Piano Solo, quando si cominciò a perdere il senso dello Stato

Il libro di Mario Segni “Il colpo di Stato del 1964. La madre di tutte le fake news” (Rubbettino) non porta elementi in grado di smentire l’interpretazione storiografica prevalente del “Piano Solo” rappresentata dal libro di Mimmo Franzinelli “Il Piano Solo. I servizi segreti, il centrosinistra e il ‘golpe’ del 1964” (Mondadori).

Giorgio Pagano

Il libro di Mario Segni “Il colpo di Stato del 1964. La madre di tutte le fake news” (Rubbettino, 2021) è una testimonianza interessante – e anche una prova di amor filiale verso il padre Antonio, Presidente della Repubblica dal 1962 al 1964 – ma non apporta documenti nuovi che possano modificare l’interpretazione storiografica prevalente, rappresentata dal libro di Mimmo Franzinelli “Il Piano Solo. I servizi segreti, il centrosinistra e il ‘golpe’ del 1964” (Mondadori, prima edizione 2010, quinta edizione 2021). Questa interpretazione non sostiene affatto che nel 1964 vi fu un tentativo di colpo di Stato: il titolo del libro di Segni è quindi fazioso, e si potrebbe dire che costituisce esso stesso una fake news. La tesi prevalente è ben sintetizzata da Miguel Gotor:

«[…] in base alla documentazione nota e a quella superstite il capo dello Stato non avallò mai un golpe ma alimentò il progetto di una “intentona”, ossia di una minaccia di svolta autoritaria, con l’obiettivo di esercitare una pressione in grado di condizionare gli equilibri politici, frenando il centrosinistra con le buone o con le cattive».[1]

Questo tentativo di una pressione di tipo militare per condizionare gli equilibri politici ed “edulcorare” – il termine fu usato da Aldo Moro nel suo “Memoriale” del 1978 – la spinta riformatrice del centrosinistra fu alimentato dal Presidente della Repubblica, come risulta da molte fonti dirette e documenti.

Il Piano Solo fu approntato dal Comando generale dell’Arma dei carabinieri durante la crisi politica dell’estate del 1964 e fu consegnato ai vertici dell’Arma in una riunione tenutasi il 14 luglio. Da alcuni mesi l’Italia era governata dal primo centrosinistra, guidato dal democristiano Aldo Moro, vicepresidente il socialista Pietro Nenni. Il Presidente della Repubblica contrastava il centrosinistra perché lo considerava l’anticamera dell’ingresso dei comunisti al governo. Segni era ossessionato dall’espansionismo sovietico e da un possibile colpo di Stato comunista – uno scenario del tutto irrealistico e fantasioso – e viveva in una sorta di “stato d’assedio”. Vedeva nei propositi riformatori del PSI i prodromi del collettivismo. Attorno a lui, con la medesima impostazione, c’erano molti consiglieri: in primo luogo il Governatore della Banca d’Italia Guido Carli.

Nel febbraio 1964 il Presidente si era recato in Francia, dove era rimasto ammirato dalla professionalità dei reparti speciali anti sommossa della polizia. Al suo ritorno incontrò il ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani per proporgli il “modello francese”. Questo il ricordo di Taviani:

«Che cosa sia successo a Segni non sono mai riuscito a capire. Rimase fortemente impressionato dalla organizzazione antistalinista dei francesi […] Mi chiese – al nostro primo incontro – che cosa avessimo previsto in caso d’insurrezione armata comunista. Gli risposi che – dopo la sconfitta interna dei secchiani – né io né Vicari [il capo della Polizia, NdA] avevamo preoccupazioni di quel genere. “Andando avanti di questo passo” mi rispose secco, “tra un anno sarò costretto a dare il mandato per il governo agli stalinisti”. Dal 22 febbraio Segni non ricevette più Vicari. Ricevette soltanto il generale de Lorenzo, comandante dell’Arma. Poi allontanò da sé, a poco a poco, anche Cossiga. Li riteneva troppo di sinistra».[2]

L’obiettivo di Segni erano le dimissioni di Moro e l’incarico a una personalità centrista per un governo monocolore democristiano di minoranza o comunque “di emergenza”, che preparasse le elezioni anticipate. Entrato in crisi il governo Moro (25 giugno), Segni lavorò a questo obiettivo con grande determinazione. Nella seconda settimana di luglio diede udienza al Quirinale a Giovanni de Lorenzo e si impegnò in tutti i modi per mostrare allo stato maggiore democristiano la praticabilità, anche sul terreno dell’ordine pubblico, dell’alternativa al centrosinistra.

