Pangloss nella compressione spazio-temporale: Zielonka e Harvey

In questa puntata “Democrazia Miope” di Jan Zielonka e “La crisi della Modernità” di David Harvey.

Pierfranco Pellizzetti

«Ora che l’Europa dell’Est si è liberata dell’ideologia
straniera del comunismo può tornare al suo vero alveo
storico: il fascismo» [1].
Paul Krugman
«Liberale è un’etichetta venerabile e rispettabile.
Ma è come un soprabito elegante, è più quello che
nasconde che quello che mostra[2]».
Tony Judt

Jan Zielonka, Democrazia miope, Laterza, Roma/Bari 2023
David Harvey, La crisi della Modernità, EST, Milano 1997

Laudatores temporis acti
La lettura dell’ultimo saggio di Jan Zielonka da Czarnowasy, quartiere della contea polacca di Opole, ossia questo “liberale” (Ralf Dahrendorf fellow al St. Antony’s College) venuto dall’Est per insegnare a Ca’ Foscari, mi ha riportato alla mente una battuta di mezzo secolo fa, che mi fece un brillante e perfido keynesiano di sinistra, l’economista Paolo Leon: “la rovina del mondo sono i polacchi”. Lui si riferiva in particolare a Zbigniew Brzezinski, il “falco da Guerra Fredda” allora consigliere per la sicurezza del presidente Jimmy Carter; poi servito a dovere dall’altrettanto perfido Fortebraccio, corsivista de l’Unità: “Zbigniew Brzezinski non è un politologo, è uno che si sveglia ogni mattina e si chiede: come diavolo mi chiamo?”. Quella Polonia che nella breve primavera al tempo delle rivoluzioni di velluto presentò il volto progressista anti-totalitario degli allievi di Leszek Kolakowsky – da Adam Michnik a Jacek Kuron – per poi rifluire nelle pulsioni controriformiste del cattolicesimo oscurantista “da anno mille” di papa Woitjla e di Radio Maria, dell’egemonia reazionaria impersonata dai fratelli Kaczyński. Dunque – come scrisse Tony Judt – “le caratteristiche profondamente radicate nella secolare cultura polacca: clericalismo, sciovinismo, antisemitismo”[4]. Per cui perfino il proclamato liberalismo del polacco Zielonka diventa l’argomentazione retroversa, guardiana dell’ordine vigente: una teoria della libertà ridotta a una sorta di darwinismo a livello sociale, che elegge la prevalenza del più forte quale “migliore dei mondi possibili”; alla Pangloss, il tutore di Candide, macchiettizzazione di Voltaire dell’erudito servo volontario dei potenti. Attualizzato in questo propugnatore di un sedicente “moderatismo anestetico” in cui Libertà è sinonimo di Proprietà; strumento dell’establishment al fine di esorcizzare la minaccia rappresentata dal conflitto sociale. Il tradimento consumato nei confronti di una tradizione – il Liberalismo rettamente inteso – svilendo in Nouveau Régime della Restaurazione la critica di quei rapporti di dominio su cui fondava la propria legittimazione l’Ancien Régime; abbattuti dalle rivoluzioni che vennero definite – appunto – “liberali”. Le elaborazioni della generazione post-hobbesiana – come indicava brillantemente Stephen Holmes – per cui, se Thomas Hobbes delegò al Leviatano (metafora dell’Assolutismo) il compito di tenere a bada la ferinità umana, i suoi discendenti costituzionalisti liberali estesero il controllo al Leviatano stesso, attraverso il bilanciamento dei poteri: “la democrazia liberale tende a collocare i responsabili delle decisioni in posizioni facilmente ispezionabili”[4].
Quindi, se per il progressismo riluttante del maestro (Ralf Dahrendorf) il Liberalismo si riassume nel prudente binomio “misoginia più speranza”[5], per il suo successore e presunto erede – che in un saggio del 2018 gli si rivolgeva con l’espediente vagamente macabro della lettera aperta all’ormai defunto – la veneranda tradizione si riduce a una sviolinata panglossiana: “il confronto tra noi e i nostri oppositori anti-liberali sembra chiaro come il cristallo: noi siamo razionali, loro sono illogici; noi diciamo la verità, loro dicono falsità; noi offriamo progresso, loro offrono distruzione; noi promuoviamo libertà, loro cercano dominio; noi crediamo nelle leggi e nelle istituzioni, loro sono impegnati a disfarsene”[6]. Boom! Ma poi il pallone si sgonfia quando l’epinicio cerca di dare un volto ai propri eroi: “salverà Angela Merkel l’Europa liberale? Sono Matteo Renzi o Emmanuel Macron le persone giuste per guidare i liberali di centro-sinistra?”[7]. Davvero un bel trio di gattemorte.

