Per una teoria critica del Conflitto Russia-Ucraina

Leggiamo Benjamin Abelow, "Come l’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina" e Lucio Caracciolo, "La pace è finita", per provare a farci strada nel ginepraio di voci e opinioni della guerra in Ucraina.

Pierfranco Pellizzetti

«Provo a immaginare una manifestazione di

appoggio alla lotta per il Vietnam, negando

però la fornitura dei mezzi di difesa»[1].

Erri De Luca

«Grattez le Russe et vous troverez le Cosaque»

Charles Joseph de Ligne

 

Benjamin Abelow, Come l’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina, Fazi Editore, Roma 2023

Lucio Caracciolo, La pace è finita, Feltrinelli, Milano 2022

 

Nostalgici dell’URSS, americanisti alla Dottor Stranamore

L’editore Fazi prosegue nella sua linea editoriale, impegnata a smascherare le retoriche guerresche, che attualmente vanno diffondendosi spinte da sempre più impetuosi venti di guerra. Lo aveva fatto pubblicando nel novembre dello scorso anno il saggio “Le guerre illegali della Nato”, a firma dello storico svizzero Daniele Ganser e recensito in questa rubrica. Lo ribadisce ora con l’agile pamphlet dell’attivista anti armi nucleari Abelow; un fervente cristiano critico del mito americano sulla scia dei Noam Chomsky e degli Howard Zinn, la cui perorazione ruota per intero attorno a una domanda lacerante: «Chi è responsabile del disastro umanitario in Ucraina della morte di migliaia di ucraini, sia civili che militari? Chi è responsabile della distruzione delle case e delle imprese ucraine e della crisi dei profughi che ora si aggiunge a quella dal Medio Oriente? Chi è responsabile della morte di migliaia di giovani uomini che prestano servizio nell’esercito russo, la maggior parte dei quali sicuramente crede, come i loro omologhi ucraini, di star combattendo per proteggere la loro nazione e le loro famiglie? Chi è responsabile del danno inflitto alle economie e ai cittadini di Europa e degli Stati Uniti? Chi si assumerà la responsabilità se il blocco delle forniture agricole porterà alla carestia in Africa, un continente che dipende fortemente dall’importazione di grano dall’Ucraina e dalla Russia? E infine, chi si assumerà la responsabilità se la guerra in Ucraina degenererà in uno scontro nucleare e per poi diventare una guerra atomica su vasta scala?» (B.A. pag. 63).

Un’implacabile sequenza di addebiti oltraggiosi cui fa seguito alla pagina seguente un verdetto senza dubbi o remissioni: «la responsabilità primaria è da imputare all’Occidente, in particolare agli Stati Uniti».

La certezza dell’assunto a priori di uno spirito credente, cui può fungere da utile contraltare il ragionamento di un analista disincantato quale Lucio Caracciolo; il quale propone un approccio sistemico, di cui lo scontro tra Russia e Ucraina è solo un aspetto.

Sicché il punto di partenza e la sua prospettiva sono radicalmente diversi: «il 24 febbraio 2022 è definitivamente finita la fine della storia» (L.C. pag. 7). Un calembour per sintetizzare la presa d’atto che, trent’anni dopo la pubblicazione del best-seller “para-hegeliano” di Francis Fukuyama La fine della storia e l’ultimo uomo, l’aggressione russa spazza via l’illusione della fuoriuscita dal tempo e l’entrata nell’ultima fase della vicenda umana: la democrazia occidentale come sua apoteosi sub specie aeternitatis. Per cui gli apologeti della vittoria stelle-e-strisce nella Guerra Fredda ne parlavano come l’avvento dell’ordine perfetto, materializzato nella Pax americana. Sebbene si trattasse di una pace singolare, intermittente: prima la Guerra del Golfo e la secessione jugoslava, poi il ventennio della fallimentare “guerra al terrorismo” simulata nelle invasioni di Afghanistan e Iraq, infine la sfida russa all’egemonia americana nell’attacco all’Ucraina; presunta in avanzata satellizzazione USA e bollata dal Cremlino come “nazificazione”. Mentre cresce la sfida cinese al primato di Washington, tradotta nella volontà di porre fine alla duplicità della Cina, riportando Taiwan sotto l’egida di Pechino. Sfida russa e sfida cinese innescate dalla percezione che stia avvicinandosi la fine del “secolo americano”. La centralità al tramonto degli Stati Uniti, la cui promozione autolesionistica della globalizzazione finanziaria (nel 1999 il presidente Clinton abolisce lo Glass-Steagall Act del 1933, che regolamentava le attività bancarie) vanifica la possibilità stessa di mantenere in vita il paradigma alla Fernand Braudel del sistema-Mondo (attualmente Washington Consensus) suddiviso in Centro e Periferia.

