Per l’Ucraina, anche con le armi

Non si può esaltare l’eroica resistenza del popolo ucraino e allo stesso tempo negargli l’invio di armi difensive. Con quale mezzo di persuasione si può costringere l’aggressore al dialogo se si priva l’aggredito dei mezzi necessari alla difesa?

Francesco 'Pancho' Pardi

All’inizio di La strana disfatta Marc Bloch registra la frase di uno dei comandanti d’armata francesi sulla sconfitta del suo esercito agli esordi della seconda guerra mondiale: “La Storia ci ha forse tradito?” Come se la storia dovesse garantire sempre la vittoria francese. La silenziosa ironia di Bloch ci ammonisce alla prudenza nell’uso strumentale della storia.
Nel presente l’assalto dell’impero  post o neo sovietico all’Ucraina, giustificato da Putin con l’ennesimo ricorso alla storia, ci mette di fronte a sproporzioni enormi e incolmabili.  Non c’è confronto tra la vastità di  mezzi dell’assediante e la scarsezza dell’assediato. Ancora più duro è il divario tra la libertà d’azione bellica del primo, per quanto impacciato dai suoi stessi limiti, e i vincoli che le famiglie e le case pongono ai combattenti assediati, costretti allo stesso tempo all’azione militare e alla protezione della propria società.

Si può discutere quanto si vuole sulle cause lontane e vicine, ma nessuna causa complessa giustifica ciò che si è oggi costretti a registrare con sgomento ingigantito dall’impotenza. È vero: l’Occidente ha fatto una guerra all’Iraq sulla base di un falso plateale sulle armi di distruzione di massa in suo possesso, ha invece distrutto un Paese e vi ha insediato un crogiuolo terroristico prima lì inesistente. Tra i precedenti  ascrivibili a colpe occidentali molti considerano i bombardamenti Nato in Serbia ma il nostro senso di colpa non può spingersi fino al punto di pensare che l’Europa abbia obbligato gli jugoslavi a massacrarsi tra loro. Né si può dimenticare la disperante impotenza dell’Onu, le cui truppe interposte assisterono inerti allo sgozzamento dei sedicimila prigionieri di Srebrenica.

Nel presente, c’è un aggressore che per più di venti lunghi anni si è costantemente esercitato nella ferocia a danno dei Paesi più o meno prossimi: dopo aver creato le premesse con una stagione stragista alquanto oscura, ha straziato la Cecenia radendo al suolo la sua capitale Grozny, ha invaso la Georgia che era stata uno dei capisaldi del riformismo di Gorbačëv, lontano dai suoi confini ha spianato la Siria per rafforzare uno dei peggiori dittatori sulla scena mediorientale, ha asservito e silenziato il Kazakistan e la Bielorussia, ha annesso la Crimea e insidiato e poi occupato il Donbass. Ora minaccia la Svezia e la Finlandia. E agita lo strumento nucleare.

È stato senza dubbio un grave errore di prospettiva da parte dell’Europa aver pensato che con la fine della Russia Sovietica i Paesi suoi satelliti potessero diventare di colpo e in modo indolore satelliti dell’Occidente. Ma sarebbe stato comunque irrealistico immaginare che questi non avrebbero tentato alla prima occasione di sottrarsi a un’egemonia considerata ormai intollerabile. Ora un astuto interesse insinua che tutte le aggressioni operate dalla Russia hanno la loro causa nell’espansionismo della Nato. Così si accredita un ritratto dei Paesi coinvolti come meri oggetti manipolati dalla propaganda occidentale. Ma non era già sufficiente il collasso del sistema sovietico per motivare il desiderio di affrancarsene? Quali meraviglie potevano convincere i vecchi satelliti a restare nell’orbita di un’oligarchia corrotta nelle mani di Yeltsin e Putin? È chiaro che non vedevano l’ora di andarsene. Si sostiene che non siano stati capaci di costruire altro che tristi democrature, ma se anche fosse vero (e non lo è dappertutto né allo stesso modo), la loro genesi affonda le radici proprio nell’eredità del sistema precedente: se il socialismo fallito non riesce ad avere eredi più liberi e svincolati dal passato, questo grava ancora di più sulla sua natura originaria.

