Piantare alberi contro il cambiamento climatico? Occhio all’inganno

Piantare alberi per ridurre le emissioni e salvare la Terra: una tendenza che, per quanto allettante e all’apparenza semplice, presenta diverse complicazioni. Non tutti i terreni sono infatti utilizzabili per piantare nuovi alberi e, dove ciò è possibile, la competizione tra agricoltura, allevamenti e altre attività riduce ulteriormente lo spazio a disposizione. Le proposte di riforestazione per salvare il Pianeta possono celare operazioni di “greenwashing”, che pongono in cima alle priorità gli interessi delle aziende invece della riduzione delle emissioni e della tutela delle foreste già esistenti.

Andrea Bedon

Un articolo di Stefano Mancuso apparso su Repubblica del 28 marzo propone, in toni molto trionfalistici, che sia possibile salvare la Terra dalla crisi climatica piantando cento miliardi di alberi attorno alle città. Il pezzo si riferisce a un articolo, curato tra gli altri dallo stesso Mancuso, pubblicato sulla rivista scientifica Nature Cities il giorno precedente e che stima quanti alberi è possibile piantare in aree prossime ai centri urbani. Quella di usare alberi per combattere il cambiamento climatico è una tentazione che ha già una storia articolata. L’idea ha diversi pregi: è intuitiva, naturale, e apparentemente semplice da attuare. Già nel 2006 Wangari Maathai, attivista keniota, lanciò una prima campagna sostenuta dalle nazioni unite per piantare un miliardo di alberi, che in pochi anni evolvette verso il triliardo nella “Trillion Tree Campaign” ancora oggi esistente.
L’idea alla base è semplice: l’albero assorbe naturalmente CO2, con tanti alberi rimuoveremo la CO2 dall’atmosfera e ci salveremo dal cambiamento climatico. Tutto appunto molto semplice, anche fin troppo. Un articolo apparso su Science nel 2019 stima che il pianeta può supportare ulteriori 900 milioni di ettari di foreste, con un potenziale di cattura di carbonio corrispondente a circa 20 anni di emissioni ai ritmi attuali – una manna dal cielo per l’umanità. Secondo il lavoro di Mancuso e colleghi, tra 141 e 322 milioni di ettari si possono recuperare nei pressi delle città e quindi sarebbero immediatamente sfruttabili per piantare tra i 106 e i 241 miliardi di alberi. Questi però scendono a 34 – 101 sottraendo le aree già utilizzate per l’agricoltura. Iniziamo così a vedere il primo, grande problema di questo approccio: nelle aree in cui si possono piantare alberi, spesso capita che ci sia già qualcos’altro.
La competizione per la terra è un fenomeno causa di tensioni anche senza introdurre il tema della riforestazione. Proprio di questi giorni è la notizia che l’approvazione della europea Nature Restoration Law sia stata bloccata a causa delle proteste degli agricoltori anche per l’obbligo di lasciare a riposo il 4% delle loro superfici. Anche in prospettiva futura, considerando i cambiamenti climatici che restringeranno le rese e la domanda di oli per la produzione di biocarburanti, non c’è segno che la tensione sull’occupazione del suolo sia destinata a diminuire, e questo vale tanto per le aree periurbane quanto per quelle più remote/rurali. Una stima del 2022 dell’Università di Melbourne (Dooley et al.) indica che per un triliardo di alberi servirebbero 1200 milioni di ettari, che corrispondono a un decimo della superficie terreste sfruttabile e a un quarto della superficie coltivabile. Circa metà di queste zone dovrebbero essere riconvertite da altri usi, perlopiù agricoli. Come mostrato nei grafici, consultabili sul sito del Land Gap Report, la parte più facilmente impiegabile di queste aree è quella destinata alla pastorizia. Ecco allora un risvolto molto interessante per chiunque volesse impegnarsi a piantare alberi che chiama in causa il consumo di carne. L’allevamento, già una delle attività umane più impattanti e al contempo evitabili a livello di emissioni serra, è anche primo nemico della riforestazione.