Per cui l’invasione dell’Ucraina ha ben altri obiettivi di quelli – pretestuosi e maldestri – dichiarati: è lo scontro tra un impero in declino e un impero desaparecido, che alimenta fisime, rivalse, mosse azzardate e contromosse difensive. Paranoie ossessive: se Abelow riferisce che «la Russia ha percepito [le manovre NATO nel periodo 2017-21] come una minaccia alla propria sicurezza» (B.A. pag. 28), Caracciolo «non [si] stupisce che nelle opinioni pubbliche americane (il plurale è d’obbligo) fermentino i complottismi» (L.C. pag. 112).

Un gioco delirante che ha come scenario il Vecchio Continente, in cui gli europei assistono impotenti a decisioni prese altrove – secondo il vecchio detto «l’America vuole comprare l’Europa, la Russia conquistarla» (L.C. pag. 37) – e gli ucraini cercano di trarne il massimo vantaggio per contrastare la superiorità bellica dell’invasore. Mentre le opzioni ideologiche di ritorno confondono i modelli di rappresentazione. Così gli antichi credenti nell’esperimento sovietico possono tornare odiatori di un Capitalismo che pareva aver occupato l’intera scena mondiale, anche dalle nostre parti: dai tardivi cloni di Armando Cossutta come il comunista Marco Rizzo e il rifondarolo Paolo Ferrero, al raffinato intellettuale con nostalgie staliniane Luciano Canfora, prefatore del pamphlet di Abelow. Specularmente gli ambienti guerrafondai, soprattutto del mondo anglosassone, pensano di cogliere l’occasione per spianare definitivamente l’antico nemico russo e – così – ritornare all’ebrezza trionfante (e tracotante) del 1989 ultra-vittorioso; magari perseguita con i metodi definitivi del maggiore stellato T.J. “King” Kong a cavalcioni della bomba: la caricatura del folle propugnatore dell’olocausto nucleare nel film Dottor Stranamore di Stanley Kubrick.

I buoni e i cattivi

Il fatto è che nella dicotomia che stiamo riscontrando in materia di giudizio sui precari equilibri post-sovietici, tra i disincantati nostalgici del Congresso di Vienna 1815 e i credenti spregiatori del Trattato di Versailles 1915, questi ultimi tendono sempre a ragionare nei termini di peccato e perdono. Soprattutto se di matrice cattolica. Certamente – come addiviene ad ammettere Caracciolo – l’America è un singolare caso di schizofrenia imperiale, «certificata dal suo sentimento di innocenza, testimoniato dalla rimozione del genocidio dei nativi e dallo schiavismo, fondativa della sua narrazione» (L.C. pag. 106); di una Nazione presunta inventrice della democrazia dei moderni creata da una plutocrazia coloniale che nelle sue carte dei valori parla di Repubblica ma non di Democrazia: l’oligarchia creatrice del «sistema di controllo nazionale più efficace dei tempi moderni»[2]. Una potenza imperiale a cui Abelow propone di mettersi nei panni dei russi per capirne le ragioni, seppure non ci sia bisogno di scomodare la Dottrina di Monroe 1823: gli Stati Uniti nei panni del minacciato ci si erano trovati nella crisi denominata “dei missili a Cuba” nell’ottobre del 1962, superata dopo la prova di forza dell’embargo navale statunitense; e non – caro Abelow – grazie al fatto che «il presidente John F. Kennedy aveva costruito un buon rapporto personale con il premier sovietico» (B.A. pag. 34): le cronache del tempo descrivono il precedente incontro a Vienna tra Kennedy e Cruščev del 4 giugno 1961come “un disastro”. E due mesi dopo, con l’avallo di Mosca, le autorità Ddr iniziarono a costruire quello che venne chiamato “il muro della vergogna”.