L’aggressione sistematica della Russia è stata accompagnata dalla pratica dell’assassinio di oppositori e giornalisti, in forme scandalose buttate in faccia agli osservatori europei (solo Berlusconi se ne fregava esaltando l’amicizia con Putin col gesto della mitraglietta, foto indimenticabile). Venti anni di aggressioni militari e assassinii sono stati fronteggiati dall’Europa con atteggiamento remissivo e opportunismo commerciale.  Ora le città distrutte dell’Ucraina, la popolazione mitragliata e costretta all’esodo, lo sfacelo delle infrastrutture, la demolizione delle industrie, l’abbandono delle campagne, il rischio dell’incidente nucleare hanno finalmente persuaso l’Europa a cambiare atteggiamento. Ecco, d’ora in poi si dovrebbe evitare di mitigare la troppo tardiva severità europea. Invece le manifestazioni pacifiste in Italia mostrano una certa tendenza alla mitigazione. È chiaro che le sanzioni quanto più sono incisive tanto più avranno conseguenze anche nei Paesi europei. Si deve allora passare a misure attenuate? Se si teorizza che contro Putin non si può fare la guerra per timore di conseguenze nucleari allora è necessario insistere con la più coerente pratica delle sanzioni economiche. Ma soprattutto non si può esaltare l’eroica resistenza del popolo ucraino e allo stesso tempo negargli l’invio di armi difensive. Si sente dire in continuazione: ci vuole il dialogo, ci vuole il compromesso! Con quale mezzo di persuasione si può costringere l’aggressore al dialogo se si priva l’aggredito dei mezzi necessari alla difesa? Tutti noi dovremmo fare lo sforzo personale di metterci nei panni degli aggrediti. Ottanta anni fa molti italiani si ribellarono al nazifascismo e restituirono l’onore al paese umiliato. Noi oggi che cosa faremmo? Valuteremmo più realistico arrenderci subito per evitare tante inutili distruzioni?  Noi oggi forse ci arrenderemmo subito e magari scopriremmo l’aggressore senza pietà per la nostra resa. Ma gli ucraini, conoscendolo meglio di noi, hanno deciso di non arrendersi. Non possiamo essere così saccenti da pensare che hanno sbagliato. Dobbiamo loro infinito rispetto. Dobbiamo fornire loro tutti i mezzi di difesa necessari. Ciò aumenterà il nostro coinvolgimento nel conflitto? Siamo già coinvolti oltre la nostra volontà e stiamo misurando che cosa significhi subire la minaccia di un potere nemico, che afferma le sanzioni essere già dichiarazione di guerra. Ignorare la minaccia non ce ne libera.

Dobbiamo agli ucraini aggrediti anche un sostegno contro la mistificazione del linguaggio. È certo esercizio secondario mentre parlano le armi. Ma è intollerabile vedere l’autocrate ordinare bombardamenti sul popolo ucraino e dichiarare che quello è il suo stesso popolo e che lui lo sta liberando dai nazisti che l’hanno sedotto. In una pagina celebre della Guerra del Peloponneso (V, 84-116) Tucidide mette in scena il confronto, durante una tregua, tra l’esercito assediante di Atene democratica e imperialista e i delegati aristocratici dei Meli assediati e ridotti allo stremo. La spietata razionalità ateniese spiega ai Meli la loro convenienza, pena la morte per tutti, a sottomettersi senza condizioni ma non giunge all’irrisione di sostenere che con ciò sarebbero liberati. I Meli rifiutarono ma dopo episodi alterni alla fine dovettero cedere e “si arresero senza condizioni agli Ateniesi. Questi passarono per le armi tutti gli adulti caduti nelle loro mani e resero schiavi i fanciulli e le donne; quindi occuparono essi stessi l’isola e più tardi vi mandarono 500 coloni”. La Storia!



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