“Paesaggi rinnovabili”: il passo falso delle associazioni ambientaliste

Questa volta ha ragione Vittorio Sgarbi e questa volta hanno torto le associazioni ambientaliste che, spero inconsapevolmente e gratuitamente, rischiano davvero di favorire speculatori e associazioni a delinquere, ma soprattutto, di contribuire decisamente a distruggere paesaggi e città per le quali si sono battute nei decenni. Proverò a spiegare perché.

Fausto Carmelo Nigrelli

Paesaggi rinnovabili, il documento firmato dalle tre associazioni ambientaliste Fai, Legambiente e WWF, sta generando un acceso dibattito e, in particolare, ha suscitato la reazione – tradizionalmente sopra le righe – del sottosegretario Vittorio Sgarbi. Per evitare di fare come sempre un confronto di tifoserie, è bene leggere il documento che si articola in 12 proposte.

Al netto dell’introduzione ovviamente affollata di parole inevitabili: paesaggio, transizione ecologica, patrimonio comune, discussione pubblica, sostenibilità – e, naturalmente, etica – e della tradizionale retorica ambientalista, il documento contiene alcune affermazioni condivisibili e alcune altre, tutto sommato, banali per chi si occupa di ambiente, di paesaggio e di patrimonio comune.

La questione sta piuttosto in alcuni dei dodici obiettivi indicati. Per quanto riguarda la necessità di restituire dignità al ruolo della pianificazione di cui, finalmente, si accorgono anche le associazioni, la questione è mal posta poiché fa riferimento a una pianificazione di settore, quella paesaggistica, che, di fatto, nega l’assunto che a un territorio deve corrispondere un piano. Che alla complessità del territorio, di cui il paesaggio è l’epifenomeno, debba  corrispondere una visione olistica sia nella fase di conoscenza che in quella di progettazione. Non servono dunque i piani paesaggistici, ma i piani di area vasta che abbiano al loro interno gli aspetti di tutela, riqualificazione, recupero, valorizzazione del paesaggio come elementi strutturanti e integrati e non come vincoli sovraordinati.
Si tratta di una strada tutt’altro che semplice se accade che da un lato la Toscana già dal 2007 ha lavorato all’integrazione tra piano paesaggistico e Piano di Indirizzo Territoriale (PIT) proprio con lo scopo di «mantenere uniti, e di integrare nel modo migliore possibile, i dispositivi di pianificazione del territorio e di pianificazione del paesaggio». Ma dall’altro, con un intervento del governo nazionale, nell’ottobre 2020 viene cassata quella parte della nuova legge sulle norme per il governo del territorio della regione Siciliana, la n. 19 del 13 agosto 2020, che attribuiva al Piano Territoriale Regionale anche il valore di piano paesaggistico, come peraltro prevede il Codice dei beni culturali. Infatti, il comma dove veniva affermato che “il piano territoriale regionale assicura la tutela, la conservazione e la valorizzazione del paesaggio e dell’ambiente assumendo la valenza di piano paesaggistico” è stato cancellato proprio a seguito di un ricorso di Legambiente.
Il documento delle tre associazioni fa riferimento anche ad un altro strumento di pianificazione settoriale, molto più recente, che ancora di più “affetta” il territorio e il paesaggio “alla bisogna”. Si tratta del «piano nazionale straordinario per l’individuazione delle aree idonee per l’installazione e la riqualificazione degli impianti per le energie rinnovabili» auspicato con l’obiettivo 2 del Documento.
Se le “aree idonee” fossero solo quelle nelle quali si prevedono interventi interni agli impianti industriali e agli stabilimenti, tutto sommato ci muoveremmo ancora all’interno di ambiti territoriali già destinati alla produzione. Qualche perplessità in più sarebbe bene avere rispetto alle aree adiacenti alla rete autostradale e quelle nella disponibilità dei gestori di infrastrutture ferroviarie e autostradali che pure fanno parte dell’insieme. Ma se consideriamo l’estensione alle aree “agricole, a prescindere dai vincoli paesaggistici, a condizione che siano racchiuse in un perimetro i cui punti distino non più di 300 metri da zone a destinazione industriale, artigianale e commerciale, compresi i siti di interesse nazionale, nonché le cave e le miniere”, la questione diventa molto più complessa e va necessariamente ricondotta all’interno della pianificazione territoriale generale.
A meno di spacciare il piano nazionale straordinario per le Aree Idonee per quello strumento di pianificazione territoriale considerato indispensabile con l’obiettivo 6. La questione che italicamente costituisce, a mio avviso, il cavallo di Troia è testimoniata dall’uso del concetto di priorità, di tutta una serie di avverbi e locuzioni nei quali si nasconde l’indicibile e dell’accostamento di presunte affermazioni di buon senso.
“La priorità dovrà essere riservata – si legge all’obiettivo 6 – alle grandi zone commerciali, alle aree industriali dismesse, al suolo abbandonato e/o contaminato o compromesso sul piano della fertilità agricola, seguendo il principio di non “occupare” neanche un ettaro di suolo fertile, se non con tecnologie compatibili (agrivoltaico), evitando quindi gli errori del passato. Ad esempio, la collocazione su aree agricole dismesse o su aree libere non destinate all’agricoltura deve tenere conto dell’agro-ecosistema in cui queste sono inserite, per evitare che la naturalità di questi contesti sia indebolita se non compromessa. Inoltre, l’agrivoltaico potrà e dovrà integrare il reddito dell’impresa agricola con la produzione di energia elettrica.” Un testo pieno di talmente tante eccezioni che è facile presagire un assalto all’arma bianca alle aree agricole, con annessa speculazione fondiaria. Secondo l’Istat, le aree industriali dismesse in Italia rappresentano circa il 3% del territorio nazionale, cioè mettono insieme una superficie di 9 mila chilometri quadrati (900 mila ettari) dei quali circa un terzo si trova all’interno di aree a media o elevata urbanizzazione.