Il Liberalismo sfidato dalla comprensione del mondo
Il liberale di papà (o liberale della cattedra?) Zielonka getta la maschera quando deve puntare il dito sui responsabili dell’inarrestabile declino della democrazia liberale a cui stiamo assistendo. Di cui – in apparenza – anche lui sembra consapevole. Difatti scrive nell’incipit del suo ultimo saggio: “non è necessario credere ai sondaggi per convincersi che le prospettive per il futuro sono abbastanza fosche. […] Il degrado ambientale va avanti incurante dei summit sul cambiamento climatico. L’ineguaglianza sociale ha raggiunto livelli senza precedenti nonostante le reiterate promesse di interventi destinati a ridurla. Il capitalismo passa da una crisi all’altra a spese delle famiglie comuni” (J. Z. pag. 4). Ma quando si tratta di indicare le cause di una tale sciagura, l’unica preoccupazione del dahrendorfiano light è quella di non correre rischi; di non toccare nervi sensibili nel garden club dei potenti. Imboccando la via sicura della fuga nel generico. Mettendo le mani avanti presentando il suo saggio in questione: “il turbocapitalismo – accelerato, irresponsabile e sbilanciato – viene spesso accusato di essere ciò che ci priverà del nostro futuro. Tuttavia, questo libro si concentrerà non sul capitalismo, bensì sulla democrazia” (J. Z. pag. 5). Un po’ come dire “parliamo d’altro”. Cui fa seguito la gran pensata: “il futuro è sempre più cupo perché la politica democratica non si presta a maneggiare il tempo e lo spazio in modo tale da proteggere gli interessi delle generazioni future e da travalicare i confini nazionali” (J. Z. pag. 6). E qui giungiamo a quell’accelerazione del tempo e dello spazio avvenuta grazie al paradigma tecno-economico che alimenta da alcuni decenni i processi di accumulazione della ricchezza; che prende nome di “compressione spazio-temporale” come superamento delle barriere, investendo – al tempo stesso – i ritmi della vita come le modalità con cui rappresentiamo il mondo a noi stessi. “Mentre lo spazio sembra rimpicciolirsi fino a diventare un ‘villaggio globale’ delle telecomunicazioni e una ‘terra navicella’ di interdipendenze economiche ed ecologiche” – scrive David Harvey – “gli orizzonti temporali si accorciano fino al punto in cui il presente è tutto ciò che c’è (il mondo dello schizofrenico)” (D. H. pag. 295). Fenomeno accelerativo che – tra l’altro – ha creato quella situazione che manda in tilt la democrazia come l’abbiamo conosciuta, che si traduce nell’emergenzialità; quando saltano i contrappesi del “modello Montesquieu” in cui la presunta efficienza dell’esecutivo si scrolla di dosso il ruolo degli altri due poteri. Come ammette pure lo stesso Zelonca: “durante una crisi c’è poco tempo per lunghe ricerche e deliberazioni, sia parlamentari che giudiziarie” (J. Z. pag. 76). Quindi la marginalizzazione del potere legislativo impegnato a rivedere le leggi esistenti e del giudiziario come correttore degli abusi di potere. Con l’inevitabile effetto della priorità data alla decisione velocizzata di rendere illusoria la partecipazione democratica e tendere all’autoritarismo pseudo-tecnocratico. Ma qui il Nostro polacco si rende conto di essersi spinto troppo oltre e tira il freno aggrappandosi all’immancabile buon senso: “ha poco senso parlare di scelta tra accelerazione e decelerazione, poiché vi sono contesti nei quali l’accelerazione è essenziale” (J. Z. pag. 80). E poi – a suo dire incombe il rischio della stagnazione. Se poi qualcuno si azzarda a tirare in ballo la globalizzazione finanziaria come matrice della suddetta compressione, la reazione è ancora una volta ponziopilatesca: “mi oppongo alle politiche attuali di ripristino dei confini, motivate da nativismo e xenofobia” (J. Z. pag. 178). Un colpo al cerchio e uno alla botte.

