Perché la guerra?

Benché non ci sia un modo per eliminare la guerra dall’orizzonte umano, è tuttavia disperante arrendersi all’ineluttabilità del male. Un’analisi che parte dal carteggio del 1933 tra Sigmund Freud e Albert Einstein intitolato, proprio, “Perché la guerra?”.

Teresa Simeone

Nel 1932 la Società delle Nazioni invita l’Istituto Internazionale per la Cooperazione Intellettuale a un confronto aperto ai più importanti esponenti del mondo culturale del tempo: vi partecipano, tra gli altri, Johan Huizinga, Aldous Huxley, Julien Benda, Johan Bojer, Tsai Yuan Pei. Il carteggio più noto è quello, pubblicato un anno dopo col titolo Perché la guerra?, tra Sigmund Freud e Albert Einstein.

Freud già si era espresso nel dicembre del 1914 in una lettera all’olandese Van Eeden, in cui aveva ribadito come la Psiconalisi fosse giunta alla conclusione che “gli impulsi primitivi, selvaggi e malvagi dell’umanità non sono scomparsi ma continuano ad esistere, sebbene allo stato represso, nell’inconscio degli individui[1], pronti a riemergere alla prima occasione. Il nostro intelletto, continuava, è debole, gingillo e strumento delle nostre emozioni, e noi stessi siamo obbligati ad agire “intelligentemente o stupidamente”, a seconda del volere e delle resistenze esterne. Ed ecco “le crudeltà e le ingiustizie, di cui si rendono responsabili le nazioni più civili, la malafede con cui esse giudicano le proprie menzogne, le proprie iniquità e quelle dei propri nemici[2], e l’impossibilità per tutti di avere un giudizio sereno e veramente libero.

Che forze pulsionali muovessero gli individui alla guerra era condiviso anche da altri tra gli intellettuali partecipanti al confronto. Johan Bojer scriveva che la guerra non ce la mandano forze esterne agli uomini: no, essa è degli uomini. Perché il caos è nello spirito dii ciascuno. “Professiamo l’umanesimo e veneriamo la forza bruta. Amiamo i nostri fratelli e li odiamo. Siamo pronti a costruire, ma amiamo distruggere.”[3] E Aldous Huxley ribatteva che la pace internazionale era una questione di psicologia individuale, dal momento che le cause della guerra risiedono, in fondo, nella vita emotiva del singolo.

Ne La delusione della guerra Freud stigmatizza lo scoppio della grande guerra, più sanguinosa di ogni conflitto del passato a causa del perfezionamento delle armi, e scrive che due fatti hanno suscitato la sua delusione, la scarsa moralità all’esterno di quegli Stati che all’interno si erigono a custodi delle norme morali, e la brutalità del comportamento di singoli individui.[4] C’è un numero maggiore di uomini che accettano ipocritamente la civiltà, che non di individui veramente civili, concludeva: non aveva ancora visto né mai lo avrebbe visto lo slatentizzarsi della crudeltà nella Seconda guerra mondiale, benché conoscesse, essendo morto nel settembre del 1939, quello che i nazisti avevano già compiuto nel cuore della civilissima Europa.

Quando nel 1932 lo invita a confrontarsi con lui, la domanda che Einstein gli pone è: c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? E com’è possibile che una minoranza interessata soltanto ad arricchirsi e che vede nella guerra l’occasione per promuovere i propri interessi riesca ad asservire la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere? Naturalmente, sottolinea lo scienziato, essa ha alcuni strumenti forti come la stampa, la scuola e le organizzazioni religiose e, ciononostante, rimane l’interrogativo su come il popolo si lasci infiammare fino al sacrificio di sé. Una risposta è che l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere che rimane latente in condizioni di normalità e che emerge in situazioni eccezionali: a questo punto sarebbe possibile dirigere l’evoluzione psichica in modo da rendere gli uomini capaci di resistere a queste spinte?

Einstein anticipa anche la sua personale posizione, augurandosi che gli Stati creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre i conflitti che sorgano tra loro. Naturalmente tale organizzazione internazionale avrebbe efficacia solo nella misura in cui avesse il potere effettivo di imporre il rispetto delle sue leggi e questo implicherebbe che ogni singolo Stato rinunciasse a una parte della sua libertà d’azione, vale a dire della sua sovranità.[5] Il che è il problema di ogni organismo del genere, come abbiamo assistito anche noi in questi anni di sovranismo esasperato.

