Philosophes e Padri Fondatori in controluce

La demofobia come cuore di tenebra della democrazia: “L’Illuminismo tra religione e politica – I philosophes di fronte al popolo” di Elena Giorza e “Storia del popolo americano – dal 1492 a oggi” di Howard Zinn.

Pierfranco Pellizzetti

«Meglio non insegnare ai contadini a leggere,
diceva Voltaire: qualcuno deve arare i campi»[1]
Robert Darnton
«I philosophes e Voltaire in testa, riuscirono a
imporre l’assioma secondo cui la loro modernità
critica aveva un futuro illimitato»[2]
Marc Fumaroli

Elena Giorza, L’Illuminismo tra religione e politica – I philosophes di fronte al popolo, il Mulino, Bologna 2021
Howard Zinn, Storia del popolo americano – dal 1492 a oggi, il Saggiatore, Milano 2005

Intellettuali e popolo al tempo dei Lumi
el primo capitolo del suo celebre “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” Max Weber si domandava cosa fosse successo agli albori della società moderna per cui erano diventate rispettabili attività dirette al solo guadagno, quali il commercio e la banca, sino ad allora disprezzate come espressione di mera cupidigia. E non solo: «questo che, nel caso più favorevole, era un affare moralmente tollerato, come è potuto diventare secondo Beniamino Franklin ‘vocazione’?»[3].

Una questione – quella weberiana – che introduce lo stimolante ragionamento di Albert Otto Hirschman sulle variazioni dei sistemi valoriali “in favore del capitalismo prima del suo trionfo”, avvenute nei secoli precedenti. Ossia, in quella crisi di passaggio epocale descritta da Johan Huizinga nel suo “Autunno del medioevo”, quando «il conflitto tra spirito cavalleresco e realtà si fa evidente più che mai»[4]; un ideale artificioso e logoro, ormai giudicato distruttivo. Infatti è qui che s’innesta la lettura hirschmaniana: a fronte di declino inarrestabile si imponeva la promozione di un sistema di valori alternativo all’ambizione di gloria e d’onore. Da Giambattista Vico a Blaise Pascal, da Baruch Spinoza a Bernard Mandeville, venne avanzata con sempre maggiore consapevolezza l’idea di imbrigliare le passioni umane e usarle a profitto del bene. Operazione compiuta contrapponendo alle passioni (calde ed emotive) gli interessi (freddi e razionali). Sicché, «quando il far denaro assunse l’etichetta di ‘interessi’ e in questa guisa entrò in gara con altre passioni, fu all’improvviso applaudito e investito del compito di arginare quelle passioni che a lungo erano state ritenute assai meno responsabili»[5]. Andava prendendo forma quella società borghese; il Terzo Stato a cui si rivolgono i Lumi. Come scrive Giorza, «il pubblico a cui un philosophe generalmente pensa è composto dagli altri philosophes, dagli honnêtes hommes, dalla posterità e, in alcuni casi, da chi detiene il potere» (E.G. pag.143).

Del resto, scelta operata da uomini di lettere, più che da veri filosofi. Per dirla con lo storico delle idee Robert Darnton, «si confronti Voltaire con Descartes, Condillac con Locke, Diderot con Descartes, Laplace con Newton, Holbach con Leibniz. I philosophes elaborarono variazioni su temi anticipati dai loro predecessori. Natura, ragione, felicità, scetticismo, individualismo, libertà civile, cosmopolitismo, tutto ciò era parte del pensiero del XVII secolo»[6].

Quindi, cosa caratterizza i philosophes? Il tratto distintivo è la dedizione a una causa: l’engagement. Si afferma così la figura dell’intellettuale che incarna una nuova forza storica: uomini di lettere e – al tempo stesso – uomini di mondo, che agiscono di concerto nel perseguire un progetto interpretandone lo spirito: il senso di partecipare a una crociata secolare per la liberazione dell’umanità dalla superstizione.