Il Piano Solo puntava al controllo delle “aree vitali”, cioè al presidio di Milano, Genova e Torino e all’occupazione dei punti nevralgici di Roma, per impedire la costituzione di postazioni nemiche in sedi di partito, redazioni giornalistiche, emittenti radio-televisive, centrali telefoniche. Le disposizioni per Milano prevedevano l’occupazione delle federazioni di PCI, PSIUP, PSI e delle redazioni de “L’Unità” e “Avanti!”: quindi anche della sede e del giornale di un partito di governo. Il Piano prevedeva inoltre che 731 “sovversivi” (dirigenti del PCI e della CGIL, giornalisti e intellettuali, qualche socialista) fossero internati a Capo Marrargiu, in Sardegna, nella base di addestramento della struttura atlantica Gladio, senza che il Governo e – apparentemente – anche la Nato ne fossero informati. Il nuovo governo americano, presieduto da John Kennedy, era favorevole al centrosinistra e contrario al progetto eversivo, che ben conosceva; ma questo «potenziale uso indebito della struttura Gladio […] non è credibile pensare fosse sconosciuto agli statunitensi». [3]

Grazie al Piano solo la sicurezza delle istituzioni – de Lorenzo assicurò Segni in tal senso – sarebbe stata garantita nel caso di azioni di piazza dei comunisti e dei socialisti contro la soluzione politica per cui il Presidente stava lavorando.

Il PSI sembrava avere ben chiaro il quadro:

«C’è, da parte delle destre e delle forze confindustriali, il tentativo di spingere verso soluzioni di “emergenza” o addirittura di rottura della situazione democratica e di mantenimento dell’attuale regime costituzionale».[4]

Il PCI aveva preoccupazioni analoghe. Enrico Berlinguer scrisse che i dirigenti del PCI «erano pienamente consapevoli delle trame che circoli reazionari vanno intessendo per preparare una trasformazione aperta di parti essenziali del nostro ordinamento democratico».[5]

Molti dirigenti del PCI e della CGIL dormirono, in quei giorni, fuori di casa. Ma Moro fu accondiscendente con Segni e Nenni si piegò:

«L’unione ci è imposta dal fatto che non c’è nessun’altra maggioranza possibile e che se entro 48 ore non ci mettiamo d’accordo, nessuno sa cosa può succedere: forse un governo per le “elezioni”; forse un governo presidenziale tipo Tambroni 1960; in ogni caso, l’avventura».[6]

Sabato 18 luglio venne finalmente siglato l’accordo, dopo le ultime, pesanti, pressioni di Segni e di de Lorenzo – ma anche del capo della polizia Angelo Vicari, in un quantomeno anomalo incontro promosso da Segni a casa di Tommaso Morlino tra lo stato maggiore della DC, de Lorenzo e Vicari – perché Moro si ritirasse.
Nacque un centrosinistra “moderato” e “normalizzato”. A quel punto il Piano Solo – strumento vincente nello scontro con i socialisti – aveva esaurito la sua funzione.

A sostegno di questa tesi non mancano le fonti democristiane, anzi sono decisive.