La risposta di Freud riprende la critica alle organizzazioni come la Società delle Nazioni che non dispongono di forza propria benché il progetto wilsoniano sia stato un tentativo coraggioso di acquisire l’autorità mediante il richiamo a principi ideali. Per quanto riguarda le spinte alla base dei comportamenti conflittuali dell’essere umano, esse sono di due sole specie: “quelle che tendono a conservare e a unire – da noi chiamate sia erotiche (esattamente nel senso di Eros nel Simposio di Platone) sia sessuali, estendendo intenzionalmente il concetto popolare di sessualità – e quelle che tendono a distruggere; queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione di pulsione aggressiva o distruttiva.”[6] Entrambe sono presenti e indispensabili perché la vita si basa sul loro concorso e contrasto. Le pulsioni erotiche rappresentano gli sforzi verso la vita, quelle di morte la distruzione verso se stessi e verso l’esterno. Non c’è speranza di sopprimere le tendenze aggressive degli uomini: possono solo essere deviate in modo che non portino alla guerra. Si può cercare di creare legami emotivi, di solidarietà tra gli uomini per impedirne la deflagrazione ma è difficile da ottenere. L’unica soluzione sarebbe assoggettare queste pulsioni alla ragione, sarebbe rafforzare l’intelletto, soprattutto avere un atteggiamento più civile e considerare il giustificato timore degli effetti di una guerra futura.

Sulla necessità di superare l’ottica egoistica e nazionalistica si erano già cimentati altri intelletti: lo stesso Erasmo da Rotterdam, turbato dai conflitti che tra XV e XVI secolo insanguinano l’Europa, rende, nella Querela pacis, la Pace protagonista di un lamento che è anche una denuncia contro i potenti del mondo (principi, re, papi) che invece di pensare al bene dei sudditi, seminano odio e distruzione. Non esistono guerre giuste: ogni guerra travolge e uccide quei popoli che non l’hanno scelta ma ne subiscono il peso mortifero. “nessuna pace è così iniqua da non essere preferibile alla più equa delle guerre” e anche quando si vince “il danno supera sempre il guadagno” mentre anche chi riporta la vittoria piange. I popoli costruiscono le città, i principi, per la loro sete di potere, le distruggono. bisogna resistere alle tentazioni nazionalistiche che dividono i popoli, puntando sulla solidarietà, fissando regole per le successioni all’interno degli stati.

Ma è la voce di Kant, “il Mosè della nostra nazione”, come lo definì Hӧlderlin, a farsi sentire con autorevolezza attraverso le idee esposte nel saggio Per la pace perpetua che scrive nel 1795, in un periodo in cui si era stremati dai conflitti. Qui, come primo Articolo definitivo per la pace perpetua, “In ogni Stato la costituzione civile deve essere repubblicana”, prospetta una Repubblica, perché di tutti i governi è il migliore per la pace e per la libertà e indica in una federazione di popoli l’unico mezzo per sostituire, con un ordinamento giuridico, lo stato di pace allo stato di guerra. “ Se per decidere ‘se debba esserci o no la guerra’ viene richiesto il consenso dei cittadini, allora la cosa più naturale è che, dovendo decidere di subire loro stessi tutte le calamità della guerra (il combattere di persona; il pagare di tasca propria i costi della guerra; il riparare con grande fatica le rovine che lascia dietro di sé e, per colmo delle sciagure, ancora un’altra che rende amara la pace, il caricarsi di debiti che, a causa delle prossime nuove guerre, non si estingueranno mai), rifletteranno molto prima di iniziare un gioco così brutto.” [7] In una costituzione nella quale i sudditi non sono cittadini – dunque in una costituzione non repubblicana -, invece, fare la guerra è la cosa più facile del mondo, poiché il sovrano non è un membro dello Stato, ma ne è il proprietario, e può decidere la guerra a suo piacimento senza dover interpellare nessuno e affidando al corpo diplomatico il compito di giustificarla. È il caso di tanti dittatori dell’era contemporanea. E, tuttavia, il pacifismo giuridico di Kant, come emerge dal secondo articolo: “Il diritto internazionale deve fondarsi su un federalismo di liberi Stati.”, non si nasconde il fatto che non sia sufficiente che gli Stati diventino tutti repubblicani: è necessaria “un’alleanza contro la guerra permanente e sempre più estesa, che può trattenere il torrente delle tendenze ostili e irrispettose di ogni diritto, ma nel costante pericolo che questo torrente dilaghi.” [8]

