Rinnovamento PD? Non ci sono margini di manovra

Il dibattito interno al Partito democratico è tra lo sterile e il grottesco. Quello che emerge è l’impossibilità di riformare qualcosa che di fatto non esiste più.

Pierfranco Pellizzetti

Il dibattito sulla rifondazione del PD esprime un tasso di grottesco perfino superiore a quello raggiunto nelle puntate precedenti, ovviamente inconcludenti quanto l’attuale; nell’apoteosi del luogo comune: “definizione dell’identità”, “progetto”, “mettersi in ascolto”, “dare risposte ai cittadini”. E via andando col repertorio politichese-elusivo di cui – in questa fase successiva al naufragio elettorale del 25 settembre – il suo migliore interprete risulta il governatore emiliano Stefano Bonaccini, che lo ripropone con vivo sprezzo del ridicolo avendo come scopo non parlare al corpo elettorale, bensì rassicurare le tribù che popolano i circuiti interni del partito: se lo voteranno segretario, la garanzia di un cambiamento di facciata senza toccare logiche e pratiche consolidate.

Difatti, il succitato dibattito è pronto ad affrontare i massimi sistemi (oscar del tragicomico, lo studente fuori corso Andrea Orlando, in posizionamento labiale a sinistra, che esce dalla seduta di autocoscienza di dieci ore indetta da Enrico Letta dichiarando ai telegiornali l’urgenza di riflettere sull’attuale fase del capitalismo), persino alcuni cenni sull’universo, ma guardandosi bene dal dire la verità. Ossia che il PD non è riformabile stante il livello di cacicchismo presente nel suo DNA: non essere mai stato né “partito” né – tantomeno – “democratico”, quanto un conglomerato di cacicchi, di notabili capicorrente impegnati a presidiare il proprio tesoretto. Inteso come potere di co-gestire la formazione degli organigrammi pubblici a vantaggio proprio e dei propri adepti; difeso con le unghie e coi denti dai vari Franceschini, Guerini e lo stralunato Orlando, sinistra ai testaroli.

Del resto questi dissipatori della politica non producono un’idea che sia una. Però hanno sviluppato un istinto a livello animale per il potere, sicché sanno bene quali sono le compatibilità che rendono puro illusionismo il richiamo ai contenuti. Difatti tale sesto senso li guida alla consapevolezza che l’attuale quadro non è modificabile, se – come loro – sei sprovvisto di coraggio e spirito di iniziativa. La presa d’atto che gli attuali equilibri sono immodificabili, se non a prezzo di drastiche rotture; non certo alla portata delle animucce ai vertici del PD.

Uno sbarramento che ha iniziato a prendere forma nel corso degli anni Settanta, quando iniziò a manifestarsi la rivolta della ricchezza nei confronti dell’economia mista del dopoguerra e prese avvio il divorzio tra il capitale e la democrazia; che metteva in discussione il ruolo della politica come governo del fatto economico e procedeva alla liquidazione del patrimonio di diritti civili e sociali lascito dei decenni precedenti. Qui inizia la crisi fiscale dello Stato, finito in balia degli investitori privati (i misteriosi “mercati”), pronti a investire nel deficit pubblico i capitali accumulati grazie all’evasione legittimata dal ceto politico (con precise responsabilità di una Sinistra inebetita dalle ricette suicide della Terza Via di Blair, Clinton, Schröder. E poi – dalle nostre parti – prima Massimo D’Alema e a seguire Matteo Renzi).

Nel frattempo l’Ue diventava il catalizzatore di questa “liberalizzazione” del capitalismo europeo, culminata nell’operazione della moneta unica come realizzazione del sogno alla Hayek di sgravare il processo di accumulazione capitalistica da qualsivoglia correttivo politico. L’assetto che i socio-economisti definiscono delle “porte girevoli”: il segreto di Pulcinella che nasconde l’immensa partita di giro dello scambio squilibrato tra Nord e Sud della Confederazione. Il meccanismo perverso di cui si diceva: l’immenso imboscamento di ricchezza attraverso l’evasione fiscale verso i cosiddetti mercati, attuato dalla parte agiata dei cittadini nell’area mediterranea, contrae l’area tassabile e prosciuga le risorse dei rispettivi Stati, i quali sono costretti a indebitarsi con il sistema finanziario internazionale che realizza – così – affari redditizi, mentre le industrie esportatrici del Nord hanno la garanzia di solvibilità degli acquirenti al Sud dei propri prodotti. Tra l’altro, a garanzia che i “nordici” non dovranno correre il rischio di fare a capocciate con Paesi – come Italia, Grecia, Spagna o Portogallo – tornati a difendersi attraverso politiche protettive dalla maggiore produttività delle economie del Nord, quali le periodiche svalutazioni monetarie dell’epoca pre-Euro.

Un segreto di Pulcinella che rende il dibattito sui contenuti nel PD totalmente velleitario. E sta facendo capire alla Meloni che il suo destino è fare come Draghi.



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