Rendere effettivamente disponibile la superficie che può esserlo in teoria è solo il primo dei problemi. Anche ipotizzando di avere tutta la superficie necessaria, piantare alberi e farli crescere non è una questione banale, tanto che esistono innumerevoli esempi di progetti di riforestazione falliti. Una nuova foresta ha bisogno di cura e manutenzione, serve il coinvolgimento delle comunità locali che devono essere convinte e supportare l’operazione. È sbagliato pensare che basti mettere l’albero – o peggio il seme – a terra per smarcare una tacca dal totale di alberi da piantare.
Infine, anche la cattura effettiva di CO2 è una quantità che può variare anche di diversi ordini di grandezza, a seconda del tipo di pianta, del clima, delle circostanze locali. Le foreste poi non sottraggono carbonio per sempre, lo sequestrano temporaneamente ma esistono cicli di reimmissione in ambiente: perché l’albero si ammala e muore, a causa di incendi, o perché viene abbattuto per altri usi e a quel punto si pianterà un altro albero che però ci metterà del tempo a crescere. È un’illusione che l’albero piantato resti lì per sempre, anche in Italia molte foreste vengono utilizzate per la produzione di legname e questo crea dei cicli di reimmissione della CO2 e ricattura con la ricrescita. Per questo motivo, l’efficacia reale di rimozione gas serra potrebbe essere di gran lunga inferiore alle ambizioni iniziali.
A conti fatti, piantare alberi per combattere il cambiamento climatico è un’idea tanto semplice quanto pericolosa, perché attrae attenzioni e finanziamenti senza far percepire l’estrema complessità che sottende. La semplicità del tutto illusoria si è riflettuta anche nell’utilizzo indiscriminato e superficiale degli schemi di riforestazione come “compensazione” delle emissioni reali da parte di aziende. Gli stessi programmi che, a seguito di numerosi scandali sulla loro effettiva capacità di rimozione di CO2, sono ormai considerati puro greenwashing da parte di molte associazioni ambientaliste.
È proprio l’estrema difficoltà dei programmi di riforestazione che spinge a metterne in dubbio l’importanza. Le enormi risorse richieste possono infatti dare risultati molto più certi se applicati a ridurre le emissioni, come spingono a fare tutti i gruppi di studio più autorevoli, o al massimo a bloccare la deforestazione che ancora oggi procede. È chiaro che sia assurdo impegnare risorse enormi per piantare nuove foreste, quando ancora non riusciamo a proteggere quelle che ci sono già. Anche l’IPCC vede la riforestazione come un’operazione complementare e coadiuvante alla riduzione delle emissioni in atmosfera.
È risaputo che il cervello umano è molto più attratto dalle soluzioni additive piuttosto che quelle sottrattive. Per fare un esempio, troviamo molto più attraente comprare più cibi dietetici invece di mangiare meno, nonostante la seconda sia la soluzione più efficace. Così anche per il riscaldamento globale, ci piace pensare che facendo “di più”, piantando più alberi, potremo risolvere il problema, mentre la strada maestra deve essere rivedere tutto il sistema produttivo per emettere meno. Non c’è nulla di male a piantare alberi, ma indurre il pubblico a credere che, come da titolo dell’articolo di Mancuso “con cento miliardi di alberi intorno alle nostre città salveremo la Terra dalla crisi climatica” è sbagliato e dannoso. Per salvare la Terra dalla crisi climatica dobbiamo abbattere le emissioni di CO2, il prima possibile. In secondo luogo, mentre lo facciamo, smettiamo di deforestare e ripiantiamo alberi dove c’è spazio per farlo. Questa e solo questa è la scala di priorità corretta.
Per ulteriori approfondimenti: The illusion of saving the planet with a trillion trees (ft.com), Financial Times, 2022.

CREDITI FOTO: ANSA-ZUMAPRESS / Huang Bohan



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