Persi per strada: le parabole discendenti dei politici di sinistra

Una sfilza di grandi contraddizioni dei politici della sinistra italiana, che continuano ad abbandonare gli ideali di sinistra per vantaggio personale.

Daniele Barni

Non so se l’abbiate notato anche voi: i politici della sinistra italiana, e gli uomini più delle donne, valicata la cima del potere e del successo e imboccata la discesa, fanno o dicono qualcosa che contraddice in modo irriducibile tutti i valori che prima hanno sbandierato e sotto cui hanno militato. Una sorta di riflesso pavloviano che precipita nella costernazione quegli elettori i quali, con candore, si ostinano ancora a votarli. O, chissà, una sorta di strategia di menti irraggiungibili, battuta per mete che si perdono negli arcani del potere e di cui i medesimi poveri elettori, disorientati, non riescono a intravedere la bontà e la grandezza. Intendo con sinistra, per convenzione, tutte le attuali opposizioni, da Italia Viva ad Alleanza Verdi e Sinistra. Ovviamente, dei politici della destra, cioè di tanti che, fra l’altro, hanno sancito con il voto del parlamento che la povera Ruby sia la nipote di Mubarack, non merita nemmeno parlare.
Ma, prima di calarsi nei particolari, occorre definire, sebbene per semplificazioni, che sia la sinistra e quali siano i suoi valori. Se nel XVIII secolo, con l’Illuminismo e con la Rivoluzione Francese, si è stabilita l’uguaglianza personale e morale di tutti gli esseri umani, nei secoli XIX e XX, con il pensiero di Karl Marx e con i partiti social-comunisti, si è cercato di stabilirne anche l’uguaglianza materiale ed economica. Tentativi in tal senso non sono mancati neppure nella storia precedente, anche lontana. Basti pensare all’Atene del V secolo a. C., in cui i cittadini maschi partecipavano degli stessi diritti politici e civili; o alla Sparta del medesimo torno di secoli, in cui gli spartiati, chiamati anche gli “uguali”, condividevano le stesse condizioni economiche e sociali, oltre agli stessi doveri militari. Tuttavia, il contesto umano della Grecia classica è troppo diverso da quello contemporaneo per tentare paragoni poco più che superficiali: infatti, quello era un mondo maschilista, schiavista, aristocratico e militarista, dove le donne, i servi e gli stranieri erano esclusi dal governo e dai suoi benefici, dove i nobili, come direbbe G. Orwell, erano un po’ più uguali degli altri, e dove la guerra era naturale, stagionale, come la pioggia o la secca. Oppure, basti pensare ai comuni italiani del Basso Medioevo, in cui, come dicevano loro, vigeva il “governo largo” e tutti i cittadini potevano accedere all’arengo e al palazzo: ma anche quello è un mondo troppo lontano dal nostro, dove, oltre alla solita esclusione dal governo delle donne, la violenza era endemica, le aristocrazie spadroneggiavano e i poveri, ovvero coloro che non avevano un’attività propria, i salariati, i non iscritti alle corporazioni di arti e mestieri, i non-borghesi, non contavano pressoché nulla. Tra il XVIII e il XX secolo, invece, è avvenuto qualcosa che la storia dell’umanità non aveva mai conosciuto. Innanzitutto, due rivoluzioni industriali hanno issato l’umanità sopra mucchi di beni materiali, molta parte dei quali superflua. E, allo stesso tempo, hanno massificato le persone: nel senso, figurato, che a uno stesso stile di vita, quello borghese, hanno finito pian piano per omologarsi tutti, anche se a esso si poteva accedere più o meno, del tutto o per nulla, a seconda della disponibilità di denaro; e nel senso, letterale, che le persone sono state ammucchiate, e sfruttate, nei luoghi di lavoro, fabbriche, magazzini, mercati, ecc… Inoltre, la rivoluzione scientifica della fine dell’Ottocento e del principio del Novecento ha illuso l’umanità di aver varcato la soglia del progresso e del benessere illimitati: in tale sentimento comune, convenzionalmente definito Positivismo, è quindi fermentato, per reazione o, forse, per affinità, un rinnovato interesse per la religione e per ogni forma di volontarismo e di irrazionalismo. Basti pensare, ad esempio, all’opera di F. Dostoevskij, in cui molta parte ha il conflitto tra fede e razionalismo, tra Dio e scienza, tra l’umiltà ispirata dalla fittezza del mistero e la spavalderia dei lumi rischiaratori dell’intelletto. Non a caso proprio nella patria dello scrittore moscovita, agli inizi del secolo scorso, si