Tanto da rendere plausibile l’assunto che la fine dell’Ancien Régime viene delineandosi già in una fase incubativa precedente al lungo Settecento della “rivoluzione borghese” a più fasi (quella “gloriosa” inglese del 1689, l’americana 1776 e la francese 1789). Un’intensa opera corrosiva, per cui – a dire di Alexis de Tocqueville – «la Rivoluzione, la quale si proponeva appunto di abolire ovunque i residui delle istituzioni medievali, non è scoppiata nei paesi dove esse, meglio serbate, più facevano sentire al popolo il loro peso e rigore, e per contro è sorta dov’esse lo facevano sentire più lievemente per modo che il loro giogo parve più insopportabile proprio là dove era in realtà meno gravoso»[7]. Una dialettica in cui i philosophes operarono la propria scelta di campo; con tutti i vincoli della loro natura di “uomini di lettere”. Difatti, «d’Holbach, in linea con molti altri philosophes, nel tentativo di elaborare un modello politico che favorisca l’ascesa della borghesia e dei suoi valori, finisce per scontrarsi con i limiti del proprio pensiero socio-politico» (E.G. pag.182): “lottano per distruggere l’ordine feudale, conservando per sé un acuto senso delle differenze di classe. Essi credono di legiferare per tutti gli uomini. Ma in realtà legiferano per se stessi, per un singolo ceto sociale”. La critica di aver dissimulato il proprio radicalismo filosofico, in nome di un moderatismo politico e un conformismo sociale, che Robespierre rivolgeva agli enciclopedisti il 7 maggio 1794: «questa setta, in ambito politico, è sempre rimasta al di sotto dei diritti del popolo, in ambito morale, invece, è andata ben oltre la distruzione dei pregiudizi religiosi. I suoi corifei talvolta hanno inveito contro il dispotismo, ma sono stati pensionati dal despota» (e in nota Giorza ci spiega che è Diderot il riferimento polemico dell’incorruttibile. “Il Socrate dell’epoca”, il quale nel 1765 vende la propria biblioteca a Caterina II, che gli concede di conservarla presso la sua abitazione fino alla morte e gli assegna una pensione annuale come bibliotecario).

Il prezioso lavoro di ricerca e confronto della giovane saggista ha il grande merito di condurci nel centro di questa contraddizione.

Democrazia e demofobia
Si direbbe il riemergere della questione “intellettuali e popolo”, molto gramsciana e pure retrò, ora ambientata nei salotti parigini tra le querelles e le fisime dei philosophes; di cui – appunto – il denso saggio di Elena Giorza ci fornisce un accurato resoconto; evidenziandone gli aspetti salienti nel confronto tra i due approcci estremi del movimento: quello deista di Voltaire e quello ateo del barone Pau H. D. d’Holbach; che rivelano la presenza nel “pensiero della luce” di zone d’ombra che tendono a trasformarsi in tenebra. Ed è proprio l’apparente dissenso sulla tematica religiosa tra Voltaire e d’Holbach a mostrare in tutta evidenza la succitata contraddizione. Infatti tanto il deista (“se dio non ci fosse bisognerebbe inventarlo”) che l’ateo (“imposture di cui il clero si serve per nutrire la pietà del volo”), filosoficamente senza tentennamenti, politicamente assai meno, finiscono per riconoscere alla fede il ruolo di instrumentum regni per tenere a bada la vera minaccia incombente; che popola i loro incubi di privilegiati: il popolo, la canaille (E.G. pag.18). Quello che sarà chiamato “il ceto pericoloso”, attivato dalla Rivoluzione come soggetto portatore di istanze autonome, che minacciano l’essenza dell’instaurazione borghese: la proprietà sinonimo di libertà.

