “in generale”: ogni vita, in ogni suo momento, è intrinsecamente qualificata da un nodo indissolubile di relazioni con altre vite, che definiscono lo “stile di vita” di ciascuno di noi. Si vive veramente solo se e finché siamo in grado di afferrare il senso del vissuto, imprimendo sulla sua mobilissima figura il marchio di una determinata forma-di-vita. Non si vive mai una vita purché sia, ma sempre e soltanto una forma-di-vita, compatibile con le scelte, con i desideri, con le restrizioni che compongono il nostro essere-nel-mondo. Precisamente questa implicazione offre la chiave per comprendere un fatto che si annuncia come uno “scandalo” logico: che ci siano comunque cittadini, persone comuni pronte a rischiare la loro vita biologica, pur di salvare qualcos’altro.

Si tratta di una dimensione che appartiene alla sostanza stessa della loro forma di vita, e che pertanto non è catalogabile tra i puri valori astratti, apparentati alle sovrastrutture e ai travestimenti ideologici destinati a “salvare le apparenze”, bensì tra gli elementi costruttivi di una certa maniera di vivere in cui quei valori si incarnano. Se si distrugge il mio quartiere, se sono obbligato a separarmi dai miei amici e dai miei parenti, sia perché li si costringe all’esilio sia perché mi si costringe alla leva militare per difendere qualcosa che in verità non mi appartiene, se mi si proibisce di esprimermi nella mia lingua, se mi si priva di ciò che costituisce l’asse della mia vita, non ci si limita a minare la mia fede in certi valori sublimi, ma si distrugge la mia vita, la mia vita “normale”, questa vita che io vivo in quanto vive in me. Ed è appunto questo il nucleo vitale della libertà e dell’autodeterminazione che resiste a ogni tentativo di assoggettamento “coloniale”, perché fa tutt’uno con la forma dell’esistenza in cui soltanto mi riconosco come soggetto umano.

Per questo le lotte di liberazione dall’oppressione non sono compatibili con le metodiche “pacifiste” dell’accomodamento a ogni costo fino alla resa incondizionata: una vita sottomessa e asservita alle logiche del potere è una non-vita, una vita intrinsecamente non-pacificata con se stessa. Di questo parlano i versi della celeberrima canzone cubana “Hasta siempre Comandante”, che imparammo a canticchiare negli anni della nostra adolescenza e che non siamo ancora disposti a dimenticare:
«Aprendimos a quererte // desde la historica altura// donde el sol de tu bravura// le puso cerco a la muerte.// Aqui se queda la clara// la entrenable transparencia//de tu querida presencia// Comandante Che Guevara // […] Tu amor revolucionario// te conduce a nueva empresa//donde esperan la firmeza//de tu brazo libertario».

 

(credit foto Photo: Thomas Banneyer/dpa)



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