Il democristiano Mario Scelba, più volte ministro dell’Interno, raccontò di essere stato convocato nel giugno 1964 da Segni, che lo informò della sua volontà di porre fine al centrosinistra e al Governo Moro e di voler costituire un governo del presidente presieduto dallo stesso Scelba o dall’on. Giuseppe Pella (in seguito Segni pensò di affidarsi al Presidente del Senato Cesare Merzagora, esponente del mondo finanziario milanese, NdA). Alle obiezioni di Scelba, che tra l’altro chiese al Presidente «se avesse un programma per dominare le dimostrazioni che un governo presidenziale avrebbe sicuramente provocato, Segni rispose di non aver elaborato alcun programma ma che contava sui carabinieri». «Domandai poi a Segni – proseguì Scelba – se aveva parlato dei suoi progetti con il ministro dell’Interno, on. Taviani, da cui dipendeva la polizia. Segni reagì subito dicendo: “Non parlarmi di Taviani che è un comunista e quindi non posso fidarmi della polizia”».[7] Da qui il nome del Piano: “Solo” perché riguardò solo i carabinieri.

Ma la fonte diretta più chiara e netta è quella di Aldo Moro, che nel suo “Memoriale” dal carcere scrisse:

«Il tentativo di colpo di Stato […] finì per utilizzare questa strumentazione militare essenzialmente per portare a termine una pesante interferenza politica rivolta a bloccare o almeno fortemente dimensionare la politica di centrosinistra, ai primi momenti del suo svolgimento. Questo obiettivo era perseguito dal Presidente della

Repubblica on. Segni […]. L’apprestamento militare, caduto l’obiettivo politico che era quello perseguito, fu disdetto dallo stesso capo dello Stato».[8]

La tesi di Moro coincide con quella del suo collaboratore Corrado Guerzoni, nel suo libro “Aldo Moro” (2008) e in un’intervista a Mimmo Franzinelli.

Che il Piano Solo esistesse e che il Presidente della Repubblica ne fosse a conoscenza risulta anche da un documento americano, per lungo tempo coperto dagli omissis, pubblicato da Franzinelli in “Il riformismo alla prova” (2012).

Mario Segni basa le sue tesi soprattutto sulla condanna dei giornalisti Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi nel processo per diffamazione del 1968. Che cosa era accaduto? Tre anni dopo l’“intentona”, grazie alle rivelazioni del settimanale “L’Espresso”, uscito con un’inchiesta intitolata “Complotto al Quirinale. Segni e de Lorenzo preparavano un colpo di Stato”, si scoprì il Piano Solo, e la riunione del 14 luglio 1964 in cui fu presentato ai vertici dell’Arma. Scrivere di “colpo di Stato” non corrispondeva, lo abbiamo visto, alla realtà. Ma un tentativo di minaccia militare vi fu.

Nel processo il diritto alla difesa fu impedito dal segreto politico-militare e dagli omissis posti da Moro e Cossiga ai documenti chiesti dalla magistratura.

La verità è che «nel nostro Paese vi è una consolidata scissione tra verità giudiziaria e verità fattuale, a causa dei pesanti condizionamenti politici»[9]: si pensi alla strage di piazza Fontana. Per questo motivo gli storici «hanno il diritto-dovere di non fermarsi all’ossequio delle sentenze, esercitando la libertà di ricerca».[10] Le fonti e i documenti citati dal libro di Franzinelli – alcuni tra i tanti – dimostrano che fu una sentenza fragile e ipocrita, e che De Lorenzo fu utilizzato e si fece utilizzare come capro espiatorio, per coprire le responsabilità istituzionali e politiche di Segni.

Il 18 febbraio 1978 Eugenio Scalfari, diventato nel frattempo direttore de “la Repubblica”, fu ricevuto da Moro: fu una sorta di visita di rappacificazione. Al momento del commiato, Moro tornò sulla vecchia polemica:

«Eravamo già in piedi e mi mise una mano sul braccio, lui così schivo di contatti fisici. Mi disse: “Lei ha ancora del rancore per me, per quella vecchia storia degli omissis”. “È vero” gli risposi. “Lei in quell’occasione violò la Costituzione, perché rese impossibile l’esercizio della difesa dell’imputato, che è un principio sacro per chi crede alla democrazia”.