C’est la faute à…
Insomma, invece di colpire pratiche concrete e interessi materiali ci concentriamo su astrazioni innocue quanto inafferrabili, caricandole di ogni responsabilità. Trasformandoli in capri espiatori. Se i burocrati della II Internazionale, di fronte alle aporie della dottrina, si salvavano l’anima attribuendone a Engels le zoppie teoriche, così per il buon Zelonka la faute graverebbe sulla dimensione spaziotemporale. E così nessuno si fa male. Eccetto le vittime di concretissime politiche, situate e temporizzate ma non diagnosticate inseguendo le nuvole. Nel caso, inseguendo enti oggetto di un’antropomorfizzazione che richiama l’ancestrale pensiero magico. Pre-moderno. Difatti – come ci ricorda il fisico del CERN Guido Tonelli – secondo Whilem von Leibniz “il tempo raffigura l’ordine delle successioni, mentre lo spazio rappresenta l’ordine della coesistenza; e non possono essere concepiti fuori dalla materia, degli enti del mondo. Una posizione contestata da Immanuel Kant, che invece colloca spazio e tempo tra gli ‘a priori’ della nostra mente”[8]. Oggi riteniamo che tempo e spazio sono parametri determinanti dell’esistenza del mondo e forme basilari dell’esistenza umana. Lo spazio viene concepito come una forma tridimensionale, geometrica, uniformemente estesa, suscettibile di essere divisa in parti commensurabili. Il tempo è inteso come pura durata, successione irreversibile dello scorrere di avvenimenti dal passato al futuro attraverso il presente. Dunque dimensioni attraverso le quali concettualizziamo l’esistenza umana, tanto nella sua espressione come struttura sociale e come processi biologici. Ma tutto questo che cosa ha da vedere riguardo alle matrici della catastrofe ambientale, socio-politica ed economica in cui ormai ci stiamo inoltrando? Nulla. Ma così non è per il nostro autore, che ci propone una lettura neutrale di uno dei fenomeni più divisivi nell’attuale fase storica: l’interrompersi dei processi inclusivi a seguito di automatismi inintenzionali. Infatti secondo il Nostro “la distanza che separa coloro che sanno come utilizzare la velocità da coloro che lo ignorano potrebbe diventare in quest’ottica più importante di demarcazioni sociali tradizionali come il genere, la razza o la classe” (J. Z. pag. 65). Non lo sfiora il pensiero che i crescenti processi di marginalizzazione, a partire dall’esclusione di importanti fasce di salariati attraverso il decentramento produttivo e l’’automatizzazione informatizzata, sono strategie lucidamente perseguite dalla restaurazione plutocratica per far saltare il dente d’arresto del comando capitalistico. Rappresentato questo dalla presenza nei luoghi di produzione del lavoro organizzato, come soggetto politico antagonistico. Quanto ribadisce il sociologo del Max Plank Wolfgang Streek secondo cui “il matrimonio riparatore del dopoguerra tra capitalismo e democrazia è giunto al capolinea”[9]. Ma Zielonka tira dritto. Indifferente alle retrostanti ragioni politiche labour saving di precarizzazione (abbellite come flessibilità), si avventura nel sostenerne la naturalità. Per cui “i lavori legati a luoghi e tempi fissi appaiono sempre più come i relitti di forme di capitalismo superato” (J. Z. pag. 72). Di cui gli imprenditori sarebbero gli osservatori neutrali: “hanno semplicemente adattato le loro aziende al cambiamento tecnologico, alla competizione transnazionale e alle trasformazioni del valore, dei servizi e del lavoro” (J. Z. pag.71). Come se il modo di produrre post-industriale fosse calato dal cielo e non la modalità organizzativa per individualizzare il lavoro e stroncarne la capacità rivendicativa di soggetto che riequilibra con il numero dei molti la disparità in quanto a potere dei pochi. Un passaggio decisivo per la denuncia del compromesso keynesiano-fordista che creò le condizioni di democrazia inclusiva attraverso lo scambio tra accettazione della logica capitalistica e tutela dei diritti del lavoro; occupazione in primis. Mentre ora le tecnologie della comunicazione hanno creato un impoverimento dell’intelligenza collettiva e nell’era della post-verità prendono campo le teorie consulenziali illusionistiche dell’healing organisation: risvegliare la coscienza del business per salvare il mondo e la felicità dei dipendenti come priorità aziendale[10].

