Parlare di scuola al pranzo della domenica

“Edu-Action. 70 tesi su come e perché cambiare i modelli educativi nell’era digitale” di Andrea Balzola (Meltemi) ha il merito di ricordarci che il “problema principale” della scuola non esiste: ci sono tante criticità, come riflesso di una società problematica.

Carlo Scognamiglio

Tra i possibili argomenti di conversazione al pranzo della domenica, si può prevedere senz’altro il “problema della scuola”. Si tratta di un argomento evergreen, a cui tutti pensano di poter agevolmente aver accesso, perché almeno una volta nella vita sono stati seduti in un banco, o sono quotidianamente oppressi dalle chat dei genitori relativi alle classi frequentate dai propri figli. Niente di male se in un paese democratico ci si confronta sulle politiche educative. Anzi: che i temi legati all’istruzione diventino oggetto di confronto pubblico è ciò che auspicano tutti coloro che di scuola si interessano e su cui provano a lavorare in modo critico.

Ciò che colpisce, tuttavia, è l’assoluta continuità tra la conversazione comune e l’approccio al problema di molti intellettuali, autrici e autori di libri che l’editoria italiana propone puntualmente sul mercato: discorsi per lo più generici, ricchi di ovvietà – talmente ovvie da essere sbagliate – e segnati da quel carattere tipico della discussione a tavola con amici e parenti: ciascuno pensa di avere la “chiave” per individuare il “principale problema” della scuola, e magari anche per sanarlo. Tra i più recenti e poco originali ritrovati dei maître à penser nostrani per risollevare le sorti della pubblica istruzione, è il sentimento nostalgico per la scuola del tempo che fu, quella bella istituzione autoritaria, classista, abilista di oltre mezzo secolo fa, di cui qualcuno avverte terribilmente la mancanza. È la sindrome della predella, ahinoi ancora abbastanza diffusa.

A onor del vero, tuttavia, al di là delle pubblicazioni tecniche e specialistiche, qualche libro dedicato alla scuola che ancora riesce ad avere un po’ di respiro culturale e che non si attesti al livello delle risse da portineria, ogni tanto spunta fuori. Ne è un esempio il lavoro di Andrea Balzola, pubblicato da Meltemi, e intitolato: Edu-Action. 70 tesi su come e perché cambiare i modelli educativi nell’era digitale. Il titolo in realtà è un po’ fuorviante, perché il riferimento all’era digitale riguarda solo in parte le riflessioni dell’autore proposte nel volume, che conserva forse il difetto di pretendere troppo (settanta tesi per un solo libro in effetti sono abbondanti, per poterle sviluppare e discutere adeguatamente), ma almeno presenta uno sguardo competente, ragionevole e dialettico, il che – di questi tempi – è veramente un requisito raro e pregiato. Un requisito che, dice bene lo stesso Balzola, dovrebbe caratterizzare il momento educativo in quanto tale; ricordando il pensiero di Morin, Hegel e Adorno, l’autore sottolinea l’importanza della dimensione chiaroscurale della realtà, e suggerisce di diffidare da ogni prospettiva unilaterale. La contraddizione è vita, l’opposizione è dinamicità, l’educazione è dialogo. Il conformismo, invece, è un problema piuttosto serio.

