Ma il Parlamento italiano sarà il posto giusto per fare una legge sui diritti LGBT?

Invece che camera di compensazione dei conflitti sociali, il Parlamento italiano è divenuto un organo della società dello spettacolo. Un posto dove fare piazzate sotto l’occhio delle telecamere, proseguendo la campagna elettorale permanente.

Mauro Barberis

Sulla questione della laicità e dei diritti LGBT, oggi al centro della politica europea, il premier Draghi ha fornito l’unica risposta che uno statista poteva fornire: non è materia di trattative fra Italia e Vaticano, né di attività di governo, ma è questione di competenza del Parlamento. Il problema, però, è sempre quello: il nostro supremo organo legislativo. Certo, una legge su quel tema sarebbe stata criticata anche se fosse stata perfetta: basta vedere l’assenso di Salvini per la legge ungherese anti-LGBT, oggetto della riprovazione europea. Ma su due cose i critici hanno ragione: il disegno di legge Zan, nonostante i suoi contenuti di civiltà, è scritto male e, peggio ancora, è una legge-manifesto, rappresentativa della scarsa qualità della nostra legislazione recente.

C’è voluto l’emendamento proposto dal liberale Enrico Costa, oggi con Calenda, domani chissà, per introdurre nella legge la precisazione dell’art. 4: la legge non si applica alle mere opinioni, che non producano concrete violenze e discriminazioni, sicché uno può manifestare omofobia sinché vuole purché non faccia del male a nessuno. Precisazione indispensabile perché – con un altro difetto tipico delle leggi italiane – il ddl Zan integra due articoli della legge Mancino del 1994: che, a sua volta, potrebbe essere interpretata nel senso di punire la mera propaganda.

Infine, il ddl Zan è una legge-manifesto, che istituisce l’ennesima giornata nazionale, stavolta non per ricordare eventi come l’Olocausto e le Foibe, ma per deprecare una lunga serie di fobie, alcune delle quali mai sperimentate da un essere umano. Legge-manifesto più imbarazzante, per un liberale, di quella pubblicità televisiva in cui il padre saluta compiaciuto fidanzati omo avvolti nella bandiera tricolore: quando invece l’outing, per molti, è ancora causa di autentici traumi.

Del resto, che la nostra legislazione recente sia mediamente tremenda, anche quando è animata dalle migliori intenzioni, è ormai un luogo comune, condiviso da chi insegna drafting legislativola materia più inutile del mondo, a giudicare dai risultati – con chiunque provi a consultare una legge senza l’assistenza di un avvocato. L’unico lettore, quest’ultimo, cui il legislatore apparentemente si rivolge, e anche l’unico che ci guadagna. Questo avviene soprattutto in materie eticamente sensibili come i diritti LGBT, come constatato dalla Corte costituzionale.

Ancora nella recente decisione sulla diffamazione tramite media, come nelle precedenti sentenze sul suicidio assistito e sull’ergastolo ostativo, la Corte ha constatato l’inutilità di dare un anno di tempo al Parlamento per riformare leggi incostituzionali: il Parlamento non lo fa, non ci riesce, forse neppure gli interessa. Altro che government by discussion, come predicava John Stuart Mill: se sei interessato ai tuoi diritti civili, ormai, ti conviene rivolgerti ai giudici – unica categoria, oggi, più impopolare dei parlamentari – sperando così di arrivare alla Corte costituzionale o alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Perché il Parlamento, apparentemente, è divenuto l’ultimo posto al mondo dove fare leggi sui diritti? Forse perché, invece che la camera di compensazione dei conflitti sociali, è divenuto un organo della società dello spettacolo. Un posto dove fare piazzate sotto l’occhio delle telecamere, proseguendo la campagna elettorale permanente. Rimedi? Cambiare i criteri di selezione della classe politica: vecchio discorso anche questo, ma da ripetere come un mantra.

 

(foto credit Edoardo Simon, CC BY-SA 4.0 via Wikimedia Commons)



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