Compressione spazio-temporale e democrazia illiberale
Comunque, il nostro Pangloss in versione cerchiobottista, pur criticando l’attuale situazione del lavoro in bilico tra sfruttamento ed esclusione, si para le terga osservando che “non dovremmo neppure idealizzare il sistema precedente. […] Per abbandonare qualsiasi nostalgia per il vecchio sistema, con il suo ordine fatto di prevedibilità e monotonia, possiamo guardare il capolavoro di Charlie Chaplin, Tempi moderni, girato nel 1936, con la sua rappresentazione dell’assurdità deprimente del sistema di lavoro meccanico” (J. Z. pag. 74). Come se nel cinquantennio successivo le lotte del lavoro non avessero consentito cambiamenti decisivi e conquiste in termini di diritti. Ossia lo scatenamento – di cui ci parla proprio Harvey – della contromossa del capitale; ammesso dal decano dei plutocrati mondiali, Warren Buffett. Il quale dichiara “c’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra. E stiamo vincendola”[11].
Sia chiaro, anche in questa nuova stagione del conflitto sociale, tempo e spazio sono campi decisivi della decisione, ma come scenario di scelte esclusivamente umane. Fernand Braudel ha sempre sostenuto come un’ovvietà che “ogni realtà sociale è per prima cosa, spazio”[12]. E la cultura occidentale ne è più o meno consapevole dall’avvento della Prima Modernità. Come ci spiegava David Harvey nel suo saggio, ormai divenuto un classico sulla percezione del cambiamento: “la rivoluzione rinascimentale nei concetti di spazio e tempo gettò, sotto molti aspetti, le basi concettuali del progetto illuministico. Secondo quella che molti ora considerano la prima grande ondata del pensiero modernista, il controllo della natura era la condizione necessaria dell’emancipazione umana. Perché lo spazio è un ‘fatto’ di natura, ciò significava che la conquista e l’ordinamento razionale dello spazio diventavano parte integrante del progetto di modernizzazione. La differenza stavolta era che lo spazio e il tempo dovevano essere organizzati non per riflettere la gloria di Dio, ma per celebrare e facilitare la liberazione dell’Uomo” (D. H. pag. 305). Tesi preceduta da una premessa: “lo sviluppo di forme razionali di organizzazione sociale e di modi di pensiero razionali prometteva la liberazione dall’irrazionalità del mito, della religione, della superstizione, la liberazione dall’uso arbitrario del potere e dal lato oscuro della nostra natura umana” (D.H. pag. 26).
Tutto induce a pensare che – al di là della prosa consolatoria di Jan Zelonka – ormai siamo all’esaurimento di quanto Jürgen Habermas chiamava “il progetto della Modernità” emerso nel XVIII secolo. E il terreno di scontro per la difesa della liberal-democrazia è quello delle idee e delle scelte di noi umani. Nel frattempo, nei laboratori contro-riformisti dell’Est europeo si teorizza ciò che parrebbe soltanto un ossimoro; l’inquietante democrazia “illiberale”. Nel discredito ormai accertato dell’ingannevole interclassismo liberaloide. Intendendo con “liberaloide” l’atteggiamento giustificazionista che fa ricorso a una lunga tradizione argomentativa del finalismo benevolo, che potremmo far iniziare con l’apologia dell’inintenzionale nella secentesca Favola delle api di Mandeville, proseguendo nella teorizzazione dell’eterogenesi dei fini attribuita a fine Settecento da Adam Smith a panettieri, macellai e birrai, per arrivare gli odierni andamenti rizomatici (ossia, in questo caso, non progettati) delle organizzazioni a rete; richiamate dalla metafora (nell’originale altamente intenzionale perché progettata) del networking alla Manuel Castells. Il tutto per sostenere panglossianamente che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Tanto da far concludere a Jan Zelonka il proprio saggio con la citazione anestetica di un suo conterraneo, lo scrittore e regista polacco, nato lituano, Tadeus Konwicki: “il mondo non può morire. Già a molte generazioni è sembrato che il loro mondo stesse morendo. Ma era solo il loro mondo che moriv”». Sicché, in questo lungo interregno, questa interminabile transizione verso non sappiamo che cosa, a che pro’ esercitare la critica? Al limite, perché preoccuparci, visto che nella cabina di comando (o nel garden club dei potenti) c’è chi pensa per noi? Responsabilmente. Nonostante e alla faccia dei mille disastri incombenti; e di quelli che ci sono già piombati addosso.

[1] Paul Krugman, “Se l’America perdesse la libertà”, la Repubblica 29 agosto 2018

[2] Tony Judt, Guasto è il mondo, Laterza Roma/Bari 2011 pag. 5

[3] Tony Judt, L’età dell’oblio, Laterza, Roma/Bari 2011 pag. 128

[4] Stephen Holmes, Passioni e vincoli, Edizioni di Comunità, Torino 1998 pag. 8

[5] Ralf Dahrendorf, La libertà che cambia, Laterza, Roma/Bari 1981 pag. 55

[6] Jan Zielonka, Contro-rivoluzione, Laterza, Roma/Bari 2018 pag. 24

[7] Ivi pag. 154

[8] Guido Tonelli, Tempo, Feltrinelli, Milano 2021 pag. 60

[9] Wolfgang Streeck, Come finirà il capitalismo? Meltemi, Sesto San Giovanni 2021 pag. 37

[10] Raj Sisodia e Michael J. Gelb, Healing organisation, Angeli, Milano 2019

[11] Citato in David Harvey, L’enigma del capitale, Feltrinelli, Milano 2011 pag. 261

[12] Fernand Braudel, prefazione a Immanuel Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia, (Vol. I), Il Mulino, Bologna 1974 pag.IX



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