Alcune osservazioni di Balzola possono inizialmente infastidire il lettore, in quanto ormai entrate in una sorta di ritornello canticchiato da chiunque, e fatto risuonare anche nei documenti istituzionali: “molto spesso l’esperienza scolastica, invece di incentivare l’istinto naturale all’apprendimento, invece di valorizzare le potenzialità soggettive e le facoltà creative guidando una crescita integrata che unisca coscienza mentale, emotiva e corporea, spegne le motivazioni formative”… il che sembrerebbe una legittimazione di tutti i più recenti interventi con cui le politiche ministeriali sono entrate a gamba tesa sulla didattica, spesso con grande superficialità. Ma non è così, perché la frase di Balzola continua, chiarendo bene in quale modo vengono effettivamente spente quelle motivazioni: “conformandole a un unico modello astratto e razionale di ‘valutazione’, da testare con discutibilissimi ‘sistemi di valutazione standardizzata’” (p.24). E qui, senza entrare troppo nel merito del problema generale della valutazione nel sistema scolastico, viene posto un primo punto utile. Là dove tutti vedono elementi di oggettività, trasparenza, dato inoppugnabile, elemento di confronto e comparazione tra le scuole, Balzola coglie subito l’inadeguatezza e il pericolo. Esiste infatti una distorsione forte del sistema di funzionamento delle istituzioni scolastiche, dovuta ai sistemi di valutazione, a tutti i livelli: dalla valutazione degli apprendimenti a quella di Istituto. Pur riconoscendo l’importanza della valenza certificativa dei processi valutativi, non vi è dubbio che uno degli elementi più controversi e occultamente perniciosi per la nostra vita scolastica è la sub-cultura della valutazione di cui si sono inebriati alcuni burocrati, dirigenti e docenti, e che andrebbe sicuramente messa a terra, analizzata e rovesciata nella sua portata omologante, e dunque discriminatoria.

Il problema del conformismo, da sempre strettamente connesso ai sistemi educativi, è intravisto da Balzola anche più avanti, nel testo, quando finalmente viene posto il tema delle nuove tecnologie, e del pericolo insito in un utilizzo poco consapevole delle applicazioni. La tenace resistenza di parte del corpo docente alla conoscenza e allo studio delle nuove tecnologie sta accompagnando purtroppo un’egemonia culturale radicale delle multinazionali del software e del consumo di massa, sui processi di comunicazione digitale. E allora ha ragione Balzola quando scrive che gli studenti-esecutori, all’opera con la creazione di materiali multimediali (dalle foto alle slide) apparentemente tutti uguali, non sono registi ma attori di questo film, le cui parti in commedia sono scritte da altri: “i veri autori sono il dispositivo, il software, l’applicazione. In assenza di un’alfabetizzazione tecnologica precoce, che valorizzi gli aspetti espressivi e creativi, la diffusione della tecnologia favorisce il trionfo dello stereotipo, il dominio della riproduzione sull’ideazione, il condizionamento delle strategie commerciali, l’omologazione culturale ed estetica pilotata mediante gli strumenti apparentemente neutri dei software, degli standard tecnici e dei format comunicativi mediatici” (p. 83).

Nel libro non mancano ulteriori suggestioni, che meriterebbero approfondimenti specifici, come l’idea di introdurre anche in Italia – come già accade in altri paesi europei – il cosiddetto service learning: di fatto una declinazione dell’alternanza scuola-lavoro sulla pratica di esperienze di volontariato sociale. Una variante interessante concettualmente, ma che andrebbe discussa, a cominciare dall’ossimorica situazione concettuale di un volontariato obbligatorio. Oppure, in quello che a me pare il punto più controverso del volume, l’esigenza di aprire una riflessione nuova sul concetto di “libro di testo”. Troppo ingenerosa la critica di Balzola allo strumento, così come lo conosciamo oggi. Più articolata su questo punto la posizione di Gino Roncaglia, che rivendica ruolo e importanza del manuale, pur ricamando importanti considerazioni su questo storico protagonista della storia della scuola.

Ma le settanta tesi di Balzola, nonostante la difficoltà di essere contenute esaustivamente in un volume di duecento pagine, hanno sicuramente un merito inconfutabile, quello di ricordarci – anche la domenica a pranzo – che il “problema principale” della scuola non esiste: ci sono tante criticità, come riflesso di una società problematica. Facciamo dunque in modo che alla nostra tavola, con il nuovo anno, non ci sia posto per le brutali semplificazioni, che in ambito educativo fanno più danni che altrove.



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