Un’ossessione parigina che verrà sviluppata oltre oceano da personaggi andati alla scuola dei philosophes; i Padri Fondatori della repubblica nata dalla ribellione delle Tredici Colonie: certamente Thomas Jefferson, ambasciatore a Parigi tra il 1785 e il 1789, periodo in cui venne affiliato alla Gran Loggia Massonica Les Neufs Soeurs del Grande Oriente di Francia, Thomas Paine, rifugiato in Francia e amico di Benjamin Franklin, lo stesso Franklin – figura iconica dell’età dei Lumi accesi “sotto le maestose sequoie del New England” (Tocqueville) – nel cui profilo intellettuale, secondo lo storico americano liberal Henry Steele Commager, “si fusero le virtù del Puritanesimo senza i suoi difetti e la luce dell’Illuminismo senza il suo ardore eccessivo”.

Dunque, allievi di gran talento dei maestri della Ville Lumiére, in cui lo spirito pratico del Nuovo Mondo si evidenziò magistralmente nell’ingegneria politico-istituzionale (laddove i parigini erano un po’ scarsi); a difesa degli equilibri sociali dominanti.

«La Rivoluzione americana fu un’impresa geniale, e i padri fondatori meritano l’omaggio ammirato che è stato loro tributato nel corso dei secoli. Crearono il sistema di controllo nazionale più efficace dei tempi moderni e mostrarono alle future generazioni di leader i vantaggi che si ottengono associando il paternalismo al comando» (H.Z. pag.46). Come spiegato dal politologo della Boston University Howard Zinn, attorno al 1776, alcuni personaggi eminenti delle colonie inglesi – in larga misura latifondisti – fecero una scoperta che si sarebbe rivelata estremamente utile per il tempo a venire: creando una nazione, un simbolo, un’unità di diritto (gli Stati Uniti), potevano impadronirsi della terra, dei profitti e del potere politico sottraendoli ai favoriti dell’impero britannico. Nello stesso tempo avrebbero prevenuto una serie di rivolte potenziali creando un consenso, un sostegno popolare attorno al governo di un nuovo gruppo dirigente privilegiato.

Prendeva corpo quella plutocrazia coloniale che si sarebbe mimetizzata nelle forme della democrazia rappresentativa capitalistica, destinata a diventare il paradigma ufficiale dell’Occidente moderno. Sulla scia della gloriosa rivoluzione inglese, con il vantaggio che oltre oceano la sperimentazione era favorita dalla totale assenza di quei sedimenti aristocratici, con cui – invece – i philosophes dovevano fare i conti. Valga la testimonianza di Max Weber al riguardo: «basta accennare che nel paese natale di Beniamino Franklin (il Massachusetts) lo spirito capitalistico esisteva prima dello sviluppo capitalistico, già nel 1632»[8]. Con un’ulteriore precisazione di Zinn: «la prefigurazione di una caratteristica duratura della politica americana, che ha spesso visto appartenenti alle classi superiori sfruttare l’energia dei ceti inferiori per perseguire i propri scopi» (H.Z. pag.48). Una caratteristica solo americana?

Dialettica dell’Illuminismo
Maurice Duverger le definirà “le due facce dell’Occidente”: l’ambivalenza della soppressione dei privilegi aristocratici accompagnata dalla creazione di nuove oligarchie attraverso la cristallizzazione legalizzata delle ineguaglianze economiche. L’espressione usata dal costituzionalista francese è “plutodemocrazia”[9]. Quel particolare “ibrido” descritto con parole severe (e qualche forzatura polemica) da Karl Polanyi. «L’obiettivo delle grandi rivoluzioni, inglese e francese, era stato quello di attuare la libertà in campo economico; ma tale opera è rimasta incompiuta. L’impianto feudale del monopolio terriero è sopravvissuto alla rivoluzione… È sorto così il capitalismo, come un ibrido tra violenza e libertà»[10].

Sicché, un sistema che alla luce del sole promette eguaglianza dei diritti e di opportunità, mantenendo sottotraccia disparità di potere che ne contraddicono i presupposti, abbisogna di un forte controllo sulla propria base sociale e altrettanto elevati ambiti di segretezza: quell’apparato disciplinare, in larga parte composto da arsenali comunicativi a messa in funzione automatica, esplorato con particolare acume nella seconda metà del secolo scorso da Michel Foucault nelle sue riflessioni sulla “modalità panoptica del potere”; che dietro un quadro giuridico codificato e formalmente egualitario sviluppava procedimenti tali da costituirne “il lato oscuro”.

