Quelle assenze in aula feriscono la democrazia

Una significativa minoranza di parlamentari non si è presentata in Parlamento per ascoltare gli interventi di Zelensky e Draghi sulla guerra in Ucraina. Tra loro, spicca il leghista Simone Pillon.

Mauro Barberis

C’erano poche ragioni per non esserci, tante per esserci e una per la quale non si poteva assolutamente mancare, al discorso di meno di un quarto d’ora che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha tenuto in video-collegamento al Parlamento italiano riunito in seduta comune. Eppure, una significativa minoranza di parlamentari – c’è chi ne ha contato almeno 300 – non s’è presentata: alcuni argomentando il dissenso e dissociandosi dal proprio partito, come il presidente della Commissione Esteri, il grillino Vito Petrocelli, altri, come il leghista Simone Pillon, adducendo precedenti impegni ma adducendo prima ragioni “pacifiste”, altri, i più, semplicemente disertando la seduta, Cominciamo a vedere le loro ragioni: le ragioni per non esserci.

Mancavano tanti ex grillini, per i quali l’intervento del leader ucraino sarebbe stato «una forzatura che non cambia di una virgola lo stato delle cose»: un’operazione di propaganda per ottenere interventi bellici come la no fly zone o l’invio di truppe che innescherebbero la terza guerra mondiale. Come se tutti i governi occidentali, italiano compreso, non avessero già escluso interventi del genere, e lo stesso Zelensky non avesse ormai rinunciato alla stessa richiesta di aderire alla Nato. È probabile che entro lo stesso M5S, ufficialmente presente, si preparino proposte contrarie all’aumento delle spese militari: un problema in più per Draghi, parso più schierato con il resto dell’Occidente che lo stesso presidente ucraino. Fra i boicottatori della seduta non è mancato neppure chi ha osservato che si sarebbe dovuto «sentire le due campane»: come se fosse possibile mettere sullo stesso piano un presidente democratico, che parla da Kiev bombardata, e l’autocrate che ha ordinato i bombardamenti.

Nessuno dei nostalgici del governo giallo-verde, M5S-Lega, ha peraltro usato un’altra possibile critica: l’artificio retorico dell’ex attore Zelensky di usare, per ognuno degli uditori cui s’è rivolto, i paragoni più sensibili, persino la Shoah che ha indignato qualche israeliano. Ma si capisce: i populisti italiani usano trucchi simili, e segretamente invidiano l’ex-attore che, a differenza di loro, s’è rivelato uno statista. Nel caso italiano ci si aspettava un appello alla Resistenza, ma l’argomento più toccante è stato l’accenno a Mariupol: «una città grande come Genova. Immaginate la vostra Genova distrutta».

C’era invece, fra le tante ragioni per esserci – la solidarietà agli aggrediti, il ricordo delle nostre guerre, dei nostri bombardamenti, delle nostre deportazioni, la solidarietà per i milioni di profughi, accolti anche dai governi del gruppo di Visegrad che pochi mesi prima avevano respinto i disperati extraeuropei – una davvero macroscopica. Da Berlusconi a Salvini, l’Italia è stato il paese dell’Unione Europea che ha sempre tenuto l’atteggiamento più ambiguo nei confronti della Russia di Putin, divenendo il più dipendente dal gas russo. Ecco, questa era un’occasione importante per escludere qualsiasi connivenza.

Ultima, ma non meno importante, c’era una ragione per la quale i parlamentari di un paese democratico non potevano proprio mancare: la democrazia stessa. Perché rispetto alla violazione sistematica da parte russa del diritto internazionale, la persecuzione del dissenso, ormai diviso fra prigione ed esilio, il controllo militare dei media, l’indottrinamento delle masse tramite la televisione, le scuole o le manifestazioni di massa come nei peggiori totalitarismi novecenteschi, con i parenti russi e ucraini che si telefonano e non riconoscono le rispettive versioni dei fatti, nessuna neutralità è possibile. L’attacco di Putin è alla stessa democrazia: e chi finge di non capirlo rinnega la propria missione di parlamentare.

ANSA/ Roberto Monaldo / LaPresse POOL



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