sono fuse tutte le spinte, le tendenze, le tensioni. Nella Rivoluzione Russa, infatti, come in un gigantesco crogiolo, si sono amalgamati: la nuova società del lavoro e della produzione inarrestabile di beni; la massificazione degli individui; lo scientismo marxista; e il nuovo millenarismo fideistico e volontaristico di una società della piena giustizia e della piena uguaglianza. Ecco, la sinistra italiana, smaltita l’ubriacatura rivoluzionaria, con i brindisi di più d’un dittatore, e risvegliatasi nella sobrietà socialdemocratica, dovrebbe aver imparato almeno alcune lezioni. Prima di tutto, che la comunità felice è quella i cui cittadini sono il più possibile uguali fra di loro, non solo nei diritti e nei doveri, ma anche nei beni: perché le concentrazioni di potere e di ricchezza provocano, come per una legge di natura, abuso e sopraffazione. E che tale uguaglianza può essere ottenuta solo attraverso una leva fiscale progressiva (compresa quella sulle successioni), attraverso una giustizia severa e imparziale, e attraverso una legislazione contro i conflitti d’interessi. Poi, che la democrazia è il miglior sistema politico finora escogitato, perché la distribuzione fra tanti o tutti i cittadini del potere impedisce, anche per statistica, che si prendano decisioni assurde o dannose, essendo quasi impossibile che tante o tutte le menti s’ingannino e si sbaglino. Ma che la democrazia è anche un sistema delicato e fragile, mai dato per sempre, da difendere continuamente e continuamente da riconquistare. Poi, che la conoscenza e la bellezza che da essa deriva sono il cuore d’ogni felicità. E, perciò, che l’arte, il paesaggio, l’ambiente e la scuola sono i beni più importanti della comunità e, come tali, vanno tutelati e incrementati, soprattutto in un’epoca di sconvolgimenti climatici come questa. Infine, che la pace è un valore imprescindibile, anche se, come dimostra la Resistenza al nazifascismo, non assoluto: perché solo la cooperazione fra i popoli potrà permetterci di curare la natura piagata, di accogliere i nuovi popoli che scappano e di non lasciarsi accarezzare dalla tentazione della guerra. Penso che questo quadrilatero di valori sia sufficiente a includere e a proteggere al suo interno tutti gli altri.
E i nostri eroi della sinistra italiana che fanno e che dicono? Fintanto che sono al potere si mostrano, almeno a parole, i difensori più strenui di quel quadrilatero. Ma poi, quando il potere comincia a lasciarli nudi, rivelano sotto i suoi paludamenti dei Mister Hyde inaspettati. Prendiamo Piero Fassino, già deputato con Adamo ed Eva, sindaco, ministro, sottosegretario e segretario di partito: l’ultima volta che l’ho visto, sciorinava in parlamento la cedola del suo stipendio di quattromila euro e rotti come fosse la foglia di cicoria della sua fame quotidiana. Aveva l’aria soddisfatta del monello che spara petardi fra le gambe degli amici per vederli ballare: immagino che Elly Schlein e gli altri ballassero senza tregua negli scranni lì accanto. A parte il fatto che con le prebende il suo stipendio reale sale al triplo, ma perché l’avrà fatto? Mistero. Prendiamo Massimo D’Alema, già deputato, Presidente del Consiglio, Vicepresidente del Consiglio, presidente e vicepresidente di infinite altre cose, ministro, segretario, sottosegretario mai: l’ultima volta che ne ho sentito parlare mediava su una vendita di armi tra Leonardo, Fincantieri e la Colombia. Robetta da milioni di euro. Perché l’avrà fatto? Qualcuno ha insinuato per soldi. Io no, non ci credo. Un uomo che ha passato i settanta, con la sua carriera, con il suo vitalizio, non deve aver bisogno di soldi. Ancora mistero. Prendiamo Romano Prodi, la kryptonite di Berlusconi, già due volte Presidente del Consiglio, Presidente della Commissione Europea, persona a cui tanti hanno voluto bene e su cui tanti hanno creduto: la penultima volta che l’ho visto, tirava dritto, come il fu Enrico Cuccia, sotto una pioggia di domande dell’inviato Danilo Procaccianti di Report che chiedeva conto della privatizzazione di Autostrade, in un servizio sul crollo del Ponte Morandi di Genova; poco dopo, allo stesso inviato, che chiedeva se il “peccato originale” della tragedia non stesse proprio nella privatizzazione della rete autostradale, rispondeva andreottianamente: “Per il peccato originale ci vuole il battesimo”. Perché l’avrà fatto? Ancora mistero. Per