Per una ecologia della rete

Né web-apocalittici né web-integrati. Un saggio di Mauro Barberis sulle tecnologie digitali propone una terza via allo stesso tempo analitica e pragmatica.

Luca Serafini

I timori per una possibile sparizione dell’umano, rimpiazzato dall’intelligenza artificiale in un ambiente completamente automatizzato, hanno accompagnato lo sviluppo di internet e delle tecnologie di rete e si sono progressivamente cristallizzati in un filone di pensiero apocalittico, contrapponendosi alle utopie libertarie delle origini. La pandemia ha segnato forse un punto di arrivo di questa tensione dialettica, accelerando in maniera improvvisa la digitalizzazione di ogni aspetto dell’esistenza, e generando così una sostanziale indistinzione tra vita online e vita tout court. Mai come in questo momento, quindi, è necessario un pensiero nuovo della rete che, rifuggendo da estremi ottimistici e pessimistici, fornisca gli elementi critici per potersi in parte distanziare da ciò a cui, al momento, sembriamo invece obbligati ad aderire, ovvero la virtualizzazione delle nostre esistenze.

Il libro di Mauro Barberis “Ecologia della rete. Come usare Internet e vivere felici” (Mimesis) si presenta come un’opportuna terza via nella riflessione sulle tecnologie digitali, proponendo un approccio allo stesso tempo analitico e pragmatico. L’ecologia della rete parte dal presupposto che internet non sia semplicemente una tecnologia, un’estensione tecnica delle facoltà umane, bensì primariamente un ambiente, qualcosa che abitiamo. In quanto tale, la rete necessita appunto di una ecologia, intesa nel libro come “uno studio scientifico, sistematico e interdisciplinare della relazione tra l’uomo e l’ambiente digitale”, nonché di un ambientalismo, ovvero “un’etica e una politica che si prenda cura di questo specifico ambiente umano”.

Come emerge da queste definizioni, infatti, e come la stessa accelerazione tecnologica impressa dalla pandemia ci ha insegnato, ambiente digitale e umano tendono sempre più a sovrapporsi. Che ciò stia trasformando lo stesso concetto di umanità è un’evidenza difficile da negare. L’evoluzione digitale, come specifica l’autore, è una “forma di entropia: una corsa verso il caos che non può invertirsi, ma al massimo controllarsi”. Ma il digitale, appunto, non è per questo “post” o “trans” umano, bensì “abitabile” sulla base di un approccio riflessivo e critico.
L’ecologia della rete si pone quindi come un rimedio epistemologico alla potenziale disumanizzazione prodotta dalle applicazioni più distorte di internet ai nostri sistemi economici, giuridici, politici e sociali.

Sulla scia di una riflessione iniziata col libro “Non c’è sicurezza senza libertà” (Il Mulino) e proseguita con “Come Internet sta uccidendo la democrazia” (Chiarelettere), Barberis non considera i processi di digitalizzazione un mero epifenomeno di dinamiche politiche e sociali che la convergenza mediale si limiterebbe a rendere visibili. Al contrario, la stessa ondata populista che ha travolto le democrazie occidentali, culminata nel 2016 col referendum sulla Brexit e l’elezione di Donald Trump, viene letta dall’autore in un’ottica prettamente “mediatica”. Il populismo è un fenomeno mediatico poiché i media televisivi e digitali non sono emittenti di un messaggio populista che si forma altrove, bensì plasmano quello stesso messaggio. La spiegazione mediatica del populismo, nell’ottica di Barberis, si pone come una necessaria integrazione a quelle politica, economica e psicologica, che leggono il fenomeno populista in riferimento rispettivamente alla crisi della democrazia, alle conseguenze della globalizzazione e della finanziarizzazione dell’economia (come l’aumento delle disuguaglianze e la privatizzazione dei servizi sociali), e al risentimento di larghi strati di popolazione a bassa istruzione, che non si sentono riconosciuti e che scaricano irrazionalmente la loro rabbia contro gli ultimi (poveri, immigrati), da cui temono di essere scavalcati.