“Ha ragione. Ma vede, c’è un altro principio nella Costituzione, ed è quello di tutelare lo Stato anche col segreto quando ciò sia indispensabile per garantirne la sicurezza. Io, come Presidente del Consiglio, dovetti scegliere tra l’uno e l’altro principio. Questa è la mia giustificazione. Comunque mi dispiace molto di essere stato costretto a fare quella scelta”».[11]

Negli ultimi giorni di vita Moro assunse un atteggiamento opposto: «non valutava più la fedeltà alla DC come un dovere istituzionale».[12]

Il libro di Segni jr. si inserisce in un filone che nega che nel giugno-luglio 1964 sia accaduto qualcosa di anomalo, e sostiene che la voce del golpe sarebbe frutto di una manipolazione del KGB, come affermato da Lino Jannuzzi. Ma è lo stesso storico autore della Prefazione al libro, Agostino Giovagnoli, a ritenere «inattendibile»[13] la testimonianza di Jannuzzi.

Segni jr. condivide il disegno paterno di «combattere la spinta alla collettivizzazione del Paese»[14]:

«Il suo intento non è quello di moderare il centrosinistra, ma quello di interromperlo».[15]

Non è il comportamento del Presidente a essere anticostituzionale, ma il disegno riformatore del centrosinistra, in primo luogo la programmazione economica e la riforma urbanistica. Gli atti del padre furono sempre nell’ambito della moral suasion, e le misure prese con il Piano avevano «un carattere preventivo, e non offensivo»: «si trattava di azioni rivolte a controllare e neutralizzare gli attacchi all’ordine pubblico, mai di piani diretti ad influire sulle vicende politiche in corso».[16] Su questa tesi concorda nella sostanza, nella Prefazione, anche Giovagnoli, secondo cui la linea di Segni «rientra nei poteri del Presidente della Repubblica».[17]

Ma l’incostituzionalità delle misure assunte da Segni appare evidente. L’Arma dei carabinieri dipende dal ministro dell’Interno, non dal Presidente della Repubblica: Segni si comportò come se l’Italia fosse una Repubblica presidenziale, ed egli potesse disporre a piacimento di un corpo dello Stato. Come si può definire costituzionale un piano che prevedeva di occupare le sedi di partiti e giornali?

Secondo Segni jr. il padre non riuscì nel suo obiettivo: il centrosinistra rimase, dalla crisi si uscì con il Governo Moro 2. Ma si può anche dire che Segni colse un risultato di fondo: Moro e Nenni virarono su un programma di governo più moderato, accantonando le riforme più significative (programmazione economica, riforma urbanistica, istituzione delle Regioni). Il centrosinistra, svuotato dell’impulso riformatore, perse da allora ogni forza propulsiva.

Sul piano della politica economica passò la linea Carli-Colombo [Emilio Colombo, il ministro del Tesoro, NdA], sostenuta anche da Robert Marjolin, vicecommissario della Comunità economica europea. Come conferma il “Memoriale” di Moro, la minaccia militare fu complementare all’azione politica svolta da gruppi di pressione ostili al centrosinistra. Non ebbe quindi un effetto autonomo: secondo Giuseppe Vacca «essa fu attivata quando il programma del centrosinistra era già stato colpito al cuore dall’azione concertata del Governatore della Banca d’Italia e del ministro del Tesoro».[18]Il riferimento è alla stretta economica depressiva del 1964, puntualmente ricostruita nelle sue memorie dal Governatore Guido Carli.

Il Piano Solo non fu dunque un colpo di Stato, ma la manifestazione evidente dell’esistenza di uno “Stato duale” o dalla “doppia lealtà”, i cui apparati furono mobilitati per volgere a favore di alcuni attori politici la lotta per il potere.

Nasceva, di fatto, la “strategia della tensione”. Non a caso, nel maggio 1965, il variegato campo di forze che si era mobilitato nel Piano Solo si ritrovò nel convegno sulla “Guerra rivoluzionaria” contro il comunismo organizzato dall’Istituto militare per gli affari strategici “Luigi Pollio” e finanziato indirettamente dai servizi segreti militari. Qui, per la prima volta, la “strategia della tensione” fu pubblicamente teorizzata.