Ben altra la durezza della politica, infatti. Ignorata a priori dai pacifisti cattolici – per tetragono dottrinarismo alla Tommaso Montanari o per mandato professionale alla papa Bergoglio – pronti a condannare e assolvere a prescindere dal contesto. Ma sempre orientati a riproporre la ricetta da anime belle della resistenza passiva, anche se anticamera del martirio. Richiamati a un maggiore consapevolezza delle conseguenze del loro dogmatismo da una ben più rigorosa e responsabile Hannah Arendt: «se la gandhiana strategia della resistenza non violenta, così potente ed efficace, si fosse scontrata con un diverso avversario – la Russia di Stalin, la Germania di Hitler, oppure il Giappone di prima della guerra, anziché l’Inghilterra – il risultato non sarebbe stato la decolonizzazione, ma il massacro e la sottomissione»[3].

Infatti si tratta del caso di autocrazie totalitarie e violente, prive del benché minimo bilanciamento da parte di istituzioni democratiche e di una qualche pubblica opinione. L’analoga situazione dell’attuale regime putiniano.

Ciò nonostante, se Putin bombarda a tappeto l’Ucraina, andrebbe capito in quanto provocato dalla Nato. Insomma una mammoletta a cui «i leader occidentali, specialmente statunitensi, hanno mancato di rispetto» (B.A. pag. 61). Un bambino viziato, a cui si perdonerebbe persino il ricorso alla soluzione nucleare se «dovesse avere la percezione di star perdendo la guerra» (B.A. pag. 7). Sicché, visto che Abelow invita gli occidentali a mettersi nei panni di Putin, gli si potrebbe girare il consiglio: se invece che negli Stati Uniti avesse pubblicato un pamphlet critico del Paese di propria residenza nella Russia putiniana, pensa che si sarebbe ritrovato autore di un best-seller o sarebbe incappato nel destino di Anna Stepanovna Politkovskaja, assassinata il 7 ottobre 2006 dopo la pubblicazione di un suo saggio sul regime dispotico putiniano; delitto – guarda caso – di cui non è mai stato trovato il mandante: una spiacevole casualità? Come per il principale oppositore del presidente Putin Aleksej Naval’ny, avvelenato con l’agente nervino Novichok nell’agosto 2020, o la spia ex sovietica Aleksander Litvinenko in fuga a Londa, ammazzato il 23 novembre 2006 infettandolo con radiazioni di Polonio-2010? Sicché la condiscendenza verso un tale personaggio, il cui padre spirituale è l’orrido arcivescovo Kirill, il capo della chiesa ortodossa russa che benedice la guerra contro “l’Occidente demoniaco” della Lobby Gay, dalle ipocrisie grandi e piccole, come imporre la dizione “operazione speciale” a una palese  a fronteper inaugurare la nuova fase dell’impero russo […] in recuperata continuità con l’impero zarista»[4], ebbene, tale condiscendenza può essere giustificata solo dal timore indotto dalla minaccia di costui, pronto a scatenare l’Armageddon.

Mentre – di converso – da parte di Abelow vige la più impietosa ermeneutica del sospetto sulle colpe degli americani, date per certe anche in assenza di evidenze («gli Stati Uniti hanno lavorato dietro le quinte» B.A. pag. 20) a fronte del più smaccato giustificazionismo: «per quanto sia impossibile conoscere le motivazioni specifiche che hanno portato Putin a invadere l’Ucraina, probabilmente sono entrati in gioco una combinazione di fattori (sic)» (B.A. pag.40). Ma tutto ciò passi pure, come concessione al mainstream rovesciato in crescita nell’Occidente che si è stufato di questa vicenda bellica che dura ormai da troppo tempo. Meno accettabile è la riduzione sprezzante del valoroso popolo ucraino alla stregua di un pupazzo nelle mani dei guerrafondai stelle-e-strisce. Sicché, se per Canfora “l’Ucraina è stata mandata allo sbaraglio”, per Abelow «il governo statunitense, con le sue parole e le sue azioni, può aver condotto i leader e il popolo ucraino su posizioni intransigenti nei confronti della Russia» (B.A. pag. 65).