Sono i “gusci vuoti, carcasse in memoria del prosperoso Novecento” di cui ha parlato Michele Serra qualche giorno fa a Che tempo che fa a proposito degli 11 mila capannoni abbandonati presenti in Veneto e messi in vendita sul portale Capannoni Off lanciato da Confindustria Veneto per valorizzare gli edifici produttivi abbandonati o in disuso, mettendoli a disposizione di nuovi investitori. Per fare un altro esempio concreto, all’interno dell’area industriale di Siracusa-Augusta, in Sicilia, su circa 3700 ettari di superficie totale, il 58%, pari a oltre 2100 ettari, è non utilizzata, abbandonata, dismessa o sottoutilizzata. Anche solo utilizzando la parte di questa area che non è sottoposta a vincoli sovraordinati, compresi quelli paesaggistici e archeologici, e aggiungendo i tetti dei capannoni esistenti, con l’impianto di campi fotovoltaici si giunge a circa 1000 ettari che, destinati ad accogliere campi fotovoltaici, potrebbero produrre circa 1,7 GW, pari a oltre il 7% del totale prodotto attualmente in Italia da quella fonte di energia e pari a quasi il 4,5% dei 38 GW che devono essere messi in funzione entro il 2030.
Se si estende l’analisi a tutte le aree industriali e artigianali disseminate in Italia e, in particolare, nel Mezzogiorno, non è difficile dimostrare che il fabbisogno può essere raggiunto non dando priorità a queste aree, ma consentendo l’installazione di fotovoltaico esclusivamente all’interno di queste aree di cui si utilizzerebbero circa 250 kmq, meno del 3% del totale delle aree dismesse in Italia. Salvaguardando davvero le aree agricole, senza equilibrismi come quello dell’agrivoltaico (che comunque implica consumo di suolo) o quello, ancora più spericolato, del riferimento alle aree agricole abbandonate e/o contaminate o compromesse.
Altri vantaggi di questa prospettiva sono il fatto che queste aree sono già infrastrutturate e, dunque, non hanno bisogno, per esempio, di nuova viabilità di accesso e che sono in parte già di proprietà pubblica, e, dunque, si evitano infiltrazioni della criminalità organizzata nelle operazioni di compravendita.
Un altro aspetto che mi pare non condivisibile è quello contenuto nell’obiettivo 7 che apre alla collocazione di fotovoltaico sui tetti degli edifici nei centri storici affermando che «anche ribaltare la narrazione dei tetti solari nei centri storici, non escludendo a priori la loro installazione ma favorendola a certe condizioni». Ancora l’apposizione formale di condizioni che, di fatto, cancella le forme di tutela del paesaggio urbano storico che dalla carta di Gubbio in poi fanno parte della cultura italiana. L’assunto che ne sta alla base è paradossalmente di matrice razionalista, cioè basato sulla concezione del suolo come spazio indifferenziato, valutabile solo in base ad aspetti quantitativi e misurabili e non, per esempio, alle relazioni percettive, che fanno di un tetto non una superficie piana visibile solo dagli aerei o dai droni, ma una parte essenziale del paesaggio urbano italiano non solo a Urbino o a Gubbio, ma anche nelle meno note Leonforte o Castelbuono.
Anche in questo caso, se si esaminano le questioni laicamente, senza pregiudizi e liberandosi dalle tifoserie, si può utilizzare lo strumento delle comunità energetiche integrato con alcune riflessioni di matrice urbanistica in ambito internazionale per fornire agli edifici dei centri storici energia da risorse rinnovabili prodotta in aree prossime, ma trasformabili nel rispetto dei valori paesaggistici, ambientali e storici. Tra queste, per esempio, le aree urbanizzate ed edificate dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta in adiacenza e continuità con i tessuti storici. Spesso di pessima qualità architettonica, potrebbero persino avere ricadute positive di natura estetica se si riqualificassero in concomitanza con l’installazione di impianti fotovoltaici.

CREDITI FOTO: Diego Delso/Creative Commons



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