Pazzia politica

L'attuale governo offre una bella galleria di incoscienti, che alla carriera sacrificano qualunque priorità, a partire dall’interesse generale.

Pierfranco Pellizzetti

“C’è del metodo in questa pazzia” dice Polonio riferendosi ad Amleto.
Come nell’omonima piece di William Shakespeare, anche il manicomio della politica italiana – a ben guardare – è attraversato da un filo di logica che ne spiega (al limite, giustifica) le ricorrenti mattane.
Scrivo queste note la sera prima degli esami del decreto “Aiuti” e della possibile implosione del governo; senza possedere sfere di cristallo di sorta. Non per questo mi sfugge la follia, dagli evidenti esiti provocatori, di inserire nel cruciale provvedimento, in discussione domani, il corpo estraneo rappresentato dall’inceneritore romano. Così come la costante ostentazione di un vassallaggio psicologico al limite del servilismo nei confronti di Nato e ambienti guerrafondai anglo-americani riduce al ruolo di lacchè dello straniero presunti rappresentanti del popolo italiano, quali il primo ministro Mario Draghi e il titolare della Farnesina Luigi Di Maio.
Che dire delle materie ambientali e della riconversione energetica affidate alle cure irridenti del pifferaio magico Roberto Cingolani, che se ne strafrega dell’emergenza climatica e dei morti per il crollo dei ghiacciai, visto che quanto risulta interessargli – come da lunga biografia di impresario dei finanziamenti alla speculazione gabellata per scientifica – è soltanto la benevolenza di quanti dalla congiuntura di crisi intendono ricavarci i dollaroni. Senza dimenticare la gestione temeraria delle relazioni industriali da parte del ministro preposto Andrea Orlando, intento a baloccarsi delle questioni salariali e occupazionali di sua competenza, mentre l’insofferenza dei nostri lavoratori per gli ingiusti taglieggiamenti subiti e le promesse migliorative mai attuate sta trascinandoli innanzi a un bivio: disperazione o ribellione. E parliamo non di una nicchia disagiata bensì di una componente rilevante della società nazionale. Con le facilmente prevedibili conseguenze in quanto a tenuta della coesione sociale – per non dire di ordine pubblico – che l’espressione imbambolata in permanenza del politico in carriera sembra non tenere minimamente in considerazione.
Dunque, una bella galleria di incoscienti, che alla carriera sacrificano qualunque priorità, a partire dall’interesse generale per arrivare alla dignità. Ma che razza di pensieri albergano in quelle loro testoline?
Prendiamo l’ultimo caso citato, l’Orlando stordito: il ragazzotto cresciuto insieme alla quasi coetanea Raffaella Paita (1969 contro 1974) nella FGCI (la federazione dei giovani comunisti) della Spezia, la città più litigiosamente politicante d’Italia. Così i due personaggetti hanno iniziato una scalata partendo dai polverosi corridoi in penombra di partito, apprendendo un’idea di politica come pura tecnologia del potere. La stessa convinzione che accomuna tutti gli altri folli succitati, il cui distacco dalla realtà assume due aspetti: il carrierismo e la passione per i ricchi; di converso, l’insofferenza nei confronti dei meno abbienti. Quelli che Renzi definiva “gli sfigati” e François Hollande “gli sdentati”. Tutti figli – questi e quelli – di un unico fenomeno sociale: l’arrivo ai vertici della società di una pletora di parvenu, interessati esclusivamente alla propria ascesa personale. In larga misura allevati alle teorie della cosiddetta Terza Via, promossa negli anni Novanta da Tony Blair, Bill Clinton e Gerard Schröder; gente che si faceva strada incassando il consenso tradizionale del popolo di sinistra e promuovendo politiche di destra. Il motivo per cui ora i giovani e i ceti in difficoltà non si fidano più di questa sinistra: il garden club del Terzo Millennio.
Il circolo dei privilegiati, composto da politicanti e affaristi, a cui sbavano di appartenere anche consistenti fette di giornalismo, anch’esso in carriera e sempre pronto a offrire i propri servizi per acquisire benemerenze. In questo momento cercando di sferrare il colpo finale al tentativo di Giuseppe Conte per salvare il salvabile del lascito Cinquestelle; in quanto realtà incasinata ma estranea alle frequentazioni compromettenti. Dalle “puntuali” accuse al candido fazzoletto a tre punte da taschino scambiato per una vaporosa “pochette” multicolore (nevvero Max Panarari?) alla rimozione del ruolo svolto nell’assegnazione all’Italia del Recovery (da Mariolina Sattanino in giù). In effetti Conte bersaglio di invettive è la cartina di tornasole della collusione abbastanza mafiosetta tra carrieristi ad oltranza.
Il motivo della simpatia nei confronti dell’ex premier di chi scrive, pur riconoscendone i limiti di carattere e di determinazione politica. Insomma, un bravo riformista moroteo di provincia, inviso alla canea di privilegiati posizionali che nelle loro ansia accaparrativa porteranno popolo e Paese allo stremo; a partire dall’indifferenza nei confronti di esclusioni e disuguaglianze. Che necessitano “Aiuti”.

credit immagine: Edoardo Baraldi



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