Intransigenti loro malgrado? Quando è ben nota la russofobia non solo dell’Ucraina, ma anche di tutti i popoli limitrofi all’ex impero sovietico: dai georgiani ai baltici, ai polacchi e perfino agli scandinavi

Al tramonto dell’Occidente

Come si diceva, il revanscismo sino-russo nasce e trae alimento dalla crescente convinzione che siamo giunti alla fine di una fase storica: l’oltre mezzo millennio di egemonia occidentale, avviato con l’arrivo di Vasco De Gama a Calcutta nel 1498. Dopo di che – scrive lo storico Carlo Cipolla – «aggirando il blocco turco, alcuni paesi europei si lanciarono all’offensiva a ondate successive. In poco più di un secolo portoghesi e spagnoli prima, olandesi e inglesi più tardi, gettarono le basi della supremazia europea su scala mondiale»[5].

Ora, con sempre maggiore insistenza, gli analisti approfondiscono il tema di “come l’Occidente stia perdendo la battaglia per la democrazia”; un modo elegante per significare la perdita di centralità nel sistema mondo. Come intellettuali dell’autorevolezza di Stephen Holmes della NYU School of Law e Ivan Krastev, presidente del Centro di Strategie liberali a Sofia, che in un saggio scritto a quattro mani nel 2019 riferivano come «l’Europa occidentale non rappresenti più il modello di un Occidente culturalmente superiore che i cittadini dell’Europa centrorientale un tempo ammiravano e aspiravano a emulare»[6]. Tantomeno per il resto del pianeta, in quanto «inapplicabile, a meno di non postulare la progressiva identificazione del Resto del Mondo con l’Occidente. Operazione anche demograficamente improbabile oggi, quando noi occidentali (europei e nordamericani) siamo circa un miliardo contro i sette di non occidentali, mediamente più giovani e in aumento vertiginoso» (L.C. pag. 11).

Una rivoluzione geopolitica in corso su cui Putin ha scommesso tutto. E che Washington deve contrastare se vuole «mantenere la presa sull’unico continente in cui la talassocrazia a stelle e strisce s’è fatta potenza residente. Su terra. Il controllo del Vecchio Continente e del Medioceano (Mediterraneo) è vitale per impedire a un soggetto eurasiatico o una combinazione tra i suoi maggiori insidi l’egemonia americana sulle rotte oceaniche».[7] Un contenzioso ben più vasto e determinante di quello ucraino: «la decomposizione del sistema internazionale prodotta dell’implosione dell’Urss e dalla conseguente mutazione antimperiale degli Usa sta producendo embolie geopolitiche sparse». Mentre cresce il vero problema preminente; «l’abilitazione della Cina al rango di supremo vigilante dell’Indo-Pacifico grazie al possesso di Formosa» (L.C. pag. 113). Tanto che – stando ai si dice – negli ambienti politico-militari di Washington si fa strada la convinzione che probabilmente sostenere lo sforzo bellico ucraino non è più così importante; e forse sarebbe preferibile perseguire quella che viene chiamata una “soluzione coreana”. Con una fascia smilitarizzata come interposizione tra i due contendenti.

Un ginepraio in cui continua a essere problematico riuscire a orientarsi. E tutte le voci esprimono un loro frammento di verità. Anche per questo si conferma utile la lettura “a specchio” – qui proposta – di Abelow e Caracciolo. Magari per convenire con il poeta Giorgio Caproni che spesso “la ragione sta dalla parte del torto”.
O da nessuna parte.

 

[1] Erri De Luca, “Considerazioni di un militante impolitico”, MicroMega 1/2023

[2] Howard Zinn, Storia del popolo americano, il Saggiatore, Milano 2005 pag. 46

[3] Hannah Arendt, Sulla violenza, Mondadori, Milano pag. 66

[4] Lucio Caracciolo, “Oremus”, Limes 6/2022

[5] Carlo M. Cipolla, Vele e cannoni, il Mulino, Bologna 1983 pag. 11

[6] Ivan Krastev e Stephen Holmes, La rivolta antiliberale, Mondadori, Milano 2019 pag. 51

[7] L, Caracciolo, “Oremus” cit.



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