Con il loro comportamento di fronte al Piano, la DC – ma anche il PSI, che cedette e coprì – avevano aperto il varco all’impiego sempre più pervasivo delle strutture dello Stato nella battaglia politica. Si comprende, dunque, il giudizio di Vittorio Foa:

«Quello che si chiama il senso dello Stato, la responsabilità cioè del dirigente politico verso la collettività, ne uscì umiliato. Sono convinto che oggi più che mai, quando lamentiamo la perdita di senso dello Stato nel nostro Paese, dobbiamo riferirci a quel passaggio».[19]

Detto questo, occorre convenire con Giovagnoli quando sostiene che la subalternità politica della sinistra nella storia d’Italia non si spiega tutta «con l’azione di forze oscure, di azioni illegali, di complotti internazionali ecc.»[20] La sconfitta si spiega non solo con «il ruolo di altri attori politici, relegati nel “sommerso della Repubblica”», ma anche e soprattutto con «l’insufficienza della cultura politica della sinistra»[21], che è alla radice dell’assenza di «un soggetto più “riformista” e insieme più “radicale”: “socialista di sinistra”, libertario, non classista, nonviolento».[22]Non servono i miti autoconsolatori di sconfitte negate ma la capacità – anche dell’interpretazione storiografica – di collocarsi dentro la trama di eventi storici sempre indecisi, ancorché apparentemente definiti; e di fotografare, anche in negativo, quello che veramente è accaduto confrontandolo con le ulteriori possibilità che non si sono verificate. Per nuove congetture fondate, mai dando per scontato o per fatale l’accaduto.

[1] Miguel Gotor, L’Italia nel Novecento, Torino, Einaudi, 2019, p. 216.

[2] Paolo Emilio Taviani, Politica a memoria d’uomo, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 472-473.

[3] Miguel Gotor, L’Italia nel Novecento, cit., p. 217.

[4] La posizione dei partiti per la soluzione della crisi, “Avanti!”, 30 giugno 1964.

[5] Enrico Berlinguer, Respingere il ricatto, “L’Unità”, 1° luglio 1964.

[6] Pietro Nenni, Gli anni del centrosinistra. Diari 1957-1966, a cura di Giuliana Nenni e Domenico Zucaro, Milano, Sugarco, 1982, p. 375, 7 luglio 1964.

[7] Mario Scelba, Per l’Italia e per l’Europa, Roma, Cinque Lune, 1990, p. 140.

[8]Il memoriale di Aldo Moro rinvenuto in via Monte Nevoso a Milano, a cura di Francesco M. Biscione, Roma, Coletti, 1993, p. 46.

[9] Mimmo Franzinelli, Il Piano Solo, i servizi segreti e il “golpe” del 1964, Milano, Mondadori, 2021, Prefazione alla quinta edizione, p. IX.

[10] Ibidem.

[11] Eugenio Scalfari, Quel che Moro mi disse il 18 febbraio, “la Repubblica”, 14 ottobre 1978.

[12] Mimmo Franzinelli, Il Piano Solo, i servizi segreti e il “golpe” del 1964, cit., Prefazione alla quarta edizione, p. XXX.

[13] Agostino Giovagnoli, Prefazione a Mario Segni, Il colpo di Stato del 1964. La madre di tutte le fake news, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, p. 11.

[14] Mario Segni, Il colpo di Stato del 1964. La madre di tutte le fake news, cit., p. 11.

[15] Ivi, p. 76.

[16] Ivi, p. 20.

[17] Agostino Giovagnoli, Prefazione a Mario Segni, Il colpo di Stato del 1964. La madre di tutte le fake news, cit., p. 10.

[18] Giuseppe Vacca, L’Italia contesa. Comunisti e democristiani nel lungo dopoguerra (1943-1978), Venezia, Marsilio, 2018, p. 234.

[19] Vittorio Foa, Questo Novecento, Torino, Einaudi, 1996, p. 298

[20] Agostino Giovagnoli, Prefazione a Mario Segni, Il colpo di Stato del 1964. La madre di tutte le fake news, cit., p. 13.

[21] Giorgio Pagano, Maria Cristina Mirabello, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, Volume secondo, La Spezia, Edizioni Cinque Terre, 2021, p. 299.

[22] Ivi, p. 305.



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