fortuna, l’ultima volta che l’ho visto, invece, a domanda del giornalista Sandro Ruotolo sul salario minimo, rispondeva che sotto i nove euro l’ora non si può scendere, a meno che “non si voglia che la gente muoia di fame”. Sono contento per questa risposta da buon vecchio Prodi, anche se una vocina maligna dentro mi ripete: “Legge Treu, Legge Treu, lavoro precario, lavoro precario, 1997, 1997…” Ma nel 1997 non governava proprio Prodi? Non voglio indagare. Prendiamo Fausto Bertinotti, già parlamentare, europarlamentare, Presidente della Camera, segretario di partito: mi dicono che non di rado passi per la televisione, ma l’ultima volta che l’ho visto io, dopo l’ingloriosa fine politica, si recava da qualche parte con auto blu e scorta, da semplice cittadino. Sono sicuro che ora abbia rinunciato a simili privilegiuzzi, un po’ stretti per chi voleva il comunismo mondiale, dal Chiapas a Piazza di Spagna, passando per Via Condotti. Perché l’avrà fatto? Ancora mistero. Di Pierluigi Bersani non voglio dir nulla: l’uomo ispira simpatia e stima sincere. Anzi, per non sembrare troppo buono, una cosetta vorrei chiederla: ma perché, dopo che Berlusconi fu colpito con una statuetta in Piazza San Babila a Milano, nel 2009, si è recato all’ospedale San Raffaele, dove quello era ricoverato, e gli ha tenuto la mano nelle sue per una mezz’oretta? Capisco i sentimenti di altruismo e di pietà, ma Berlusconi, secondo la sentenza di Cassazione 15727/2012, ha finanziato per anni Cosa Nostra. Forse, un pensierino alle vittime di mafia l’avrebbe sconsigliato dal gesto; e, forse, l’avrebbe sconsigliato dal mettere il suo sicuro buon cuore sotto alla lente mediatica di cotanto personaggio. Perché l’avrà fatto? Ancora mistero. Di Matteo Renzi e Carlo Calenda per davvero non voglio dire niente: preferisco ricordarli nella loro stagione di gloria, quando l’uno partecipava alla Ruota della Fortuna con Mike Bongiorno, nel 1994, e l’altro recitava nella parte di Enrico Bottini per lo sceneggiato Cuore del nonno Luigi Comencini, nel 1984. Lo dico senza ironia: Enrico Bottini/Calenda, insieme a Pinocchio/Andrea Balestri dello sceneggiato Le avventure di Pinocchio del 1972, sempre di Comencini, è stato uno degli eroi della mia infanzia. E così voglio ricordarlo. Desidero concludere, invece, con due esempi alti: Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella. Alla scadenza del loro mandato al Quirinale, dopo aver giurato e spergiurato di non voler essere rieletti, dopo aver fatto circolare foto con i bagagli già inscatolati, dopo aver considerato che sarebbe stato dannoso per le istituzioni repubblicane un ulteriore mandato, immancabilmente si sono fatti rieleggere. Eppure, su quasi sessanta milioni di italiane e di italiani ce ne saranno stati uno o una degni della carica. Quale esempio hanno offerto? Quale valore adesso ha la loro parola? Perché l’avranno fatto? Mistero.

Dopo questo quadretto di detti e comportamenti, se poco o molto edificanti lascio giudicare a voi, occorrerebbe capirne l’origine e lo scopo. In molti sostengono che la causa stia, semplicemente, nella perdita del senso della realtà a cui il politico si riduce dopo aver per troppo tempo vissuto nei riti e negli artifici dei palazzi del potere. Per parte mia, invece, nel tentare di trovare una spiegazione, preferisco tornare al mio “centro di gravità permanente”, come cantava Franco Battiato. Cioè, il senso della comunità. Finché noi italiani, e sottolineo noi, non comprendiamo che la comunità deve essere curata, protetta e sostenuta più del singolo, anche sopra e contro il singolo stesso se necessario, non avremo mai uno Stato forte e felice: e non potremo mai goderne gli infiniti benefici, superiori senza paragone a quelli che i singoli, pur con ogni sforzo, potrebbero procurarsi da soli. Lo dimostra il nostro scivolare continuo, da decenni, sulla china della ricchezza e, soprattutto, del benessere e del senso civico. E non so, se presto non avremo compreso tale regola elementare, come faremo ad affrontare le sfide esistenziali che il mondo ci sta preparando. Forse, un maggiore senso della comunità avrebbe insegnato ai nostri eroi della sinistra italiana che essi sono solo esseri umani e che, come per tutti gli esseri umani, dopo il meriggio della gloria e del potere viene la bellezza e il silenzio della sera.
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