Il populismo mediatico, per l’autore, rappresenta anche il culmine di un processo di depoliticizzazione e di de-razionalizzazione: per prima cosa, la politica si trasforma in mero spettacolo, e solo in questa forma riesce a recuperare un simulacro di rapporto diretto coi cittadini. In secondo luogo, la politica-spettacolo mina la razionalità a lungo termine degli elettori e delle istituzioni, condizione fondamentale per la costruzione di una democrazia riflessiva e deliberante, sostituendola con la ricerca del consenso a breve termine che si traduce nell’offerta (illusoria) di soluzioni immediate.

La tesi del populismo mediatico, che non implica alcuna forma di determinismo tecnologico, può essere guardata in controluce proprio sulla base degli sconvolgimenti prodotti dalla pandemia. Al contrario degli altri processi legati alla digitalizzazione, il Covid-19 sembra infatti aver non accelerato, bensì rallentato la spettacolarizzazione della politica di stampo populista e la corrispettiva perdita di razionalità di elettori e istituzioni. La gestione grottesca dell’emergenza da parte dei leader populisti e la diffusa richiesta di competenza hanno ribaltato lo scenario. A non essere mutate, però, sono le condizioni di “immersione nel digitale” che hanno causato l’ascesa del populismo (e che anzi, come già evidenziato, la pandemia ha acuito). Poiché però, alla fine, soluzioni ai problemi globali devono comunque essere trovate, Barberis ipotizza che si possa andare verso un commissariamento crescente della politica. Quest’ultima potrebbe ridursi sempre più a mero show, delegando le decisioni a istituzioni sovranazionali, enti privati, tecnici, esperti. Sul proscenio della sfera pubblica digitale la politica-spettacolo, nel retropalco l’amministrativizzazione totale della società, magari con processi decisionali sempre più automatizzati e in mano all’intelligenza artificiale.

Lo stato populista (assieme a quello liberista e securitario), nota Barberis, è del resto una delle alternative che la digitalizzazione della società sembra prefigurare allo Stato costituzionale, ovvero quella caratterizzazione del “diritto postbellico, soprattutto europeo, per cui oltre che agli interessi nazionali esso deve corrispondere a esigenze sovranazionali quali tutela dei diritti umani, pacificazione, cooperazione economica e da ultimo salvaguardia dell’ambiente”. La necessaria internazionalizzazione della politica e del diritto, insomma, nel momento in cui diviene anche “digitalizzazione” rischia di mettere in pericolo le fondamenta istituzionali delle democrazie occidentali. Anche questo processo, come tutti gli altri, non dev’essere semplicemente esecrato, ma governato. Il populismo mediatico ha trasformato la politica, gli stati liberista, populista e securitario hanno sconvolto gli assetti democratici, la digitalizzazione dell’esistenza ha stravolto le relazioni sociali (col rischio di generare una socialità posticcia).

Ma l’ecologia della rete di Barberis non è un invito ad arrendersi a queste evoluzioni, né semplicemente a osservarle con disincanto, bensì a prenderle sul serio. La consapevolezza di tutte le mutazioni prodotte dalle tecnologie di rete sui sistemi sociali, giuridici, politici ed economici, è infatti l’unico viatico per l’elaborazione di soluzioni che migliorino un ecosistema da cui è impossibile sfuggire. Soluzioni innanzitutto di natura regolamentare, come il contrasto al potere monopolistico dei GAFAM o la necessità di rendere pubbliche almeno le formule alla base degli algoritmi che oggi, in ogni ambito, prendono decisioni imparando dall’esperienza e dai dati con cui vengono alimentati.

L’ecologia della rete è, infine, una filosofia della prassi. Come il saggio schopenhaueriano, che si riscalda a debita distanza dal fuoco (a cui il filosofo paragonava metaforicamente la società) senza giungere a toccarlo, l’ecologia della rete prescrive un parziale distacco dal digitale che pure siamo costretti ad abitare. Sottrarsi alla trasformazione in gioco di ogni aspetto dall’esistenza, verso cui internet ci indirizza, prescriversi una “dieta digitale” che eviti la dipendenza totale dalle tecnologie e la virtualizzazione di ogni nostra esperienza (pericolo montante col Metaverso a cui Facebook vorrebbe consegnarci), sono solo alcune delle massime per usare internet e vivere felici. Di conseguenza, l’ecologia della rete di Barberis si configura anche, à la Foucault, come una “tecnologia del sé”, uno strumento allo stesso tempo cognitivo e pratico per far convivere in un ambiente positivamente integrato umano e digitale.



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