«La forma giuridica generale che garantiva un sistema di diritti uguali in linea di principio, era sottesa da meccanismi minuziosi, quotidiani, fisici, da tutti quei sistemi di micropotere, essenzialmente inegalitari e dissimmetrici»[11]. Con relativi strumenti di controllo e disciplinamento: «dapprima l’ospedale, poi la scuola, più tardi ancora la fabbrica»[12].

Contraddizione inconfessabile che sfocia in maniacalità da minaccia incombente: il rapporto paranoico-schizoide con il demos, ossia il celebrato kratos dell’ordine democratico, la cui sacralizzazione laica si accompagna al timore, ereditato dalle epoche precedenti e incistato nel subconscio collettivo del privilegio, di quello stesso demos come potenziale agente di sovversione. L’indicibile che solo ben di rado viene detto; e con tutte le prudenze dell’outing di un vizio infamante.

Ad esempio, agli albori del capitalismo industrialista, il grande sistematizzatore dello stato nascente – Adam Smith – nelle sue Lezioni di giurisprudenza definiva esplicitamente il governo «una combinazione dei ricchi per opprimere i poveri e conservare i propri vantaggi»[13]. Mentre – eccezioni come quella smithiana a parte – la retorica pubblica ha sempre promosso argomentazioni finalizzate a rimuovere consapevolezze destabilizzanti; secondo retoriche organicistiche (format Menenio Agrippa); quindi tendenti a proporre modelli di rappresentazione che anestetizzassero le distinzioni e il pensiero critico nei subalterni attraverso la propaganda ecumenica nelle sue più svariate modalità conformistizzanti. Il luogo comune del “siamo sulla stessa barca”. Appunto, la demofobia come cuore di tenebra della democrazia.

La verità sgradevole, formulata nell’immediato dopoguerra da due intellettuali con difficoltà a metabolizzare gli orientamenti in consolidamento a Occidente (il rapporto verità-potere e la piegatura scientista) – Max Horkheimer e Teodor W. Adorno – secondo cui «l’illuminismo ha sempre simpatizzato, anche durante il periodo liberale, con la costrizione sociale»[14]. Pur senza esplicitarla.

Una tesi che trova importanti pezze d’appoggio nel testo di Elena Giorza. Sarebbe disponibile la giovane saggista a sottoscrivere la tesi dei due francofortesi che «l’unico illuminismo oggi possibile consiste nel riflettere sulla crisi dell’illuminismo»?

NOTE

[1] R, Darnton, La dentiera di Washington, Donzelli, Roma 1997 pag.7

[2] M. Fumaroli, Le api e i ragni, Adelphi, Milano 2005 pag.221

[3] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1965 pag.134

[4] J. Huizinga, L’autunno del medioevo, Sansoni, Firenze 1978 pag.136

[5] A. O. Hirschman, Le passioni e gli interessi, Feltrinelli, Milano 1993 pag.37

[6] R. Darton, op. cit, pag.6

[7] A. de Tocqueville, L’Antico Regime e la Rivoluzione, in “Scritti Politici” (a cura di Nicola Matteucci), Vol. I, UTET, Torino 1969 pag.631

[8] M. Weber, cit. pag.108

[9] M, Duverger, Giano, le due facce dell’Occidente, Edizioni di Comunità, Milano 1973 pag. 13

[10] K Polanyi, Per un nuovo Occidente, il Saggiatore, Milano 2013 pag.215

[11] M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976 pag.242

[12] ibidem pag.244

[13] A. Smith, La ricchezza delle nazioni, (prefazione di P. Sylos Labini), Newton Compton, Roma 2010 pag. 21

[14] M. Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1976 pag.21



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