Ciò che Kant suggerisce è certamente utopico perché volto a realizzare la fine di tutte le guerre e per sempre e sappiamo quante volte questo sia stato violato, ma, nello stesso tempo, è importante come “ideale regolativo” a cui l’umanità dovrebbe tendere.

Ci vorrebbe una federazione di pace, non un trattato di pace (che si fa sempre dopo una guerra), perché la prima metterebbe fine non a una guerra ma a tutte le guerre. Tale federazione non si propone la costruzione di una potenza politica ma la libertà e la conservazione di uno Stato e contemporaneamente degli altri Stati federati, senza che questi si sottomettano a leggi pubbliche e alla costrizione da esse esercitata. È necessario, quindi, che gli Stati superino la forma dello Stato nazionale e trasferiscano la propria sovranità a un organismo sovranazionale, allo stesso modo in cui gli uomini sono usciti dallo stato di natura delegando a un altro potere quello di assicurare la pace. Come sostiene nel terzo articolo, “Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni dell’ospitalità universale”, bisogna maturare una coscienza comune di appartenenza: “Qui, come negli articoli precedenti, non è in discussione la filantropia, ma il diritto, e allora ospitalità significa il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo sulla terra di un altro.”[9] Non si tratta di un diritto di accoglienza, ma di un diritto di visita, che spetta a tutti gli uomini, in virtù del diritto della proprietà comune della superficie terrestre, di quella che è la casa comune.

Contro la concezione hegeliana della guerra come un male necessario, come l’azione che consente ai venti di spazzare la putredine o un fuoco rigeneratore che distrugge e purifica o come “sola igiene del mondo” di marinettiana memoria, addirittura esplosione di creatività e ingegno, per cui non v’è bellezza se non nella lotta, si ergono, in tutta la loro drammaticità, il costo di vite umane delle guerre del Novecento, le macerie che hanno lasciato bombardamenti e attacchi, ma anche l’amara consapevolezza che forse è qualcosa di inestirpabile dalla società umana. Il dopo ’45 non ha visto la fine dei conflitti che sono continuati in altre parti del mondo, inarrestabili.

Quando Picasso, oltre che il notissimo manifesto antibellicista di Guernica, dipinge, nel 1951, il Massacro in Corea, in cui rappresenta i soldati americani che stanno uccidendo donne e bambini, spogliati della loro anima e con fredde e metalliche armature mentre sparano a creature umanizzate nella loro esposizione alla crudeltà, dà un’iconica concettualizzazione del senso di una guerra: contrapporre umanità e disumanità, Eros e Thanatos. E, in un momento storico in cui la Seconda guerra mondiale ancora faceva sentire le ferite del suo morso.

Benché non ci sia un modo per eliminare la guerra dall’orizzonte umano, è tuttavia disperante arrendersi all’ineluttabilità del male, di fronte alla quale abbiamo l’obbligo morale, come ha scritto John Erskine, di essere intelligenti e di non smettere di usare, nei rapporti tra singoli come nel contesto internazionale, quello che per Kant rimane il bene più alto sulla terra, la ragione, ultima pietra di paragone della verità.

CREDIT FOTO: EPA/CHAMILA KARUNARATHNE

[1] A. Einstein, S. Freud, Sulla guerra e sulla pace, pag. 8

[2] Ibidem

[3] Op. cit., pag. 9

[4] Op. cit. pag. 19

[5] Op. cit. pagine 32-34

[6] Op. cit. pagine 41-42

[7] Immanuel Kant, Per la pace perpetua, Universale Economica Feltrinelli/Classici, pag. 57

[8] Immanuel Kant, Per la pace perpetua, Universale Economica Feltrinelli/Classici, pag. 66

[9] Op. cit. pag. 66



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